Estratto | Giuseppe Cavaleri, “I Corpi Santi”

Pubblichiamo un estratto dal recente libro di Giuseppe Cavaleri, "I Corpi Santi" (Interno Poesia, 2024), con uno stralcio dalla prefazione di Sonia Gentili.

Dalla prefazione di Sonia Gentili

Questo singolare libro – non di una collezione di poesie ma una complessa architettura – si compone di una serie di lunghi canti narrativi il cui senso – quello di vite e voci singole tenute insieme da un luogo che le vuole al tempo stesso parte integrante e parte rifiutata di sé – è rivelato dal titolo, d’altronde puntualmente spiegato dall’autore all’inizio della prima sezione I Corpi Santi, che dà il titolo al volume.
I Corpi Santi riunivamo i borghi fuori le mura spagnole che delimitavano Milano. Istituiti a fine ’700, vennero annessi definitivamente alla città dopo l’Unità. Il nome deriva dalla leggenda che vuole le reliquie dei Re Magi impantanarsi in queste zone.
La Milano della raccolta è dunque un insieme di vite di cui il titolo suggerisce la natura corporale, creaturale e una santità che consiste appunto nella nuda vita: marginale, rifiutata, eppure sacra.
Dal senso dello scorrere ricevuto dalla prima sezione Corpi Santi si passa al movimento di elevazione panoramica su una massa d’acqua che si muove restando nel suo immenso bacino: è la seconda sezione, intitolata Mareneve. Anche questo titolo è un luogo ed è rivelato dall’autore: la Mareneve è la strada che collega la parte nordorientale dell’Etna con i paesi costieri. I catanesi la imboccano quando hanno bisogno di guardare le cose dall’alto e per ricordarsi di dove si trovano nel mondo.
Alla contemplazione della memoria – evidentemente personale: «Mio padre ha un modo tutto suo / di stare nel mondo, di farselo bastare. / La buccia delle arance ad esempio. / Non taglia l’estremità, né la scorza / fino ad arrivare asciutto alla polpa» – nel mare originario, insomma al momento della stasi panoramica sul mare dell’origine immediata, segue il tentativo di risalire il corso della acque verso l’inafferrabilità dell’origine remota. L’ultima sezione, L3, non è più di voci, ma di tracce, di reperti preistorici.
ll verso, definitivamente sommerso (ha forma di prosa questa parte del libro) è però cristallizzato nell’ambra, c’è ancora: le undici sillabe («il racconto di una cosa successa») e le dieci («nessun cervo racconta storie») ci dicono che siamo di fonte alla magma originario della voce in cui si fondono narrazione, referto scientifico, descrizione, canto.

*

Da Giuseppe Cavaleri, I Corpi Santi (Interno Poesia, 2024)

Qui il mondo non si tiene, la strada
si allunga troppo e poi scompare.
Se qualcosa è stato, è stato una volta
adesso rimane solo questa rabbia,
la fatica che si fa per non pensarci.
Il cielo si rovina in una caduta,
le foglie se le mangia il freddo.
Mentre i moribondi aspettano la 90,
si alza un vento che strappa le parole,
serrando in monoliti bocche e corpi.

Ma se strizzi bene gli occhi e osservi
l’unità degli attori in uno spazio,
un coro di storie graffiate, divorate – un risucchio che sa di gloria e vomito –
senti salmi di voci alzarsi e lamenti,
bestemmie di carne sconsacrata.

Santo dio di Albairate, Corvetto e Rozzano.
Dio dei seminterrati, degli zaini fruit of the loom,
delle creste, delle collane, delle canotte,
dio del reggaeton e della dance hall.
Santo dio della sillabazione incerta,
del sudore ricacciato sulle magliette,
del piscio e dell’ombra nelle stazioni.
Santo dio dei disintegrati, dei non integrati,
degli affitti, della paga, del lavoretto.
Dio degli intossicati, degli scoppiati,
dio dell’hashish e del Fentanyl,
delle benzodiazepine e del Rivotril.

Santo dio che non esisti,
che non hai corpo né sostanza,
e sei solo una catasta di speranze:
vieni, cala, discendi.
Ti daremo una bicicletta e poca ruggine,
tanto liquido nei freni e una giacca arancione
e splenderai, a Repubblica o a Lambrate,
come quando, spente le luci della Storia su di noi,
diventiamo formiche di fuoco nei sogni.

*

A novembre andavamo al cimitero.
Lì, mio padre parlava con le tombe.
Parlava con il nonno e con un amico
morto il giorno di sant’Alfio a trent’anni.
Con il tempo si sono aggiunti altri.
Parenti che avevo visto aggrapparsi
alla vita come al corrimano delle scale,
di cui avevo ammirato le mani
ruvide che mi mostravano i cedri,
oppure che avevo visto al lavoro:
la fresatura scandita dalle bestemmie.

Bisogna crederci nelle parole
oppure non crederci per nulla
per pensare che arrivano ai morti,
superando la terra, la materia,
ignorando i resti, la decomposizione,
la carne divorata da umido e vermi.
Ma lasciate andare così al vento,
le sillabe sbattevano sulle pietre.
Forse da qui, a giorni alterni,
l’idea che si perdano nell’aria
o che si fissino come il marmo.

Il linguaggio sono i vivi in fiamme.

*

Sotto la montagna siamo stati felici.
Nel cortile l’umido, le foglie,
gli arnesi con l’odore del nonno.
L’albero di limoni che moriva,
ma non aveva paura e rinasceva.
La vasca con le ninfee al centro,
i pesci mangiati dal cane,
la grande festa per i sette anni.
Sotto la montagna la città.
Le case cresciute tutte dalla sciara,
Misterbianco un cratere umano,
il Borgo ch’era borgo perché lì
Catania finiva e si ammirava il bosco,
il confine a nord che è la Barriera.

Solo nei nomi durava il passato.
Il senso terminava con i morti,
con la casa in via Scarpanto venduta,
spartita asse per asse tra parenti.
Non rimaneva altro che abbattere,
seppellire quelli venuti prima,
mettere la ruspa in moto, costruire

*

C’erano dei bambini. Correvano.
All’uscita dalla scuola il giardino
chiedeva una scelta: le scale, il rientro,
il pranzo semplice in casa dei nonni,
il silenzio violato dai Sayan in tv.
Oppure il cortile che svoltava,
si allargava tra betulle e foglie,
stendendo un tappeto nella terra:
nessuna pietà dei formicai uccisi.

Dove ci portano le radici?
Diceva una voce e sembrava il vento.
Portavano alla ringhiera, al confine
uno spiazzo, una centrifuga rossa.
Come si finisce dall’altra parte?
L’irraggiungibile aveva il sapore
della mensa, delle lenticchie,
dell’igienizzante svuotato nei bagni:
la polvere del gesso sulle mani,
gli occhiali spaccati per capriccio.

I ricordi piovono, si attaccano
e i luoghi fuggono, non gli credono.
Dovrebbero gli oggetti dell’infanzia
a una certa età essere bruciati.
Sarebbe dolce guardarli, poggiarli
sulla legnaia ad uno ad uno,
l’odore fresco della recisione
come un rituale di estremo saluto.
Ognuno terrebbe in sé una storia.
Quella volta delle ciliegie e del pane,
delle scarpe sul selciato e dei tuoni.
Quella volta del forno e della ghisa,
del vento che sbatteva in faccia.

Ma da bambini non esiste passato.
Si raccolgono i rami dalla terra
e si battono sulla cancellata:
non si bada alle ombre che ci inseguono,
alle impronte di sé che si lasciano,
alle scintille della molatura
sui corpi in continua trasformazione.

*

All’inizio non avevano nemmeno il fuoco. E stavano sparsi e si odiavano. Non camminavano in maniera eretta, ma proni, e le unghie si facevano sozze di terra e sangue che colava dalle carcasse che divoravano crude. Poi dev’essere accaduto qualcosa. Una sera, un fulmine su una folta vegetazione. E poi incessanti raffiche di vento e rami che sbattono tra di loro, fiamme chiamano fiamme: incendio.

Loro che scappano, che hanno paura perché sanno che incendio diventa cenere e significa morte. Ma uno si avvicina, oppure si trova per caso in un punto da cui non riesce a scappare, e a mano a mano che il fuoco avanza sente che ha caldo, ma non brucia, che il freddo e l’umido arretrano e gli scorre meglio il sangue.

Scampato all’accerchiamento, i compagni lo vedono tornare e pensano che non sia più l’umano che era prima, ma sia stato toccato, graziato, un semi-dio, un costruttore di fuoco venuto a dispensare la nuova scienza. Così smettono di mangiare la carne cruda, la cuociono, scoprono il gusto, si sviluppa la mandibola, il calcio trasforma l’arcata, sprecano meno energie per mangiare. Si dedicano ad altro. E ancora quando è freddo, basterà chiamare il dio delle fiamme, disporsi accanto.

Nelle serate passate attorno al fuoco via via cominciarono a mettere le parole una dietro l’altra.

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