Quasi novant’anni fa, André Breton definiva i parametri del processo creativo surrealista indicando la necessità di «prendere in considerazione» un certo oggetto «proprio a causa del dubbio che può sorgere sulla sua destinazione». Come appare chiaro ai critici e agli intellettuali d’avanguardia già negli anni Cinquanta, questo comporta in larga parte una deviazione: la ridefinizione valoriale del significante. Dando alle componenti dell’oggetto una designazione nuova, nel Novecento, gli artisti iniziano ad accettare il rogo della precedente. E questo perché, come ricorda Jean-Luc Nancy guardando – nello specifico – alla componente d’immagine dell’oggetto d’arte, essa è «un’evidenza»: è «l’evidenza del distinto, la sua stessa distinzione». L’immagine, scrive Nancy, esiste in quanto distinta: attraversando il processo di deviazione dei significati, l’oggetto d’arte afferma una differenza che lo distingue non solo dal resto sociale, ma da sé medesimo. Non propriamente da ciò che è stata, ma da ciò che poteva essere l’opera stessa.
Questo concetto si radica e agisce nel contesto della poesia contemporanea italiana su due livelli. Il primo riguarda una genealogia: innesca i processi di cambiamento che sconvolgono, a partire dagli anni Settanta, la prassi del dare posto alla voce del soggetto (dell’Io) nel testo. Quando Vittorio Reta scrive, nel 1977, che «il rapporto tra i due relata del segno è qualcosa che nega il numero» (riassumendo in un verso solo il suo stesso decennio – come si rende conto Sanguineti, dopo il suo suicidio), aggiunge due specificazioni: che avviene «ora», e che tale rapporto «si basa su notizie di seconda mano».
Perché quanto ha detto poc’anzi accada, specifica infatti il poeta, due funzioni rivoluzionarie si introducono nella composizione. La prima è totalmente deittica, riguarda l’hic et nunc, quello che siamo adesso nel rapportarci al testo – la nostra incapacità di riaffermare il senso numerico, valoriale, della sua significazione. La seconda funzione descrive, invece, questo ora come un tempo di mediazione: stringere un legame immediato con il segno, avviluppare ad esso la nostra disperazione demandandogli salvezza, è ormai diventato impossibile. Già cinquant’anni fa (quaranta dopo Breton), alcuni autori – De Angelis, Frabotta, Bellezza, Reta, Rosselli, Spatola – osservano questo fatto come la cifra del loro tempo.
Il secondo livello riguarda il presente – almeno, nel senso che si attribuisce a questa parola tra le sale di un osservatorio. Provando a tracciare una linea storiografica a proposito del progressivo ridursi della gravità sacerdotale del lessico poetico nel contemporaneo, e partendo dall’archetipo di Gozzano, si arriva in ultima battuta alla lezione di Guido Mazzoni ne La pura superficie: un libro che, in un certo senso, apre alla iper-contemporaneità poetica. I versi di Mazzoni portano le istanze stesse della riduzione a un grado ultimo: la ricerca di una parola aderente ai livelli minimi del dire, trasfigurata nell’asettico di una soggettività non annientata, ma colta nella propria deviazione, offre l’ansa formale in cui si posiziona un oggetto d’arte (verbale) privo di destinazione eteronormata. Libero, in altre parole, dalla significazione valoriale di sé. Questo comporta, così, la possibilità di dare una collocazione nuova alle componenti interne all’oggetto – non soppresse, ma ridestinate. Ancora con Reta: «non è una perversione dell’istinto / ma quella disperata affermazione».
Il caso della ripubblicazione de L’altro limite, rispetto a tutto questo, è emblematico. Ancora nel senso dell’osservatorio, il passaggio dalla prima edizione del 2017 a quella del 2024 risalta come cartina tornasole i processi di deviazione di cui sopra – per Borio: sempre più ingenti. Lo si osserva a partire dal primo verso (come sempre accade): a «Soppesi la mia vocazione» succede nella presente edizione «Mi sembra strano in questo giorno». La distanza verticale tra l’Io scrivente e l’Io scritto, tirannico, valutante, è tradotta nella dichiarazione dello sfasamento avvenuto: qui e ora, tutto questo (questo preciso questo) è strano. L’autoevidenza di Nancy viene così eletta a categoria fondante: lo scarto che accade nella distinzione – quello che realizza l’immagine come tale – prende il posto dell’afferenza di campo culturale. A un originale aggrapparsi all’altro, alla valutatività intrinseca al posizionarsi nella sequenza valoriale, Borio sostituisce un explicit.
Questo discorso, per l’autrice, riguarda in larga parte il dato della soggettività poetica. Quale posto occupa il proprio Io singolare, inquadrato identitariamente, quando la destinazione stessa dell’oggetto d’arte è quella della deviazione? Dove situare la propria voce nell’oggetto, se l’oggetto nega l’esistenza del proprio come categoria? Per quanto frutto di un’astrazione teorica, si tratta di una questione fondamentale per comprendere cosa e perché è cambiato in questo libro. Guardare all’opera intellettuale di Borio, oltre che poetica, può aiutare a identificare alcune delle ragioni che soggiacciono a tutto ciò.
Uno spunto arriva dalla sua focalizzazione sul tema della trasparenza – che avrebbe dato il titolo, un anno dopo la pubblicazione de L’altro limite, alla sua raccolta uscita per Interlinea. In un intervento su Ultima (pubblicazione d’arte a tiratura limitata, uscita due anni dopo), Borio torna sul concetto:
C’è una concezione storica e una antropologica del ritmo. Per la prima, esso rimanda a un’idea di rapporto tra una continuità rispetto a una discontinuità, come il ritmo del battito cardiaco o il movimento delle maree, che con Platone è stato codificato in un’unità di misurazione. Nella concezione antropologica, invece, il ritmo è il complesso armonico con cui il pensiero del soggetto articola il linguaggio. È la poesia dell’esperienza come attività conoscitiva che attraverso il ritmo del suo discorso unisce il senso – quello che dicono le parole – a una forza […]. Il soggetto della poesia unisce il linguaggio e la vita attraverso i rapporti di pensiero e emozione, collegando l’io e le cose, in un sistema ritmico; così trova la sua storicità e il suo essere sociale. Nel ritmo la conoscenza della poesia è empatia dell’esperienza… // …una scrittura che assomigli alla liquidità dell’acqua, dove un’onda si incastra con l’altra, dove un piano scorre nell’altro. Una scrittura come spazio fluido di relazioni, dove una piccola vita si immette in rapporto al mondo.
La trasparenza, in tutto questo, è il canale: l’argine che trafora la singolarità per condurla alle onde. Una sorta di salvacondotto – che, senza demandarci l’annichilimento, ci porta come spettatori al mare magnum della spersonalizzazione sociale. Non una condizione, ma una funzione. Tramite questa imboccatura le due dimensioni del ritmo trovano un punto di incontro, si annodano, si accordano. Il «soggetto della poesia», per Borio, reca in sé la possibilità del nodo: la trasmette all’opera, nella scelta di una scrittura non sbilanciata dall’una o dall’altra parte. Non nel soggetto, ma del soggetto. Non della vita, ma nella vita.
Il riferimento alla liquidità, in conclusione, costituisce la cifra estetica che rende conto di entrambi questi parametri. Da un lato forma un’immagine discorsiva rivolta a un’essenzialità primigenia, de-antropomorfizzata; dall’altro, si immerge nell’umano radicale, intercettando una tensione filosofica, sessuale, ideologica, sociale, culturale e morale centrale per il nostro tempo. Ancora, in essa, la trasparenza: la possibilità di un passaggio che restituisce il dato all’autentico, attraverso un processo di deformazione.
La distorsione che il liquido impone, nella sua paradossalità specchiale, incide a livello formale. Interessa i particolari, la metrica, il lessico, la verticalità perfino, dell’oggetto poetico. Secondo la lezione di Timothy Morton, si tratta del monito impresso negli specchietti retrovisori: «Gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto appaiano». Oltre la superficie, attraverso il passaggio di stato che si verifica nella scrittura poetica (dall’Io al testo), si osservano i segni di una deformazione inevitabile – nello specifico della scrittura di Borio: di duchampiana memoria. Così, in questo libro leggiamo:
In quel cosa forse niente di vero, le nostre idee
che lui ha spigolato, innocente per un peccato
senza rimorso. Riporta aria nei polmoni
– dove non sente non pensa.
Dove le coordinate del soggetto gli garantiscono uno spazio estetico, lì le possibilità di farsi liquido – distorto dalla deviazione – spalancano il testo al suo essere poesia. La condizione dell’Io determina la sua azione formale, nel solco di una nuova atarassia soggettiva: annullarsi, per non annullare la forma. Operare uno scarto tra la vitalità prima della disperazione singolare, per trovare un ritmo nuovo – una nuova innocenza, una nuova assenza di rimorso. Le espressioni apparentemente liriche di Borio sono quindi dotate di vita nuova, perché basate sul raccoglimento di due diversi ritmi. Così, non scompaiono l’Io e il tu, la ritrazione del dolore, il crollo dell’intimità ferita da un fenomeno estrinseco – come secondo la dimensione petrarchesca dello scrivere versi. Eppure, deformati, questi elementi non riguardano più il sé: non sono più parola, ma liquidità di parola.
I punti di variantistica tra l’edizione del 2017 de L’altro limite e la presente non sono difficili da individuare. Alla luce di tutto questo, tuttavia, la lettura comparata dei due testi pone una questione di non facile risoluzione – proprio perché affonda le sue radici nella concezione (extra-testuale) di soggetto (nel testo). In altre parole: il punto di svolta, in queste due lezioni, non è dato tanto dalla caratura formale, dalla capacità tagliare questo o quel legamento verbale, ma dalla ratio che ne muove l’inciso. L’integrazione di una numerazione poematica, che limita il protagonismo della soggettività parlante, quindi, non sorprende: non più un ‘qui dico’ / ‘qui dico’ / ‘qui dico’ – ma ‘è detto’. Ovunque, nello spazio liquido.
Ancora, non meraviglia la nuova attribuzione di centralità all’aspetto acquatico della focalizzazione estetica. Alla specificità materica (empirica) della versificazione, di sereniana memoria, Borio sostituisce adesso un contesto di mobilità organica: non un ‘io sono’, ma un ‘io siamo’.
Siamo a un filo dall’acqua
e lì scivolano le facce e le epoche,
la nostra è lo schermo bianco del telescopio Webb:
la fotografia della luce, la distanza
Coerente con tutto questo, in ultima battuta, risulta l’integrazione di un punto focale nuovo sul dato animale. Adottando un principio di delocalizzazione del soggetto, per una coordinazione nuova dell’atto verbale, il contesto ontologico è allargato a un’alterità ferina – vicina a una sensibilità (ancora) topicamente contemporanea. È questo il caso della volpe, che Borio immette nel cosmo de L’altro limite come una presenza spogliata dalle stratificazioni allegoriche. Un movimento, il suo, che non avviene per rappresentare – ma per una paradossale idiozia sensibile, più preziosa di tutto.
Questa è un’isola al centro di un piccolo lago al centro
di un paese affilato al centro chiuso di un mare:
sembra una testa vista di spalle o un pugno –
la volpe corre veloce dentro la luna
e altrove:
Fratello del lago, sperma nell’acqua.
Sorella dei lucci, unione di elementi.
Siamo fermi adesso, ipnotizzati dalla volpe,
dalla densità della luna, dalle rughe degli ulivi.
Qui non si conoscono limiti.
Senza malinconia, l’osservazione del comportamento misterico dell’ulteriorità animale è fonte, per il soggetto scrivente, di ritrazione nuova. Davanti alla volpe, un ulteriore invito alla delocalizzazione del sé – in funzione del fatto che i limiti, la gabbia, sono saltati.
Considerare nuovamente il versante intellettuale dell’attività letteraria di Borio fornisce, a questo proposito, uno spunto interpretativo. È infatti possibile guardare all’isola – così come alla situazione descritta – nel riflesso delle sue presenze come organizzatrice del festival internazionale Poesiaeuropa (annuale, alla sesta edizione), che offre oggi uno dei momenti di incontro più significativi per la comunità poetica italiana.
Il riferimento a queste connessioni extra-testuali non è tuttavia utile per interpretare il testo a livello del suo senso – dal momento che, come si è detto, questo è demandato a un processo di sfasatura. E che anzi: nella deviazione come principio collettivo-presente basa la sua ragione creativa. Al contrario, la presenza sfrangiata di coordinate empiricamente identificabili restituisce il senso di uno scarto avvenuto – laddove a differenza della prima edizione de L’altro limite, l’autrice tende adesso all’annegamento di queste ultime. Sfogliandone le pagine, incontriamo un poemetto che tematizza la labilità dell’essere corpo, soggetto, persona singolare. Il punto di vista è orientato dal «dubbio», già surrealista, sulla «destinazione» stessa dell’atto. Non è quindi un testo, quello di Borio, che restituisce uno sguardo sul mondo, ma la saturazione dello sguardo stesso – come secondo la conclusione: fino a «uscire dalla luce, rientrare in noi». Non più in un me, ormai.
Stefano Bottero
…
1. IDEE
Il maestro scriveva il compito e lo imparavamo:
molte idee, animali sulle mani –
poche idee, esercizi sempre uguali.
Le idee poi non c’erano più, ma nel voto stampato
tutto quello che pensavamo e sentivamo
– un colpo secco, automatico.
Le idee si vedono lontanissime: cosa sono diventate?
In quel cosa forse niente di vero, le nostre idee
che lui ha spigolato, innocente per un peccato
senza rimorso… Riporta aria nei polmoni
– dove non sente non pensa.
4. LA SCATOLA
Immaginami come un’idea primaria:
intus et in cute, interiormente e dentro la pelle
scriveva Persio – sottovoce “finalmente!”.
E non scommettere ancora
nel tizio o nel caio per cui il cuore batteva,
il geco intrappolato in una scatola.
La mia ha fori che ho fatto con i denti –
da lì spio le persone e mi dimentico di me.
Spesso il vento la fa tremare –
qualcuno potrebbe accorgersi
“finalmente!” – trascinarmi allo scoperto.
Maria Borio, L’altro limite con inediti (Pellegrini, 2024)