Menti Sommerse 1: “Verso le stelle glaciali” di Tommaso Di Dio

Si propone la lettura critica di Massimo Del Prete a "Verso le stelle glaciali" (Interlinea, 2020) di Tommaso Di Dio, da una serie di articoli soppressi usciti originariamente su Menti Sommerse. [L'immagine è un MEME generato dal nostro AI di fiducia Fractor Ignotus (intelligenza artificiale)]

L’articolo di Massimo Del Prete era uscito originariamente sul blog chiamato (ironia della sorte) Menti Sommerse, che ha deciso di cancellare con un click un’intera serie di recensioni ai libri di poesia contemporanea, per dedicarsi ad altre espressioni artistiche più in vista.
La serie che ripubblichiamo su MediumPoesia (con revisione di Giulio Medaglini e Teresa Tommasini), chiamata provocatoriamente “Menti Sommerse”, consta di dieci letture critiche ai libri di Tommso Di Dio, Antonella Anedda, Gabriel Del Sarto, Mario De Santis, Dario Villa, Michele Bordoni, Valentina Colonna, Giovanni Ibello, Francesco Ottonello, Riccardo Socci.
In apertura del progetto si rimanda a una riflessione sulla filologia del futuro e sulla precarietà del digitale di Francesco Ottonello. L’immagine in copertina è stata generata da un’intelligenza artificiale di nostra fiducia, in ‘stile meme’, a partire dalla digitazione del titolo del libro.

F. O.

È la mente che di sé sempre asseta: Verso le stelle glaciali di Tommaso Di Dio

Verso le stelle glaciali (Interlinea, 2020) è una raccolta poetica di Tommaso Di Dio, già autore di Tua e di tutte” (Lietocolle, 2014) e di numerosi altri progetti, anche in veste di traduttore.
Questo libro, dunque, è solo il (provvisorio) culmine di un percorso che viene da lontano e di un immaginario diventato negli anni sempre più complesso e significante.
La raccolta si compone di quattro sezioni principali in versi, intervallate da immagini il cui compito è quello di fare da mappa ideale per un cammino: una quinta sezione, in prosa, cerca di suggerirne via via le funzioni più specifiche, a seconda del contesto e, pur nel suo ruolo interno al testo, si pone al contempo come appendice o chiave di decodifica: un compito che, in poesia, non è mai semplificante.
In questo articolo proveremo a percorrere i quattro itinerari proposti dall’autore per valutarne, soprattutto, la consistenza della meta: ogni viaggio, infatti, potrebbe intraprendersi separatamente, le sue tappe (ovvero i singoli testi) potrebbero leggersi per salti (ad alcuni verrà in mente Il gioco del mondo di Cortazar e la sua costruzione testuale parzialmente in mano al lettore) eppure, alla fine, tutti condurranno nello stesso luogo, alla volta di un orizzonte di senso che, per significare, deve porre in termini una contraddizione e una totalità: verso le stelle glaciali.

LE STRADE, LA STORIA

La prima sezione, ovvero il primo viaggio, è una piccola collezione di focus: protagonista è il genere umano ma campionato attraverso brevi scampoli di vita di persone senza nome. Vite che ruotano tutte intorno agli stessi cardini perché, se ogni vita è conseguenza dello stesso ammassarsi di cellule, ogni coscienza lo è degli stessi terrori.
Tutte queste creature appaiono private del loro passato, almeno nella misura in cui esso non ha più effetto sul loro presente, che ne risulta diminuito e fatiscente («Avevano sonno, avevano | memoria e disastri»). Il primo testo ne compendia la situazione comune e immediata: l’avere sonno, l’essere immersi in una nebulosità che separa dal contatto attivo con l’esterno e richiude passivamente nelle costrizioni della mente; l’avere freddo («hanno | freddo questi umani»), condizione di ipotermia della vita e dunque, contiguità con l’esperienza della morte.
Il setting è silenzioso e incolore, proprio come gli individui ritratti («Seduta | nel vagone della metropolitana, la donna larga | […] sta | nella luce afona d’inizio ottobre», «Sull’asfalto dei marciapiedi | nelle saracinesche», «Sopra scale di condomini | aprono piccole | porte di ferro grigio»), tutti, o quasi, fissati nell’atto di camminare. Se escludiamo almeno la prima poesia e l’ultima (la prima perché ingresso, imposizione spaziale e dunque statica; l’ultima perché estrazione spaziale, meditazione) tutti i testi contengono il verbo camminare o un suo pendant semantico. Un verbo che, però, non implica l’andare: è un atto, un’attività priva di meta e scopo, il surrogato di una qualche azione precedente, ormai obliterata. Oggi si è fatta manifestazione semplice della vita e, come essa, meccanismo, deambulazione.
Nel testo del giovane immigrato che si è tolto la vita impiccandosi l’atto è sottinteso: la sua assenza è infatti assenza di vita, questa vita pur scaricata di un qualche significato. Il camminare, nel simbolo delle scarpe, torna anche nel testo di chiusura Prima notte: le scarpe abbandonate dai morti, infatti «tremano, non sono più di nessuno | cercano i piedi […] dei vivi»: il discorso quindi si amplia anche verso ciò che della morte resta tra i vivi.
Va da sé che una visione della vita come meccanismo ponga un dubbio anche sulla riproduzione e sulla sensatezza del tramandarsi. «Tremano stupide | e implacabili | le fondamenta della vita», che vuole soltanto essere, vuole «che questo sorgere | non si arresti […] | che non smetta […] | che si sbilanci […] | in mille corpi e parole sogni | stupidi», privi cioè di un significato a priori e indifferenti anche a significati imposti, transitori o posticci.
Un’esistenza tratteggiata in negativo ma con parole leggere, dubbiose, suggerimenti più che asserzioni in uno scetticismo radicale che nella sua ambiguità fonda l’ampiezza della conoscenza poetica.
Così, la sezione trova il suo punto fermo tra identità (l’essere uguali a noi stessi) e individualità (essere noi e non altri). La nota in merito alla foto di una maschera che, una volta indossata, impedisce di parlare, dice molto in questo senso: «la bambina […] impedita a parlare dalla perlina di vetro fra i denti, veda se stessa e, al contempo, impari a non esserlo più». L’incubo dell’individuazione fa di una persona un unicum, la definisce esattamente ma le impedisce di comporsi con l’Altro: essere uno impedisce di essere molti.
Se allora individuarsi è svanire, anche la parola negata è un mezzo di sparizione (la bambina che indossa la maschera, cioè la sua vera pelle, non può parlare: concetto presente nei primi testi («Questo silenzio. | Che ti esclude.») ma esasperato nell’ultimo quando i morti «cercano […] le bocche dei vivi | per tornare a dire», come a riscattare una vita, «quanta sparita vita». Ma l’impossibile è negato per principio e di loro, di noi, restano solo «le parole perdute, le parole cadute | che sulle labbra hanno imposto | il silenzio.»
Tutti fattori che concorrono a fare di questi personaggi individui «senza storia. Soli. Liberi»: ma liberi solo nell’avvicendarsi alla morte, che è irrevocabile rottura col meccanismo, massima solitudine e libertà.
Senza storia, cioè senza memoria: un problema che risalta nel penultimo testo in cui la fotografia, mezzo ideale per una fissazione artificiale del tempo, non può fissare l’uomo che guarda. E non bastano i supporti più raffinati per tenere insieme storia e memoria, tutto si sfalda, tutto si riduce a un sospetto, a essere una stupenda ambiguità: «che una volta almeno | in una nuvola amorfa, in un’alba | lungo la pianura, in uno | sguardo fermo sulla neve, noi siamo || esistiti veramente.»
Arrivati in fondo si capisce come questa passerella di ritratti necessiti, chiami lo stile del suo autore che è di certo largo, narrativo, con tutte le possibili aperture e la capacità di spaziare che questo “modo” concede. Eppure tutto è intessuto di quelle costruzioni ritmiche che forniscono il surplus di significato tipico della poesia. Un uso oculato dell’iterazione («Oppure dentro […] oppure fuori […] oppure fuori», «Avevano sonno, avevano», «Su questo inadeguato sangue. Su questo»), nell’ effetto di eco che ripetendo fissa, ma non riproduce mai uguale.
Similmente, parole sospese in fine di verso, che dicono qualcosa se lette sul loro rigo e qualcos’altro se affidate al successivo («Sotto il tendone, sotto. | Oppure fuori, sotto il tendone, sotto | il primo sole inerte e cieco di gennaio»). Si segnalano ancora sia inversioni nome-aggettivo che più estese anastrofi le quali, sconvolgendo la sintassi (pur poco prescrittiva della poesia), provocano collocazioni e accordi inediti.
Narratività, iterazioni, simmetria, anastrofi: in tutta questa metallica bellezza la traccia di Sereni sembra certa.

L’OSPEDALE, LA CAVERNA

La Mappa 4 ci offre un’immagine delle scene animali ritratte nella grotta di Lascaux. Queste inducono l’idea di antichi autori (plastici fictores, in questo caso) il cui alfabeto iconico costruiva una frase, come noi facciamo con le parole, per sovrapposizione di immagini. Gli antichi interpreti conoscevano il senso del codice ma per noi la chiave di lettura è perduta.
Leggere fino in fondo la pittura significa raggiungere la “Mente”,«un’area di solitudine […]; in essa si entra in contatto con ciò che precede nel tempo e supera nello spazio. Arrivati qui, la mappa smette di mostrare una direzione e mostra invece se stessa»: una tautologia ma non perché la densità di significato è nulla, ma perché è infinita.
Questa seconda sezione esplicita e prosegue un itinerario verso la mente già accennato in quella precedente («Mente mia, lucida, chiara | inesistente», lì in un processo a metà tra la posizione ontologica dell’io e una sorta di poiesis artistica). La Mente è un luogo irraggiungibile con mezzi normali, è una pre-esistenza, precedente a tempo e spazio e dunque alla creazione: a mediare tra questa e la nostra realtà è un uomo gravemente malato, rinchiuso in un ospedale, pendant spaziale della grotta di Lascaux, luogo sì reale, ma soprattutto mitico, metafisico.
L’uomo, della cui malattia si riceve notizia all’improvviso («Vibra il cellulare. È notte, dopo le tre’), con la visione del suo corpo ‘riporta tutti | in una preistoria senza spazio […] | lì | dove un mondo vive nella mente | e nessuno sa perché».
La gran parte dei testi rimanda al nuovo rapporto, progressivamente dialettico, instaurato tra l’io che veglia e il malato. L’uomo non è più davvero in questo mondo, non sa dire ciò che potremmo capire («aspetto che tu parli») poiché chi ascolta fa ormai parte di un’altra specie. Per loro, per noi, «tutto è stato interrotto»: la catena di senso degli antichi interpreti è spezzata e la sovrapposizione dei significati è un calcolo sterile, senza applicazione («Senza menzogne, | il computo stratigrafico | enucleava resti possibili»).
Per questo tanto più il malato avanza dentro sé («Hai dimenticato | la strada dove vivi […] | mesi di anni | primavere di decenni») tanto meno l’io ne comprende la natura, indietreggiando nel suo mondo, che è sempre lo stesso («Non comprendiamo | quale vita abbia avuto forza, quale forza | abbia avuto vita, fra questi strati»).
Nemmeno la condizione umana è cambiata: «altri stanno | con l’azzurro invece che rotea | appeso alla parete | sopra un alfabeto disgregato», nella sequenza di giorni e cieli immutabili, parlando una lingua smangiata, stanco riflesso di quell’altro-tempo. Non sono che «quintali | di incarnati linguaggi» in questa equazione tra persone e lingua parlata, «attaccati alle forze che non durano», ai legami cioè che implicano significazione, composizione tra sé e Altro e non una separazione costitutiva della coscienza.
Questo discorso di rimbalzo tra la quotidianità di tutti e l’esperienza del malato si diffonde anche nella seconda parte della sezione, che ci avvicina al centro della mente, «dentro la caverna»: «e per tutta | l’estensione tu sei | dimensione di nulla spazio né tempo, quasi non più | cognizione, né memoria». Qui il discorso accelera, come nel testo a p. 50 che ci avvicina a una dimensione ulteriore, fondandosi su ripetizione e variazione di un verso: «In questo giorno di forte vento; e cielo limpido’, come un mantra che si muove tra visioni analogiche. ‘Ripeti | per sentirti vivere», cioè canta, compi il rituale.
Così crolliamo verso i testi finali, in cui si apre una via anche per chi vive all’esterno della caverna: «va bene così, basta vivere | con la luce davanti agli occhi», dice l’uomo malato che, se a p. 38 cercava «le parole possibili» per il suo poema, la scrittura forse illeggibile del suo rituale, ora si confronta con «le parole impossibili», poiché morendo (forse) ha superato la soglia di quell’antico oltre.
Una soglia che, tuttavia, possiamo sperare di attraversare: nell’ultimo testo il malato «infine si alzò dal tavolo | e ci mostrò una strada che andava verso il basso», da cui inizia un viaggio che è pura visionarietà, i cui nessi, se esistono, sono posti tra le «bugie della mente»: un sogno che non è falso ma smette di essere vero oltre un certo punto, quando il malato-sciamano ci lascia e, dopo l’attraversamento, ci riporta al di qua, dove «sapremo parlare. Riconoscerci. Fuoriuscire. | Sapremo fare a pezzi questo niente | e alzeremo le braccia, canteremo felici».
Parlare, riconoscersi cioè individuarsi e al contempo imprimersi nel mondo e dopo ancora fuoriuscire, superare la soglia del corpo e apporci all’Altro. Passare dalla caverna della Mente permette di riaprire il mondo, ripartorirci dentro esso, provare a negare il nulla della vita.

IL MARE, LA MENTE

La terza sezione costituisce una libera riscrittura del diario di bordo di Colombo nel suo viaggio verso l’America: il viaggio, prima soprattutto astratto, si correla adesso con un percorso reale.
Per ora escludiamo il primo testo ma osserviamo come un avvio dal sapore antico e didascalico («il perimetro della terra | si può fare in linea retta […] | ventisettemila | cinquecento stadi») tenda, nel corso di numerosi testi, a svanire lentamente, sfumando ancora in un discorso sempre più largamente metaforico: il filtro è tutto negli occhi dell’io-Colombo e la luce usata per vedere ha poco di oggettivo.
«È l’uomo | davanti al vento quello | più esposto al vero»: in questi versi quasi rimbomba il desiderio di assoluto dell’Ulisse dantesco, la cui necessità di conoscenza deve fare i conti con la fragilità e la paura.
Non manca infatti l’idea di uomini deboli o piccoli rispetto alle possibilità dell’ignoto («Siano occhi, occhi e moltitudini, sono mondi | nel mondo ricevuti»): la scoperta, in effetti, ha in sé qualcosa di sinistro e spaventoso. È la ciurma, in particolare, a subirne gli effetti («ognuno | nel buio vede ciò che più teme», «Parlano | di mostri che ci aspettano […]. | Nelle tempie qui […] | si aprono | visioni d’orrore») che emergono e fluttuano su una distesa di mare sempre uguale a sé stessa. Se infatti alla ciurma si dice che questo viaggio è intrapreso «per il profitto. Per il Dio | e per la regina», più passa il tempo, più l’io-Colombo è costretto a mentire («Non mi credono’, ‘La ciurma non mi crede più»).
Un viaggio del genere, infatti, non si fa verso un luogo ma per allontanarsi da un altro, da un luogo le cui coordinate sono molto superiori a quelle di spazio e tempo, negando la nostalgia: sentimento ipocrita perché nessuna vera identità è inscritta nel luogo da cui si parte. Averne significa propagare una falsità, un dolore soltanto preteso. Il viaggio verso l’America è un altro itinerario verso la Mente, verso un altro fecondo e spaventoso svanimento: «nel sole che viene | finalmente accade il portento: ogni cosa | all’orizzonte | impara a scomparire». Non scompare ciò che ancora non abbiamo trovato ma piuttosto noi stessi, con le nostre visioni ed esperienze, con le credenze derivanti da una vita determinata, da lasciar andare.
Il viaggio va fatto quindi nella direzione di una luce che abbaglia e favorisce l’addio: nel buio tutto è possibile e presente a sé stesso, mentre la luce, al suo zenit, si effonde ovunque e oblitera quello che dobbiamo dimenticare. Per trasmettere tutto questo alla ciurma occorre rimandare ossessivamente alla terra, come obiettivo unico e ultimo («viaggio verso la terra nuova»): terra che non è la costa agognata dal Colombo storico quanto piuttosto un correlativo dell’umanità. Trovare «la terra nuova, la terra buona» è trovare un modo rinnovato per esistere, passando, ancora, per la Mente.
Avvicinandosi alle prime isole, infatti, la terra assume connotati simbolici: «penso | alla terra mia nuova terra | che sarà | più in là di me | senza me» mentre è ancora una possibilità insperabile, per poi avvertire le sue propaggini “reali” irradiarsi nell’acqua («c’è molta erba», «c’è l’erba nel mare | ma non mi credono»).
L’io riesce a vedere, mentre i marinai non hanno ancora superato la disperazione del distacco, ma ciò non toglie che sia scosso dagli stessi loro dubbi. Esemplare il testo a p. 88: «E se questo mare non finisse. Se ci fosse altro mare | […] E se non vi fosse terra […] |. E se io procedo. | E se indietreggio. E se io già | sono da sempre | nel mare | come chi si è perduto». Un ritmo da anacoluto per domande senza risposta, umane, come se, in assenza di terra, il mare non separasse più nulla, come se il viaggio nella mente non avesse confini o soluzioni.
Tutto però sta attendendo il fuoco: nella descrizione di una delle mappe si parla di una candela, cioè un minuscolo faro, oggetto che«bisogna vedere e ricordare insieme», come qualcosa che sappiamo ma a cui non abbiamo assistito. L’arrivo sull’isola di Guanahani, guidati dal fuoco dei nativi (il racconto è nel primo testo della sezione, che chiude così circolarmente il viaggio, anticipandolo nel tempo) apre all’ultima verità su questo viaggio: «È la mente che di sé | sempre asseta», in un moto che culmina nell’approdo «dopo aver atteso un tempo | esteso, indecifrabile», in un nuovo momento rituale.
Gli uomini osservano una parete di pietra dove forse, da un tempo eterno, è incisa una nuova conoscenza: si lanciano in congetture primordiali, originarie, capaci di rifondare da capo, dare un nome alle cose nuove, rendere nuove (e irriconoscibili) le vecchie («questa massa | è una linea che si apre, è luce | circolo di neuroni», «Se sei qui | vorresti dire il nome. Vorresti trovare il nome»). Il viaggio di Colombo, allora, non deve essere una vera traversata ma può essere, ancora, il sogno della mente («questo | è solo la mente che procede, che si sporge e tocca | se stessa»), ma non serve per restarci, per svanirci dentro.
Serve per allontanarci e fiondarci in nuovo futuro che conserva del vecchio l’impronta del ricordo e in cui davvero esistiamo. Per strade diverse arrivare nello stesso luogo, arrivare nella stessa idea: «dobbiamo diventare reali. Camminare l’ultimo tratto. Uscire da qui».

IL VENTO, I PRONOMI

Arrivare a leggere sin qui causa un certo frastuono nella testa e porta un po’ di nebbia negli occhi: assomiglia a certe esperienze del limite, di cui pure l’autore parla nella descrizione dell’ultima mappa («Camminare e vedere il bordo […] più forte, più vicino, più compatto»). È certo che alla fine il limite si sciolga oltrepassandolo, ma stare nei suoi pressi (al confine tra un insieme di leggi fisiche e un altro) significa dover ricorrere ancora alla visione e non alla visuale.
La sezione si apre su un io che sembra aver fatto ritorno a un luogo (il suo?) dopo i viaggi precedenti («Sono tornato qui, fra i muri | i tombini e i motori»): un luogo che è un paese, lato sensu, cui tutto sembra convergere («Arrivano al paese molti pianti. | […] moltitudini pulsanti || io tu egli | noi voi essi, persone»). Per l’io è un breve tempo di attesa, necessario per raccogliersi e trattenere le esperienze appena vissute («Tutti questi mondi. Che camminano», con uso di termini ricorrenti) in un contesto esterno che sembra lo stesso eppure è mutato.
«Ogni cosa splende | si perde e dice stai | fra mondi; confratèrnati»: i viaggi della mente hanno forse lasciato all’io nuovi strumenti che impongono sì una pausa, ma permettono anche di fermare il tempo, privare lo sfondo del rumore e della foschia dovuta all’accelerazione e ridare il nitore di una luce vista come per la prima volta («Mi fermo. Queste stelle | nessuno mai | le ha viste prima»).
Ma il viaggio – i viaggi – non bastano, da soli: esservi sopravvissuti non garantisce un’esistenza rinnovata nel “mondo reale”: lo sforzo e la paura proseguono dentro una realtà che forse ancora più impietosamente dimostra un’inconsapevole bellezza. Aumentano infatti le occorrenze di “sole” e “luce”, qui nel senso primario di chiarificatori e strumenti di verità, non di oblio come nella sezione precedente («Attraverso il vetro | la luce del sole’, ‘da questo primo sole’, ‘attraverso la finestra il sole’, ‘è un pomeriggio di luce»).
In questa meraviglia gli uomini che hanno fatto il viaggio non possono stare fermi né concedersi una resa («E allora tienilo, tienimi; è fragile | […]. Tieni questo legno […] | per vedere che diventiamo come il sole | mentre il sole | scintilla forte tra i rami»). «Eravamo stanchi», eravamo incapaci di reagire, eravamo pronti a farci meccanismo anche noi come la vita («bradi, fertili e seri come gli animali inutili» si diceva nella prima sezione), ma ora «la nuvola || si muove. Evapora».
Certo, esiste sempre la discontinuità della memoria, un solco di vuoto che non sappiamo perdonare: memoria del passato e di noi stessi, qui nel simbolo del vento, mezzo di erosione che nemmeno il sole può fermare, che distrugge e ripulisce tutto mentre siamo volti altrove. «Passerai. || È solo il vento»: tu te ne andrai e il vento già ti porta via.
Anche le stelle glaciali del titolo sembrano rimandare a questo nel loro statuto di luogo impossibile, punto di intersezione di rette parallele in cui l’irrevocabile si può richiamare («Io. || Verso le stelle glaciali. || Oppure puoi dire | un sentiero già segnato, un ritorno, una riflessione») nella sua declinazione personale («questo io | che ci ostiniamo a scrivere») e universale.
Perdere la memoria (se le stelle glaciali sono l’unico orizzonte di senso ma non sono raggiungibili) è comunque insufficiente per considerare una resa definitiva alla vita: «il vento che muta cancellando | le tracce, i cammini» non basterà a scardinarci, a farmi morire ancora.
La memoria non può restare «eppure | bisogna tenerlo | bisogna nutrirlo. Questo tronco | che non vuole più | andare via da qui». Quelli che sono giunti fin qui forse non potranno dire di essere «esistiti veramente»: che traccia infatti si può dire di aver lasciato se ci proporzioniamo anche solo ai tempi delle generazioni umane?
Ma nemmeno questo, ormai, è il punto: «Le nostre parole stanno per raggiungerci», si dice nell’ultimo testo, «dal primo grugnito […] | al più profondo | silenzio tra due umani | […] per entrare e farsi carne». È il mondo che sta per crearsi di nuovo, tutto ciò che è stato, ogni passato si accumula in un punto dietro di noi ed esplode ancora, investendoci.
Ciò che eravamo si riforma da capo: il passato stesso si oblitera e la memoria si sovrascrive in un nuovo punto di partenza dei tempi. Conterà allora solo l’eterno presente e ogni futuro, conterà infine soltanto essere giusti verso sé e il mondo. Conterà soltanto dirsi la verità:
«Le nostre parole | stanno per raggiungerci. Siate pronti. | Dite loro il vero».

                 Massimo Del Prete

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