Biagio Cepollaro | Una poesia necessaria, l’urgenza del corpo

Un articolo sulla poetica di Biagio Cepollaro - ospite della rassegna MediumPoesia: Poesia e Contemporaneo - che si concentra soprattutto sull'ultima fatica dell'autore: la trilogia detta «delle qualità» o «il poema del corpo». Pubblicazione a cura di Francesco Ottonello e Michele Milani.

Ciò che colpisce della Trilogia delle qualità o Trilogia del corpo di Biagio Cepollaro è un sentore di necessità del lavoro poetico, che pervade l’opera, leggibile come un poema continuo: a partire da Le qualità (2012) e La curva del giorno (2014), per arrivare a Al centro dell’inverno (2018). Un “lavoro da fare” (come recita il titolo della silloge del 2006 di Cepollaro, anticipatrice della trilogia) che nasce da un’urgenza personale. Nonostante ciò, nei testi non compare mai esplicitamente l’Io poetico, se non per alcune eccezioni (ad esempio, i testi introduttivi del primo dei tre libri). Se vogliamo, però, è come se la parola “Io” fosse stata sostituita dalla parola “corpo”, un aspetto che mi pare fondamentale sottolineare. Questa scelta può essere data dall’intento di non limitarsi ad esprimere una volontà strettamente individuale, che viene, così, ‘allargata’ per comprende l’altro insieme all’Io in unico termine, che non sia un retorico “noi”, ma che è appunto «corpo».


Si ha dunque una parola-postura che si impregna di nuove semanticità, una parola materica che non è inerte, ma assumendo un peso si muove, si blocca, patisce, non risultando voce vuota ed effimera, ma raggrumando in sé le fatiche dei singoli “Io” e la propria personale, nella ricerca di una dialettica tra sé e l’altro, una dialettica dei corpi. Difatti, la maggior parte dei testi della trilogia – e la totalità di quelli del terzo libro – esordisce proprio con l’espressione: «il corpo», che al di là di essere tema, si fa elemento linguistico che dà via al principio dinamico di costruzione dei singoli testi poetici e del macrotesto. In questo poema in tre momenti leggiamo una poesia del corpo che si fa, con difficoltà, presenza, caratterizzata dal coraggio di «fare» e «dire» nel presente. Proprio per questo, quella di Cepollaro è anche poesia del lavoro, nel senso etimologico di labor, ovvero fatica, anche della parola, che è sì dell’intelletto – che la medita e la articola nella formazione dei versi – ma che è anche fatica del corpo. Con l’insistenza prolungata su questo termine, il poeta cerca di dissolvere la dicotomia tra «corpo» stesso e «psiche». In essa, spesso, il corpo «è come se inciampasse», ed essa risulta talvolta «un’incertezza», o del corpo persino «una delle sue invenzioni», che non tollera la «completezza del silenzio». È come se la dicotomia si risolvesse con psiche annullata e inglobata nella nuova “entità-corpo”, che: da una parte «cerca la sua sovranità nel dissipare i confini» e nella confusione con l’altro, dall’altra ha bisogno di stabilire «ciò che chiama esterno» e lavorare «alla creazione del suo margine».


Può essere interessante, a questo punto, verificare queste impressioni focalizzandoci sui versi estrapolati dal libro che chiude la trilogia: Al centro dell’inverno. Qui è affrontato anche il rapporto tra corpo e società: ritroviamo un richiamo all’urgenza del corpo, che nella società ipermediale e virtuale viene a mancare più facilmente. Come ha scritto McLuhan, in Understanding Media (1964), l’apparizione di ogni nuovo medium comporta una rivoluzione dell’intero sistema. Il medium risulta essere un’estensione del nostro corpo, che procede dunque ad una necessaria autoamputazione. Per evitare di cadere in un effetto narcotico e narcisistico e fare la fine del Narciso del mito, è fondamentale riconoscere nel medium un’estensione del proprio corpo, ed è dunque fondamentale il concetto di responsabilità. E più di tutti è l’artista – per McLuhan – l’uomo della “coscienza integrale” – e potremmo aggiungere – colui che è capace di percepire il contemporaneo e le potenzialità rivoluzionanti dei media.

In uno dei testi di apertura della silloge, Cepollaro scrive che in questa società «il corpo ogni giorno si connette attraverso un fascio di luce / ad altri corpi e le teste si annodano con onde invisibili», così avviene che «se il corpo tagliasse questo filo che lo lega agli altri / si sentirebbe immediatamente respirare ma l’incertezza / della strada sarebbe più grande e anche assordante / sarebbe l’immediato silenzio sceso nella stanza». Da questi versi emerge la paura della solitudine, una paura che diventa vero e proprio terrore e paralizza, allontanando dalla possibilità di vivere più serenamente la solitudine stessa. Essa assume un aspetto positivo in questo libro, anzi, risulta un momento fondamentale per poi potersi connettere davvero con l’altro corpo, senza che la «solitaria fantasticheria» divenga «fantasma». Anche se in questa società un corpo «appare solo / sol perché si astrae da un mondo di parole fallacci e dall’idiozia», la solitudine – seppure dolorosa – deve essere vissuta e preferita alla condizione di vuoto, offerta dal mondo delle iperconnessioni.


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Considerevole risulta, dunque, il rapporto tra il corpo e la parola, infatti «il corpo si tuffa nella piscina riempita da parole / che scorrono incessanti attraverso tubi invisibili», e sono proprio queste parole a connettere il corpo al mondo, che si fa in tal modo «quotidiana insensatezza». La «psiche» risulta, così, affollata ed invasa, con il paradossale risultato di «farla sola e febbricitante», negandole un necessario silenzio, una necessaria solitudine. Poi, si può fare emergere il rapporto tra corpo e vuoto, difatti, a una sana e necessaria solitudine vissuta, si sostituisce la modalità desolante del vuoto che pressa, tant’è che: «il corpo al centro dell’inverno è un vuoto che non si risolve / è un punto interrogativo che attende il tempo che lo prende» e anche ciò che potrebbe salvarlo «dal collasso della storia» –  ovvero «i volti / pochi dell’incanto» – pare poter venire meno con un’allarmante facilità, per via di una superficialità ipermediale. Contro essa il poeta incalza, scagliandosi col coraggio del dire e del fare, riflettendo con coscienza nel tentativo di creare una poesia del pieno, poesia necessaria, poesia dell’urgenza del corpo.


Di rapporto tra potere e corpo si è occupato a fondo anche Pasolini, di formazione marxista, così come lo è Cepollaro, con cui alcuni sono i punti di contatto. Egli tentò di mostrare anche nel suo ultimo film, Salò o Le 120 giornate di Sodoma (1975) – attraverso una struttura allegorica improntata sulle opere di De Sade, Dante e Marx – come la complicità di mass media e potere politico fosse basata su interessi perlopiù economici, con la volontà di abbassare gli standard culturali e assoggettare la masse. In questo modo, si arrivava a fare quello che lo stesso fascismo non era riuscito a compiere, una “rivoluzione antropologica”, capace di scalfire l’animo attraverso la corruzione del corpo, mercificato e divenuto strumento del potere. La negazione assoluta del corpo e del suo valore era per Pasolini la negazione assoluta dell’umanità, data dall’impossibilità di riconoscere nell’altro uomo una persona, che nel corpo trova la sua manifestazione più urgente. La scelta di Cepollaro – che coglie un avanzare sempre più pressante di quel rapporto di “Potere” che Pasolini tentava di esprimere – è proprio quella di rimettere il corpo vessato e mercificato al centro delle sue riflessioni e della sua poesia. Al di là del «piacere» e del «godimento», sono necessari per il corpo il «respiro» e il «silenzio», entrambi aspetti associati alle due attività fondamentali dell’entità-corpo: il «dire» e il «fare». Infatti, Cepollaro scrive che del corpo «il silenzio che non appare è una sua voce», e il mondo iperconnesso diventa «un sempre più inutile discorso». Un corpo incontra un altro corpo per far «rimbalzare le parole» e «le sue pulsazioni sono gli accenti / di un dire che conclude la frase solo per cominciarne un’altra».

È quindi presente una volontà di ascesa e di inserimento in un «flusso comune», ma allo stesso tempo è presente un bisogno di ritrovo del proprio respiro. Certamente, al di là del forte impianto filosofico occidentale e marxista, possiamo cogliere nella poetica di Cepollaro un rapporto con il pensiero e il sentire orientale, buddista e soprattutto taoista (anche il termine “qualità” è in realtà una traduzione del sanscrito gua). Infatti, «il corpo si dà una misura attraverso il respiro», ed è il respiro del corpo che si configura come il ritmo della poesia. La parola necessaria ed essenziale viene opposta alla parola vuota dell’inutile chiacchiericcio e dell’eccesso di logos. Fondamentale risulta l’unione tra i corpi, e un corpo si lega ad un altro corpo «sedimentando nella memoria il piacere». Esso vuole «tornare rinnovando ad ogni abbraccio la condizione dell’inizio», tuttavia, spesso può risultare «imbrigliato nei tempi e nei modi di una vita prescritta», rimanendo ancorato alla «distanza della storia» e non essendo consapevole dell’«archeologia che il corpo porta con sé». Un corpo conscio realizza, invece, che «il capire è solo una parola» e che ciò che risulta importante è il fluire comune «avvicinando i corpi per fare insieme l’istante». Il problema aumenta quando il corpo arriva al punto di «usura» – individuale, ma anche storica – e «comincia ad aprirsi la falla», giungendo poi ai Margini della speranza d’Occidente (titolo dell’ultima sezione del libro). Il corpo in questa epoca «non sa se o da dove si avvisterà / il primo tratto della speranza», e l’Occidente – da intendersi come «un ideale divenuto poco corrispondente alla realtà», come indica l’autore in nota – non fa che  essere «avvitato su se stesso», accelerando il suo processo di «implosione» e «dividendosi all’interno». In questo stato di cose, Cepollaro ci mostra un corpo alla ricerca degli «ultimi bagliori», in una dimensione di «ansia collettiva / che non può essere detta». Tuttavia, accanto ad una pars destruens, Cepollaro riconosce anche una possibilità di pars construens, che sta in due dei pochi poteri rimasti al corpo: «la parola da formulare» – ovvero «il dire», che è «significare il mondo» – e la forza del «fare», che comincia rendendo il «respiro» del corpo la propria «misura». L’ultima poesia, infatti, esplicita questa connessione tra il fare e il dire, tra «terra» e «cielo», il concreto e l’ideale, oriente e occidente, perché «il corpo ha fatto del dire il sogno del suo ritmo», senza cui «la forma dell’arte è niente».

Francesco Ottonello 

Biagio Cepollaro

Biagio Cepollaro

Biagio Cepollaro, è nato a Napoli nel 1959. Poeta, critico letterario e artista visivo, vive a Milano. È stato co-fondatore della rivista «Baldus» (1990-1996), promotore del Gruppo 93 e teorico del ‘postmoderno critico’. Esordisce in poesia nel 1984 con Le parole di Eliodora, a cui segue la trilogia De requie et natura : Scribeide (1985-1989), Piero Manni Ed.,1993; Luna persciente (1989-1992), Carlo Mancosu Ed., 1993; Fabrica (1993-1997). Una successiva fase della produzione letteraria di Cepolarro è costituita Versi Nuovi (1998-2001), del 2004 e da Lavoro da fare (uscito in ebook nel 2007 e stampato poi nel 2017 per Dot.com Press). Nel 2008 esce il libro-catalogo della mostra di opere visive presso La Camera verde intitolato Nel fuoco della scrittura, e a questi lavori segue la seconda trilogia composta da Le qualità (2012), La curva del giorno (2014) e Al centro dell’inverno. Nel 2018 è uscito anche il suo primo romanzo, La notte dei botti.

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