Pubblicato per la prima volta nel 1995 a Taiwan, Membrana di Chi Ta-wei (Add editore, traduzione di Alessandra Pezza) è arrivato sugli scaffali italiani solo nell’ultimo trimestre dello scorso anno. Questa piccola perla della fantascienza speculativa cinese immaginava un intero ventunesimo secolo all’insegna della catastrofe ecologica e della cura ossessiva del corpo e della bellezza fisica. Possiamo dire che avesse torto?
Il romanzo narra la vicenda di Momo, giovane e rinomata estetista che conduce una vita appartata, nella sicurezza della sua casa, sullo sfondo di un’umanità trasferitasi sotto i fondali oceanici a causa di una crisi ecologica. Qui Momo riceve i suoi clienti, mentre il mondo esterno viene lasciato fuori dalla porta, concedendosi solo brevi e – apparentemente – sconnesse incursioni. La storia si compie, mutando forma, nel corso di 150 pagine; passa dall’essere un racconto di formazione e uno slice of life malinconico a una complessa (e anche un po’ confusa) elucubrazione biopolitica a incastri.
Quasi in maniera metaletteraria, Membrana è un libro “a strati”. Le sue pagine parlano continuamente di involucri: dal macroscopico della barriera che protegge la civiltà umana sul fondo dell’oceano, al microscopico delle creme di cui le persone si cospargono per difendersi dalle radiazioni che compromettono la salute cutanea, e che le ricoprono come una seconda pelle. Ma c’è anche l’involucro di un ambiente intimo, l’appartamento di Momo, dal quale ci godiamo una distopia soft sci-fi i cui dettagli ci arrivano come rumori bianchi, suoni ovattati dalle pareti di un interno subacqueo.
E naturalmente ci sono gli involucri di un intreccio a spirale, dove tutto si tocca con cose lontane, e si riesce quasi a vedere attraverso le sottili pareti che sorreggono una storia delicata fatta di illusioni sovrapposte. Pubblico e privato sono i due grandi estremi di questa vorticosa configurazione. Si alternano paralleli per quasi tutto il corso del romanzo, al punto che si finisce con il credere che la scelta dell’ambientazione sia arbitraria. Ma lentamente la loro compresenza si fa sempre più fitta, finché non si ricongiungono nell’epilogo con un sordo contraccolpo.
Ari Heinrich (he/they), che ha tradotto il romanzo per l’edizione americana, nella postfazione spiega che l’opera chiede prima di sospendere l’incredulità, e poi di riflettere su come l’esperienza dell’assorbimento letterario possa avere un impatto non solo sul proprio senso del tempo, ma anche sulla percezione di sé. «There are allegorical implications to this device, of course, but there are also personal ones. Who are you before you read the book, and who after?».
Come nota l’autore (sempre nell’edizione sopracitata), il libro stesso è come il corpo cyborg, composto da parti eterogenee, compreso di allusioni, richiami e citazioni intertestuali ed extratestuali che attingono a opere importanti come film, letteratura, musica e così via, senza le quali l’opera non potrebbe funzionare.
Al di là della storia ben confezionata e della prosa non proprio memorabile di Ta-wei – tranne nelle ultime, splendide pagine – quello che colpisce davvero di Membrana è l’immaginazione di un futuro relativamente remoto che dopo un quarto di secolo risulta goffa e retrò, ma in maniera deliziosa. Si ha l’impressione di avere a che fare con quell’ibridazione tra cyber e primordiale che caratterizzava la prima serie di Digimon Adventure (1999): un ossimoro affascinante ma con una nota lugubre.
Ai tardi anni ‘90 il futuro mostrava un volto di silicio che entrava nel merito degli aspetti più intimi e creaturali dell’umano. Le pietre miliari del cinema biopunk quali Gattaca (1997), Matrix (1999), eXistenZ (1999) sono tutte testimonianze di un’ansia di spersonalizzazione, della paura che la tecnologia avrebbe confuso i confini tra corpo e macchina, tra realtà e finzione. Membrana non fa eccezione, mettendo in scena uno spettacolo parodico dei sensi, una satira impietosa della realtà del corpo.
Ma “Il corpo” non c’è più, restano momenti di vissuto biotecnologico, cioè resta il fattore temporale come traccia dell’esperienza – ce lo diceva già Braidotti nella prefazione a Manifesto Cyborg (1995) di Donna Haraway.
In questo senso le tematiche queer relative ai discorsi biopolitici trovano naturalmente posto nella macchina narrativa di Ta-wei, il quale indaga dei livelli di significazione del corpo trans che ancora oggi riescono a dirci qualcosa. L’aleatorietà della natura e degli ordini della materia organica che caratterizza l’universo di Membrana non diventa mai un pretesto per indugiare su particolari morbosi. Semmai, in questa eterodossia della carne ci si può sguazzare, esplorandola senza peccato.
Il genere viene trattato non solo come variabile, in un flusso, ma come atto di volontà. Sempre Heinrich ricorda che i corpi, in Membrana, non sono “cablati” secondo il genere, indipendentemente dal sesso. Il fatto che Momo sia stata assegnata maschio alla nascita è quasi casuale, solo uno tra i molti dettagli del background della protagonista.
Membrana ci offre il panorama possibile di una narrativa inquadrabile criticamente al di fuori dei valori di default dell’eteronormatività e dell’occidentalcentrismo. Dipinge l’ipotesi di un’estetica queer sinofona e futuristica, e attraverso questo caleidoscopio sinestetico trasmette le sensazioni di cui è composta.
È una storia che si rivela come una guida di sopravvivenza al capitalismo più avanzato e le cui soluzioni sono quelle che da sempre ci affascinano di più nella speculative fiction: narrare storie per continuare a (far) esistere, per regalare finali alternativi.