Il nuovo libro di Davide Cortese si apre con la dedica a Gabriele Galloni, amico poeta prematuramente scomparso e voce attenta di quell’“eterno crepuscolo” in cui “scoccano insieme / la mezzanotte e il mezzogiorno” costringendo a un costante ribaltamento-scambio dal punto di vista maggioritario.
Zebù bambino, ‘protagonista’ della raccolta, ha difatti “ali nere d’angelo randagio” e ci costringe ad accettare il gioco chiarissimo (e per questo inevitabile) di immaginare una fantomatica infanzia del Signore del Male, in un atto di indagine che è introspezione e sguardo attento alla realtà. È un bambino come tanti, Zebù, dispettoso e spietato. Impossibile non specchiarsi, non comprendere che faccia profondamente parte di noi da sempre.
Frutti proibiti, simulazioni di guerra, macchie sui calzoni, bambole dalle teste mozzate… Un panorama che allude a quel che potrà essere. Contiene in sé già tutto il potenziale distruttivo (“Incendia la torta del suo compleanno, / chiude gli amici nel vecchio capanno. / Scarta da solo i regali avuti. / Brucia il capanno e tanti saluti”). “Ama la ricreazione / il piccolo Zebù” e tutto è raccontato da versi giocosi e ironici che, dopo aver fatto calare le difese emotive, si insinuano in una profonda riflessione sull’ineluttabile normalità del Male, troppo spesso confinato altrove e in realtà ben radicato in noi e nei nostri immediati dintorni. Oppure ci apre un’interessante finestra sull’idea quasi alchemica del mondo rovesciato, in una terapia di ribaltamento che ci trasformi e ci faccia acquisire coscienza.
È un diavolo bambino che cresce, prendendo confidenza con gli strappi, con i fuochi, con i dispetti (“Ruba la spada di legno a Gesù / quel monello del bimbo Zebù / gli pesta i piedi, gli fa lo sgambetto / non gli risparmia neppure un dispetto”); è presente lì, ben definito, a contaminare la dimensione idealizzata del mondo dell’infanzia, a ricordarci che, passo dopo passo, se non opportunamente bilanciato o armonizzato, prende forma e forza anche il Male: “Nella scatola di bambù / che un giorno gli donai io / serba una bambola voodoo / con le sembianze di dio”.
Questo intelligente libretto di Cortese può far pensare a Rodari, con la parola che si fa suono e forma, disegnando un paesaggio inatteso fatto di giochi e svolazzi. Giovanni Perri, a tal proposito, parla di uno scrutare il lato oscuro, di un giocare a rincorrersi e a prendersi, di una vera e propria “Epifania della soglia” impreziosita dalla dolcezza stilistica della parola[1].
L’indivisibilità primordiale e archetipica del Bene e del Male prende corpo in una fuga satirica che ci indica un’altra via, tutta giocata nella dimensione minima dell’istante come misura e passo dell’indecifrabilità esistenziale. Tutto appare, innocente e spietato, come rituale oscuro ed enigmatico. Il piccolo Zebù offende (“-Sei una schiappa-, -Sei grasso-, -Sei brutto-. / Ai compagni di gioco dice di tutto”), pretende, sbircia dal buco della serratura… Ma ha anche umanissimi attimi in cui resta incupito a piangere da solo in disparte da tutti (“Lacrima zolfo, il piccolo Zebù / gocce che sfrigolano / cadendo giù”).
Questa raccolta è composta da ventuno filastrocche irriverenti e salvifiche sulla soglia di quello che non siamo forse più abituati a dire o a percepire. Ricordano la gratuità del male compiuto o pensato dagli esseri umani. In un mondo che ci bombarda, chiedendoci sempre e solo di schierarci (anche se di rado ci fornisce le informazioni necessarie a comprendere), quello di Zebù bambino è un tentativo coraggioso di ricordarci la centralità necessaria di una fusione-contaminazione conclusiva delle forze, indispensabile per evolversi e per crescere.
Si tratta di dare voce a quella parte dell’umano che ben si nasconde dietro i pregiudizi e le false credenziali che costituiscono in realtà la sua vera natura, libera, volitiva e un poco egoista. Personalmente, non riesco a non percepire nel libro una sorta di ricerca alchemica che ci accompagni, come individui, in un percorso di presa di coscienza che sappia armonizzare gli opposti e soprattutto riappropriarsi dell’energia a cui si rinuncia ogniqualvolta si divida (in un’operazione, quella sì, davvero diabolica) qualcosa di unito in parti asettiche e non comunicanti fra di loro. E mi sento di collocare in questa dialettica di separazione–riunificazione anche l’enigmatico finale… (“Diventerà un bel giovane / il piccolo Zebù. / Presto farà breccia / nel cuore di Gesù”). Nella potenza semplice dell’ambiguità profonda di quel “farà breccia”, è contenuta una preziosa chiave di lettura, al tempo stesso possibile interpretazione e prospettiva tangibile.
Il punto di forza è costituito però proprio dalla leggerezza che ben maschera queste profondità necessarie perché, come suggerisce Gino Scartaghiande, il volumetto di Cortese è “d’intonazione delicata, come quelle carte cinesi degli aquiloni, ma con le nervature ontologiche di un aquilone pascoliano”[2] ed evidenzia una duttile maestria nell’uso del metro (sulla scia di una tradizione che passa da Beppe Salvia, Gabriella Sica e dallo stesso giovanissimo Gabriele Galloni), ma che soprattutto riesce ad approdare a una tragedia che sa mutarsi in commedia.
Zebù bambino ha il potere discreto e invasivo delle favole. Punta dritto al cuore e lo colpisce, magari dilaniandolo e dilaniandoci, ma di sicuro mostrandosi ben attento a suggerirci di ricostruire, sempre e comunque, e di ripartire proprio da lì.
[1] https://www.menaboonline.it/scrutare-il-lato-oscuro.
[2] https://poesiainverso.com/2022/01/16/davide-cortese-zebu-bambino/.