Le vie per leggere la storia di un paese – in affanno o meno, in un periodo di crisi o in un tempo di egemonia – sono diverse a cominciare dai dettagli e proprio nei dettagli lo sappiamo bene si nasconde il diavolo. La lettura può quindi essere eseguita analizzando i fenomeni letterari, musicali, le arti visive e la produzione iconografica in genere, l’evoluzione della grafica e del fumetto – ad esempio facendo una collezione di pacchetti di sigarette o di figurine – in fine passando in rassegna la comunicazione pubblicitaria che porta in sé un messaggio di natura antropocentrica. Tuttavia, i dettagli, gli aspetti minuti soggetti d’analisi sopra elencati (possono essere molteplici, chi c’era negli anni Ottanta del secolo scorso si ricorderà delle copertine dei quaderni a uso scolastico che ritraevano o calciatori delle squadre di serie A o molto belli – più femminili – le illustrazioni di Holly Hobbie) oggi si sono smarriti nella memoria o comunque pare non abbiano più il giusto smalto che seduce l’osservatore più attento. Allora eravamo nel cuore dell’età capitalista, nella stagione della famosa Milano da bere, nella corsa che il consumismo dell’età industriale imponeva al nostro ritmo quotidiano. Oggi che siamo nell’era post-industriale, nel tempo post-capitalista, dove le certezze si sono sgretolate come rena di fiume, quelli che potevano essere dettagli sono diventati attori sociali sempre più in auge e il corpo, la persona in carne e d’ossa, una maschera inconsapevole del ruolo che recita.
Ora volendo riassumere la storia del corpo e del suo protagonismo, del rapporto che lega l’antico legame tra spirito e carne, ci viene spontaneo suddividere la sua biografica, la sua antropocentrica evoluzione in almeno tre grandi quanto inscindibili stagioni: la prima dal tempo in cui l’uomo è apparso sulla terra sino all’età medievale, la seconda dal Rinascimento sino alla fine del Novecento e l’ultima l’età post-industriale. Questo perché il corpo non solo è stato soggetto di una mutazione di genere o biologica ma anche il mezzo di espressione più efficace per recitare – come direbbe Goffman – nella società e in relazione al nostro prossimo. In altre parole, sul corpo si può leggere la storia dell’uomo e della civiltà, come se esso fosse un libro da consultare periodicamente, un diario biologico e sociale dove si memorizzano i vari passaggi di tempo, le evoluzioni e le involuzioni, lo zigzag curioso di una civiltà e del suo cammino. Possiamo dunque affermare che il corpo è una delle memorie dell’uomo e che per e in vari episodi sia stato il protagonista. Un protagonista importante dove, attorno al suo impiego in un lasso temporale assai lungo che dall’età preistorica passando dall’antica sino al Medioevo, l’uomo vi ha costruito una civiltà, vi ha intessuto un corpo sociale.
Se nell’età antica infatti il corpo era un elemento di lotta, legato all’uso frenetico della sopravvivenza e della caccia, un feticcio ingombrante ma vissuto in modo inconsapevole e felice, condiviso nel collettivo per soddisfare l’istinto della procreazione ma anche del piacere, in un tempo assai successivo, nella stagione ellenica o antica, esso fu oggetto di trasmissione tragica e nel gioco fittizio tra sogno e realtà – è sufficiente pensare al grande teatro greco-romano – archetipo della scoperta del piacere. Con il corpo si giocava, si faceva teatro, si riempiva lo spazio delle storie cantate, lontano da un Dio – per fortuna – sconosciuto come il solo e unico, si articolavano intrecci declamando versi epici. Esso diventa epica, si fa teatro, diventa il protagonista gioioso più prossimo alla vita e con esso si costruisce il tessuto sociale, si dipana la storia, attorno ad esso, procreando, si sviluppa la prima forma di famiglia nucleare. Una famiglia fondata sulla presenza del corpo, dell’involucro umano che ospitava in esso il pneuma ossia l’anima, e legittimata dall’empatia reciproca.
Purtroppo riassumendo non mi è possibile dilungarmi molto su questo aspetto e il discorso della famiglia va affrontato come capitolo a parte, a prescindere dal corpo oggetto del mio interesse.
Tuttavia, qui l’aspetto interessante è senza dubbio il rapporto tra carne e spirito e di come dal pneuma ci fosse la possibilità di un corpo che non c’è a prescindere ma che fosse tangibile proprio perché determinato dallo spirito. Dunque il corpo nasce dall’anima del suo essere. Senza anima, senza respiro non può esserci il corpo. E quindi è grazie allo spirito che anima, che l’involucro – quel concentrato di carne e ossa – lotta, vive, caccia prima e poi diventa contesa di piacere dopo; è grazie ancora allo pneuma se il corpo diventa storia, intavola l’epica, instaura nell’uomo la poesia come stato di grazia e canto d’amore, diventa allegoria per la rappresentazione. Attraverso e con il corpo l’uomo instaura i primi elementi di una civiltà, diventa il tramite unico e indiscusso dell’insieme delle cose, in altre parole: costituisce la società. Attorno a esso, attore indiscusso, anche la morte diventa qualcosa di gioioso. Morendo infatti si acquisisce il senso della vita passata, ci affidiamo all’eterno come possibilità di un protrarsi della vita mediante un significato profondo. L’anima che animava il corpo con tutte le sue funzioni, adesso nel sonno non solo dà significato alla vita ma da essa esala lasciando il corpo, che deve essere custodito gelosamente. Ecco allora che attraverso la morte si ha l’esigenza di un luogo x, di una epochè (di una sorta di Ade), dove poter riposare in pace sigillati da un alone mistico. Quel corpo destinato all’amore, quel corpo parlante diventa spirito e di conseguenza protettore per coloro che ancora vivono.
Man mano però che la storia procede e con essa l’uomo acquista consapevolezza della propria capacità fisica, ecco allora che il corpo diventa sempre più un protagonista, sempre più un tramite di possibilità: quel libro imprescindibile sui cui segni vi è la memoria dei giorni e dei tanti presenti. Il corpo diventa una merce di scambio. Con il passaggio dal corpo del pneuma al corpo-merce si determina il cambio di rotta, si intavola il capitolo della storia moderna.
Il corpo adesso diventa solo un mezzo di lotta e la sua anima non più spirito ma un viluppo di sensazioni e di percezioni ancora una volta impossibile di scissione dalla carne. L’involucro, le ossa, la persona fisica viene quindi impiegata per una lotta non più gioiosa ma totalmente di guerra. Muta quindi anche il rapporto tra uomo e tempo, dove quest’ultimo assume sempre più un significato preciso. Nasce quindi la consapevolezza che non c’è corpo se non calato in un tempo e che la temporalità ha comunque una scadenza: è un progetto a termine. Il corpo viene impiegato tramite una compravendita subdola nel lavoro, nella società, nell’amore, nei momenti ricreativi, nei rapporti empatici, per il resto della vita. Ecco allora che nell’età industriale il corpo diventa un valore di scambio economico. L’operaio che presta il proprio servizio in una catena di montaggio, in una bottega, o in qualsiasi altro lavoro è soggetto a un mercato, a uno scambio pagato. Persino il mero esistere diventa merce. Una merce alla quale viene corrisposto un riscatto in denaro. Allo stesso modo viene pagato l’amore – e là dove non intercorre il denaro per onorare lo scambio l’investimento si ha attraverso forme di consumo – che adesso si conta a ore, in cui il corpo diventando merce è un mezzo di trasmissione di potere e di consumo. Così si formulano e si concretizzano un insieme di realtà, a cominciare da l’humus sociale; a cominciare dalla famiglia che a differenza dell’antichità non è più legata al semplice stare insieme ma è finalizzata alla procreazione e quindi alla catena indissolubile della vita. La famiglia composta da un uomo e la donna diventa una eterotopìa mediante la quale si compie una volontà che prescinde il nostro volere. L’uomo, il maschio della casa, feconda la donna che genera a sua volta quella parte di lui destinata alla vita, ad essere merce di scambio e il suo potere, quello del maschio è nell’atto sessuale, si compie attraverso il coito e solo tramite l’unione della carne si può reggere un matrimonio (la sacra ruota vaticana infatti prevede la cancellazione del vincolo matrimoniale solo se l’atto non c’è mai stato, se la moglie non ha potuto adempiere all’atto procreativo o per rigetto o anche per impotenza del maschio) che a livello giurisdizionale, il celebre censimento, al figlio viene imposto – direi in termini illiberali – il cognome paterno, un maschio sull’uomo merce che riconosce la persona e la sua appartenenza e tramite il quale si trasmette il potere di una genia, di un passato di generazioni. La donna viene quindi esclusa da questa dinamica.
Tornando al corpo – dovendo sintetizzare – una volta merce è protagonista di uno scambio, di una contesa di consumo, diventa la macchina di una serie di prestazioni, di servizi. Non più protagonista gioioso ma coprotagonista assieme ad altre merci. Viene contemplato per una logica di mercato, libero di scambiarsi, oggetto di compravendita, di reclusione qualora presenti dei difetti. Nell’età industriale il corpo essendo valore di scambio deve essere perfetto. I’capo rotto – come si direbbe nella Firenze di una volta – viene declassato, sminuito del suo potere e se in errore, soggetto di una anomalia, recluso, tolto dalla vita di scambio. Così ecco l’uso delle carceri, dei manicomi in un passato recente, del cottolengo. Un corpo che presenta un deficit deve essere escluso dalla vita perché non capace di essere impiegato, quindi insoddisfacente per produrre ed essere offerta di scambio. Diviene oggetto di offesa, vilipendio, punito poiché incapace di autenticare il rito della consumazione e del mercato. Un rito di fissazione che se per il cattolicesimo è il battesimo (sia per la chiesa di Roma sia per quella ortodossa) per l’ebraismo così come per l’islamismo la circoncisione, per la società industriale sta nella selezione fisica – di quel corpo senza difetti – in un estetismo pret a porter.
La macchina corpo, il corpo merce ha bisogno per vivere in una logica di mercato di non essere difettato e qualora mostrasse la propria deficienza è oggetto di esclusione feroce non solo dal rito d’iniziazione ma per il resto del tempo e anche della morte stessa. Morte che nella stagione industriale diventa estinzione, una cosa inanimata leggera e priva di anima. La selezione fisica del corpo merce porta inevitabilmente all’estinzione e mai alla morte intesa come passaggio ultraterreno. Questo aspetto è quindi riscontrabile anche nel linguaggio. Nel tempo industriale, nella stagione del corpo-merce, la persona diventa deceduta o semplicemente estinta. Ma le morti non sono tutte uguali e non si muore tutti allo stesso modo. Ci sono morti e morti, per cui il capo rotto, il corpo difettato non decede ma si estingue e la sua estinzione non fa notizia: non è mediatica.
Nel tempo dell’era post-industriale il corpo presenta delle caratteristiche simili all’età capitalistica ma con alcune differenze notevoli. Anzitutto, il corpo non è più oggetto di contesa, vale a dire merce, ma è un prodotto mediatico che poggia la sua essenza e il proprio ruolo esclusivamente sull’immagine. L’immagine si legittima attraverso la perfezione, perché anche in questo caso una figura difettata è scartabile a priori. Al contempo il suo battesimo, il rito di iniziazione, come nell’età industriale sta nel consumo e solo in merito ad esso, solo che in questo caso il consumo è illusorio non più materiale: è mediatico. Il corpo diventa protagonista di un gioco che si svolge a distanza tramite dispositivi elettronici e l’intero panorama civile nasce si sviluppa e decede attraverso il web. Decede non muore. La morte non può avvenire in un corpo mediatico, ma solo in un corpo umano, lontano da ogni logica di mercato. Così tutte le relazioni si consumano in un’illusione, a distanza, e persino l’aspetto sessuale trova una legittimazione tramite un dispositivo (sta diventando sempre più frequente l’uso della videocam in cui il soggetto si rapporta all’altro dietro cospicuo pagamento in cambio di una dimostrazione erotica). Allo stesso tempo il corpo mediatico, che possiamo definire a distanza, viene ad essere oggetto del rapportato, una sembianza con voce e anima e la parvenza di un cervello, persino in ambito lavorativo. Basti pesare all’uso dei call-center, della DAD, e a tutte quelle attività che si svolgono tramite un dispositivo. Nell’età post-industriale, nella stagione del corpo mediatico non vi è più la cognizione del tempo, in quanto il corpo non è più databile come nel caso precedente ma si relazione a uno spazio più che a una questione temporale. Il corpo dei media non cade nel tempo, vive in un limbo che è lo spazio del web, degli imbonitori ombra, in una realtà che svela l’intero scibile ma nega l’approfondimento. In quest’era ogni cosa è di fatto svelata (dai libri alla musica, agli atti giuridici alla giustizia, alla scuola ecc..) ma non rivelata. All’uomo contemporaneo, al corpo del web la rivelazione è negata in quanto conoscenza del possibile (ancora compito dell’arte), mentre invece lo svelamento è qualcosa di tangibile e illusionistico al contempo. Insomma, si tratta di un gioco di prestigio legato all’attimo, all’effimero. Ma quest’attimo è il tempo del dramma, un’età che non conosce tempo e di esso non ne ha la cognizione, che si frammenta in uno spazio immaginario e in cui ogni relazione fisica e morale è disintegrata. Con il corpo mediatico e il suo impiego muore, anzi si estingue, ogni empatia e la rete diventa un incrocio di ombre e di luci, un ordito a doppia cucitura di una tela priva di sfondo, di un palcoscenico privo di azione. Il dramma dunque è servito. Il corpo si è ridotto ad un uso individuale e non più collettivo; un’oasi nel deserto disertata dall’altro. L’uomo del web, post-industriale è dunque l’uomo dell’estinzione civile, che non conosce ribellione, ma solo una reclusione eterna tramite un mezzo alieno. Anche l’estinzione, non più decesso come nell’età della merce o morte come tra gli antichi, è qualcosa di impalpabile: avviene e si costata non essendo più presente alle piattaforme del web. Il corpo intimidito così come si alimenta del nulla, dell’illusione così si estingue nello stesso identico modo. Lo scotto che deve pagare è assai salato, ma questo non gli è dato saperlo.
Nota critica a “Zebù bambino” di Davide Cortese
Pubblichiamo una nota critica di Davide Toffoli alla raccolta poetica “Zebù bambino” (Terra d’ulivi, 2021) di Davide Cortese.