Morfologia del dolore nominale in “Testimoni” di Emanuele Franceschetti.

Proponiamo una lettura critica di Pietro Polverini a "Testimoni" (Aragno, 2022) di Emanuele Franceschetti.

Per introdurre il discorso critico sull’ultimo lavoro letterario di Emanuele Franceschetti, il libro di poesia Testimoni di recente uscito per l’editore Nino Aragno, si potrebbero considerare alcune osservazioni di Heidegger al fine di comprendere alcuni elementi che giocano in costante rifrazione dialettica all’interno di quest’opera. Da una parte, nella citatissima Lettera sull’umanismo, con un insolito nitore per il filosofo tedesco, si sosteneva che “il linguaggio è la casa dell’essere” (p. 31) e che “i pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora”. Il discorso sul rapporto tra res e logos entra però in un cortocircuito teoretico laddove si tenga in considerazione il saggio, meno citato, meno letto, L’essenza del fondamento, contenuto in Segnavia. Che senza il linguaggio, l’essere non possa darsi è chiaro: su questa linea si pongono già le riflessioni platoniche compendiate nel Cratilo. Ma la questione diviene un gliommero nel momento in cui, di questo essere, di cui si postula il disvelamento nella parola, si interroga la natura del fondamento. Nel trattato Heidegger si chiede cosa sia (Was-Sein) il fondamento. Il principio di ragione, secondo cui omne ens habet rationem, ci porta sulla strada secondo cui l’ente, tutto ciò che è (quindi l’essere che può accadere nella parola) è perfettamente razionale. In questo punto, in questo ulcerante iato si situa la poesia di Testimoni: il nexus tra soggetto e predicato, forse predicabilità, non è sufficiente per ritenere che l’essere possa accadere sempre nel verbo: l’essere trascende la parola e il fondamento, in quanto nulla, resta senza resa linguistico-simbolica. Da questa tensione ontologica si dischiude un lavoro poetico definibile come tentativo di abbozzare una “morfologia del dolore nominale”. Non a caso il primo componimento, dopo le iniziali e spiazzanti epigrafi di Ernst Bloch e Maurice Blanchot, tratteggia i lineamenti sfocati di una memoria personale dal cui “fondo si riversa un sillabario, | cose insepolte che ancora significano” (p. 9). Questo foro da cui tracimano segni e parole che tentano, con fatica e streben, di significare, è l’agnizione dell’indivisibilità di vivi e morti “nell’equivoco del tempo lineare” (Ibidem).  Su questo fronte vengono in mente in versi di Vladimir Hòlan: “Io so che il vivo è soltanto un errore | commesso nel censimento dei morti”, ma si potrebbero citare anche De Angelis e Raboni. Di conseguenza, percorrendo le tre sezioni che compongono il libro – Eingedeken, Un pensiero col suo corpo e Misure sul canto – si può notare come, dal riconoscimento del nulla originario, il poeta tenti di ricordare o trattenere ciò che il nulla ha assorbito, nella consapevolezza che “questo è stato” (p. 10). I versi, quindi, sono sfumati da quel sentimento che i russi denominano тоска, ossia “nostalgia” non per ciò che è stato, ma per come potenzialmente poteva essere: in questo senso, la nostalgia per l’alternativa al nulla finale, testimoniato dalla parola. Franceschetti, quindi, nota con evidente distimia versale “che nulla capovolgerebbe il nastro” (p. 11). La testimonianza, in questo senso, oltre al violento riconoscimento di “ciò che è stato”, si configura come anelito verso una possibilità di totalmente altro rispetto al fondamento, nel viluppo indistricabile col suo nulla. “L’eterna farsa del durare” di celiniana memoria si conserva in un “codice di segni universali, una radice” (p. 11). Per questo, “un segno insiste, sale a filo all’acqua” (p. 16), pronto a rammemorare l’alterità appercepita dal poeta, ma sempre scossa e sconnessa dalla parola. La catena suono-segno-nome è un’opzione di salvezza: di qui le ragioni di un’epigrafe blochiana, autore quest’ultimo de Il principio speranza, filosofo del “non ancora”. Ma la redenzione è granulare, già corrosa nel punto in cui viene pensata: di qui si dirama il lungo concatenarsi di motivi thanatropici dapprima condensati nel ricordo dei martiri di Otranto “schiantati dai bastioni | oppure questa pace di ossa che calcificano, | la vita tra l’origine e la soglia” (p. 14) – qui in dialogo con Anatomia, poesia contenuta nel recente Historiae di Antonella Anedda, poi disseminati in versi legati alla dimensione suicidaria, elemento persistente nella tastiera lemmatica dell’autore. Per questo Franceschetti recita: “Ecco il mondo. | Significare, stare per qualcos’altro |che non sai”, in piena antifrasi con la celebre poesia zanzottiana Al mondo contenuta in La beltà. In questa agnizione Franceschetti richiama la “pelle morta mescolata a pelle morta” (p. 32), nella coscienza che “il nome in cui ti tengo è un segno |che affonda e brucia” (p. 35). Come poi già accennato, la dimensione thanatropica, come ricorda Bela Grunberger, propria della personalità narcisistica, si accorda al tema suicidario: partendo da una citazione di Honoré Balzac tratta da Le illusioni perdute, “il suicidio è l’effetto di un sentimento che potremo chiamare stima di sé”. Deriva da questo esergo questa piccola prosa: “Non so che viso avesse, si chiamava Ludwig Boltzmann. Suicida per la gloria di nessuno nei pressi del castello di Duino. Avranno manomesso le sue carte, stabilito che le sue ricerche sulla direzione del calore non sarebbero state decisive, che la scienza effettiva è un’altra cosa, e hanno lasciato che anche lui restasse nel moto imperscrutabile degli atomi” (p. 43). Di fronte a questa condizione prevale nel nostro autore la convinzione secondo cui “non c’è più nulla. C’è un universo di parole che non riconosci” (p. 45). In conclusione si può dire che la poesia di Franceschetti, debitrice delle tendenze proprie della tradizione tragica della poesia del Novecento – pur affrancatosi da qualsiasi consolazione legata alla cantabilità, alla bontà confortante di una prosodia lineare – si staglia con una certa evidenza nell’orizzonte contemporaneo, difficilmente riconducibile a scuole o a una matrice univoca, presente dal primo all’ultimo componimento del libro. Testimone, quindi, come martire della lingua che non tiene il nulla del grund. Testimone del “non ancora” che si lega all’essere.

 

Bibliografia di riferimento

Emanuele Franceschetti, Testimoni, Torino, Nino Aragno, 2022.

Martin Heidegger, L’essenza del fondamento, in Segnavia, Milano, Adelphi, 1987.

Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo, Milano, Adelphi, 1995.

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Silvia Righi | In direzione uguale e contraria. Sulla poesia di Laura Di Corcia

“In tutte le direzioni” (Laura Di Corcia, lietocolle&pordenonelegge) è una contro-Odissea, il canto in cui il ritorno è una meta a cui non aspirare e il passato non è una spinta ma una condanna, e deve essere inibito per la pura sopravvivenza. Silvia Righi recensisce l’ultimo libro della poetessa Laura Di Corcia, uscito dopo due anni dalla plaquette “Traduzione e microsismi” (2017) (Rimini/ParcoPoesia).

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