Herbarium magicum: l’esordio uroborico di Bianca Battilocchi.

Proponiamo una lettura di Giulio Medaglini a "Herbarium Magicum" (Anterem edizioni, 2021) di Bianca battilocchi

Herbarium magicum (Anterem edizioni, 2021) è la raccolta d’esordio di Bianca Battilocchi pubblicata nella collana Nuova Limina. Una silloge in cui già dal titolo è possibile individuare un’unità dei contrari: il concreto, connesso a una ratio che ordina e cataloga, ovvero l’erbario, e il magico compresente, processo invisibile che sulla realtà agisce sfumandone i confini.
Questo connubio si compie tramite il linguaggio di queste poesie che funge da  carrucola, pronta a scendere nel mondo ctonio delle «sorgenti», nei «pertugi», nei «fori», nelle «finestre senza fondo» che promettono una possibilità di palingenesi e nuovi orizzonti irriducibili, per questo inconoscibili, ma solamente esperibili come ombelichi del sogno[1] connessi all’ignoto o squarci atemporali alla maniera dei tagli di Lucio Fontana.
In questi varchi possiamo entrare a partire da una lingua che nella poesia di apertura viene definita edenica, così come una lingua edenica era per Zanzotto[2] la sola che avrebbe potuto soddisfare le pretese dell’espressione poetica. Battilocchi tramite una fase di sistole riesce a tornare all’origine richiamando a sé frammenti di latino, greco e sanscrito, che possono essere accostati tra loro creando dei cortocircuiti di senso proprio come nei Tarocchi di Emilio Villa[3]:

per germi spiraliformi da coltivare

col fiato anèmos

 

in offerta

le novizie foglie

giocano a nascondino

con i fantasmi per l’alba

 

esperienza concava

ak ank ancus

 

di anelito

(da Herbarium magicum, p.12)

 

Vediamo come anèmos “vento” faccia eco al titolo della prima sezione Anemoni, ma anche alle «inanellate capigliature pueblo» descritte da Aby Warburg ne Il rituale del serpente[4],e muti in anelito, come quello mitologico di Zefiro e Borea per la ninfa Anemone trasformata in fiore dall’invidia di Flora. O ancora come la radice sanscrita ank “piegare” dischiuda quella latina ampliando l’«esperienza concava» in una pluralità di significati che lo stesso lettore è chiamato a dare. Le «lingue d’oscuro agglutinate»[5] per utilizzare ancora una formula zanzottiana, fanno sì che possano germinare interpretazioni plurime, concatenando suoni e sincretizzando lingue e culture.
Questa polilalia e movimento à rebours, che siconfigurano come la volontà di ricercare un’intemeratezza perduta, si uniscono a un sapere rizomatico che abbraccia la religione cristiana e quella pagana facendo coesistere nella stessa raccolta il dio egizio Horus e Santa Teresa.  Un processo – e ancor prima – un intento compositivo che si rafforza nei seguenti lavori dell’autrice come ne La fonte di Isadora[6] in cui avviene lo straordinarioincontro tra Isadora e Dorotea.
È un conglomerato linguistico e culturale quello a cui si affianca l’elemento naturale, un paesaggio restituito attraverso l’occhio interiore, affinché l’anima venga rieducata a percepire come suggerisce la citazione di Cristina Campo posta in esergo.
L’imperativo è allora quello di sprofondare «nel sonno vigile / dell’anima mundi», per tradurre «in idioma nuovo», farsi «insediare» per «risillabare». Verbi come notiamo sovente all’infinito e all’imperativo che hanno la funzione di decostruire il sé come un mandala da rifare. «Slogarsi per logarsi» come scriveva Villa[7], ma anche dissociazione da uno stato di coscienza che non permetterebbe una piena comunione con l’ambiente. C’è dunque una passività del soggetto che rimane dietro il velame della lingua: la prima persona e il tempo presente, assenti nella raccolta, li troviamo solo in Quinto movimento.

Quinto movimento (immergersi tutta nel fondo abisso)

m’inghiotte

una piramide rovesciata

 

sorpasso in un lampo le figure incerte

le incessanti le instabili forme

tutto

in

passeggeri

profili

da cui rifioriscono nuovi esseri

nuove braccia-rami

che annodano e

affondano

 

triangolo e quadrato

si ricompongono di continuo

 

Poesia che non tradisce l’intenzione autoriale di esautorarsi, in quanto l’io in apertura ricoprendo il ruolo semantico di paziente e venendo “inghiottito”, può entrare in uno stato meditativo che permette – in una visione autoscopica – di farsi agente, e sorpassare le figure incerte che si fanno paesaggio: esseri transcorporali, osmotici.
Questa rottura del diaframma tra umano e naturale, come ricorda anche Niccolò Scaffai in Letteratura e ecologia[8] mette in crisi la logica del dominio che si basa sulla separazione e rende possibile attraverso la finzione letteraria una nuova consapevolezza.
Un’attenzione al dato naturale-magico in cui è possibile intravedere una fase aurorale e implicita della dicotomia tra un modello economico capitalista che si sviluppa nella città, e la campagna carica di un sentimento arcano[9]  che permette la poesia stessa. La raccolta successiva[10] concretizzerà questa tendenza – ancora embrionale in Herbarium Magicum – attraversando l’asse temporale che dalla «fabula» o dalle «onde neolitiche» conduce e si attesta su una cultura contadina e preindustriale.
La natura e la distanza da una cultura occidentale omologante e dominante sono dunque per Battilocchi condizioni necessarie della sua poesia per riappropriarsi di un sapere subtellurico, rivelazione che si concederà al termine di un faticoso viaggio: «l’approdo/ non segnalato / da raggiungere / metteva alla prova// ma v’era l’ombra lontana / d’un luminoso fiore»[11].
Il fiore è qui la ricompensa, la sua ombra e la sua luce, la coniuncto oppositorum cara agli alchimisti, una visione dialettica del mondo tramandata da Eraclito secondo cui l’uno vive la morte dell’altro come l’altro muore la vita del primo[12]. Opposti interdipendenti e necessari di una poetica che individua nella distruzione il preludio alla creazione, similmente a quanto afferma Georges Didi Huberman riguardo al potere dell’immagine. Invero secondo lo storico francese non dovremmo aver paura di non sapere più di fronte a un’immagine-apparizione che investendoci ci sveste, liberando gli occhi dal velo dalle nostre conoscenze stagnanti (cfr Huberman, 2015)[13].
Un legame quello tra Battilocchi e Huberman che trova conferma nell’attenzione della nostra per l’iconografia: le quattro immagini che accompagano e potenziano i testi in Herbarium magicum, troveranno un seguito nelle partiture visive di Giuditta Chiaraluce ne Il ritmo che ritorna e ne La fonte di Isadora in cui una foto di Anne Brigman viene tagliata, sminuzzata e ricomposta arbitrariamente dall’autrice: due gesti ancora una volta contrari e perfettamente coerenti con il suo esordio uroborico.

Giulio Medaglini

 


[1] Teorizzato da S.Freud e ripreso nel saggio Gli ombelichi del sogno di Roger Dadoun contenuto in Crocevia dei sogni, curato da F. Amigoni e V. Pietrantonio, Le monnier, 2004.

[2] Cfr “Una poesia, una visione onirica?” 1984 oggi anche in Poesie e prose scelte, Milano, Mondadori, 1999.

[3] Si veda il volume curato da Bianca Battilocchi Rovesciare lo sguardo, Argolibri, 2020.

[4] Aby Warburg Schlangenritual, Wagenbach, Berlin 1988.

[5] Da (Perché) (Cresca) in Il galateo in bosco, Milano, Mondadori, 1978.

[6] Opera al momento inedita. Una selezione di testi, finalisti al Italian Poetry Today Prize, saranno pubblicati su Officina Poesia Nuovi Argomenti.

[7] Cfr Battilocchi B. Rovesciare lo sguardo, Argolibri, 2020, p.131.

[8] N. Scaffai, Letteratura e ecologia: forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, 2017.

[9] Cfr. C. Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p.21.

[10] B.Battilocchi, Il ritmo che ritorna, Samuele Editore, 2021.

[11] B. Battilocchi, Herbarium magicum, Aterem edizioni, 2021, p.28.

[12] Cfr. Eraclito frammenti 26- 76-88 da Frammenti a cura di Francesco Fronterotta, Rizzoli, 2013.

[13] G. Didi-Huberman, La condizione delle immagini, Doppiozero, 2015: https://www.doppiozero.com/la-condizione-delle-immagini.

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