Giorgiomaria Cornelio / Sparare a zero. Intervista e testi

Per la settima puntata del format "Sparare a zero", la redazione intervista il poeta Giorgiomaria Cornelio.
  1. Tra i libri usciti negli anni Duemila puoi indicarne 5 fondamentali per il tuo percorso?

Direi L’immagine insepolta di Georges Didi-Huberman, perché anche i fossili hanno imparato a danzare. Underland di Robert Macfarlane, perché insegna il sotterraneo allarme delle cose, e l’intreccio che è in noi. Austerlitz di W. G. Sebald, perché i morti tremano ai bordi. E poi Che cos’è il contemporaneo di Giorgio Agamben, perché «appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso». Infine, per la poesia, dovendone citare molti altri, dico tutta la saga dei Tolki, i parlanti di Ida Travi, perché ha come misura il millennio: «c’era solo quel canto / c’era quel bianco, / dobbiamo imparare a scrivere».

  1. Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana? Per chi scrivi poesia?

Non esiste il quotidiano, se non come invenzione, o colpo di cipria, talvolta formidabile. Esiste che le cose vengano continuamente sciacquate, messe al mondo una seconda volta: questo, per me, è il fare poetico. Si scrive, dunque, non tanto per chi, quanto per cosa; perché la “prima” natura non basta, è una menzogna; oppure, come diceva Anna Maria Ortese dopo aver visto un piccolissimo cielo  dipinto da Raffaello, perché «quel cielo capovolgeva ogni idea che avevo sulla realtà, era più vero, più reale di ogni cielo del mondo reale. Sulla sua consistenza non potevano esserci dubbi. E la sua straordinarietà era in questo: che sostituiva dunque la prima creazione con una seconda. Diceva – o era come se dicesse, – al cielo naturale: “Tu vai e vieni. Non resti. Ed ecco, io – Cielo di Raffaello – resto, perché non sono il cielo naturale, sono l’idea di qualsiasi cielo. Così, resto”.».

  1. Senti di fare parte di una comunità poetica a cui aderisci? Com’è il tuo rapporto con altri poeti viventi e con chi ti legge?

L’unica  comunità che riconosco è quella senza precisa appartenenza, senza comunanza di identità: una specie storta, appunto, fatta di parentele immaginative, di alleanze impreviste e di improvvisi cambi di rotta. Per me l’incontro con il pubblico è un esercizio mitopoietico: si è convocati al faremondo, oltre qualsiasi agonismo della presenza (vedi alla voce: reading).

  1. Senti di inserirti all’interno di una tradizione poetica italiana? Avverti una particolare vicinanza con tradizioni poetiche in altra lingua?

Hillman, contro la superstizione parentale, diceva che il compito del padre (non padrone) si spiega soprattutto nel suo congedo, e nel farlo citava una poesia magnifica di Rilke:  «Talvolta un uomo si alza da tavola a cena / ed esce e cammina, e continua a camminare, / perché da qualche parte a oriente sa di una chiesa./  E i suoi figli pregano per lui, come se fosse morto. / E un altro uomo, che muore nella sua casa, / nella sua casa rimane, dentro il tavolo e il bicchiere, / sicché i suoi figli devono andarsene nel mondo,  lontano, / verso quella stessa chiesa, che il padre ha dimenticato». Ugualmente, mi piace pensare che la tradizione si conservi proprio perdendola. Come spesso ripeto: intrattenendosi nel suo dileguare. Solo così si può leggere senza trincee. Io sono cresciuto tenendo insieme (e continuo a farlo con le Edizioni volatili)  il “niger mundus” di Emilio Villa, la poesia totale di Spatola, la parola dipinta di Padre Giovanni Pozzi e le parole obumbrate di Dante, il diario bizantino di Cristina Campo, la polvere di Ceronetti quando traduce il Libro di Giobbe (pensando anche ad Artaud), i deserti di Franco Ferrara, fatti incontrare, nei miei anni irlandesi, con i versi di Dylan Thomas e Seamus Heaney, amatissimi anche da Matteo Meschiari, che ha scritto un poema fondamentale come Finisterre, fuori dall’uomo umano. E che bello poter leggere oggi, senza il contagio delle facili appartenenze,  libri diversissimi dove il mondo scasa  dalla sua immagine, come Le Api Migratori di Andrea Raos, La casa esposta di Giovenale o Tundra e Peive di Francesca Matteoni, che raccoglie e rovescia in favola tutto il mandato poetico della sua scrittura. Sento vicinissima, per vocazione, anche la poesia fatta per il teatro, sciaguratamente sempre troppo poco considerata; penso solo all’avvio, formidabile, di Paesaggio con fratello rotto di Mariangela Gualtieri: «Che cosa diremo a quelli che nascono ora? / Che scusa troviamo / per questo disastro umano?».

  1. Sapresti indicare una forma artistica e una disciplina scientifica, se ci sono, che influenzano più di altre il tuo processo di scrittura? In che modo entrano in poesia?

Direi il montaggio, fuor di disciplina e forma artistica: piuttosto come sorta d’allarme percettivo, necessità di attraversare  il mondo  come materia pericolante, regione della dissomiglianza, dove le cose vivono di legamenti e mescolanze. Le discipline sbordano; scriveva Saint-Pol-Roux nel suo sogno di una scienza danzante: «le fiabe di Perrault sono, in sintesi, gli archivi degli odierni laboratori».

  1. Che rapporto hai con la metrica e la rima?

D’acciacco.

  1. Tra le nuove generazioni ci sono 3 poeti che ritieni particolarmente preminenti o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?

Tre non basta, e in tre si è giù una folla. Avendo rovesciato l’ingiuria dei Padri, posso, per il momento,  rovesciare anche quella delle tenere raccomandazioni.

      0. Acer in fundo, se non vuoi dirci 3 poeti contemporanei che proprio non ti piacciono, puoi indicare uno o più testi del tutto distanti dal tuo modo di ‘sentire’ e ‘pensare’ la poesia?

Non indugiamo in malinconie inessenziali.

 

Ti chiediamo ora di proporci alcuni tuoi testi poetici.

 

Inediti,

da L’ufficio delle Tenebre

 

«Otto secoli      sono trascorsi        da

quando processarono la prima scrofa.

 

Vestita di unto,                  di giacca,

di brache alle zampe          di dietro,

di guanti             alle zampe davanti.

Mozzato il grugno, tagliata la coscia,     

messa la lugubre maschera,           la        

impiccarono per aver divorato  

un lattante.             

 

E non di lunedì,

e non di martedì,

e non un giorno qualunque,

ma il giorno di magro

– quando la bocca 

risparmia la carne.

 

Anser:  se questa è la loro   giustizia,

            se questo è il loro  tribunale,

noi cosa c’entriamo?

 

Dovrebbe, il guaio, toccarli più

a fondo,     spaurire e dare sera,

con macerie       in grandi tozzi.

 

Invece guarda: è di nuovo sicuro il

piede che calpesta.   Come fossimo

cosa diversa,                   nata secca.

 

Potrebbero,            allora, salvarci?

 

Rinunciano all’erpice, ma non al campo.

Lo pretendono. Temono ortiche e dardi,       

l’impiastro senza nome,              il punto

d’ incrocio,

di giuntura.        Tutto in loro languisce,

s’incorsa,    e va dritto in cima al malore.

 

È ancora troppo    umana

questa umana rivoluzione.»

*

Ve lo ripeto:     niente è difeso.

 

Ciascuno sta risolto nel gemito.

Ciascuno    scricchiola un poco.

 

Attar:     noi non siamo come voi,

addormentati   nell’opale del volo.

Quando incalza             l’estremadura,

e squilla il lento capogiro dell’inverno,

voi non seminate,

voi   non mietete.

 

Chi sono le rose benevole? 

Il padrevostro accanto all’intoppo?

 

Io oggi non so

che la preghiera della furia.

 

Imparatela, vi dico, perché vi riguarda.

Sappiate        che vi riguarda.

 

_

*

Da La specie storta (Edizioni Tlon)

 

Di tutti i nomi,     solo
uno non sarà vinto:
quello che ancora
manca.

Chi ha polvere nella bocca.
Chi è nato sotto il tamburo.
Chi non serra       il cerchio.
Benandanti, sconclusi,   dis-
sepolti, male fatti.     Siamo
sempre stati qui:  nel punto
in cui le parole   
                            si ritirano.

Voi     che prendete
il lascito e  l’iniquio.
Voi che  rifate
                  il debito,
tutte le fondamenta.
Voi     che rimanete,
aurati,  ma non ritti,
           date alla vita
un verso
di battesimo.

*

Amore,

oggi l’incontro ci spatria

le ossa. Ci      incurva

le giunture del difetto.

 

Tutta l’officina del corpo barluma.

Ruota e sciacqua,

con nuovo

diluvio universale.

 

«Perché ecco,

l’inverno è passato.»

 

Perché qui perdiamo

il nome.

***

Giorgiomaria Cornelio (1997) è poeta, regista, curatore del progetto Edizioni volatili e redattore di Nazione indiana. Ha co-diretto la Trilogia dei viandanti (2016-2020), presentata in numerosi festival e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su L’indiscreto, Doppiozero, Antinomie, Il tascabile e altri. Ha pubblicato La consegna delle braci (Luca Sossella editore) e La specie storta (Tlon edizioni). È il direttore artistico della festa della poesia “I fumi della fornace”.

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