1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi almeno 5 che per te siano fondamentali?
Ne cito nove. Sono libri su cui ho ragionato moltissimo, soprattutto per ragioni di stile. Alcuni mi hanno turbato profondamente per motivi che definirei umani. Li elenco in ordine cronologico.
Ritorno a Planaval di Stefano dal Bianco (2001)
Armi e mestieri di Giampiero Neri (2004)
Pasqua di neve di Enrico Testa (2008)
Tersa morte di Mario Benedetti (2013)
Argéman di Fabio Pusterla (2014)
Nuovi giorni di polvere di Yari Bernasconi (2015)
Osare dire di Cesare Viviani (2016)
Alfabetiere privato di Azzurra D’Agostino (2016)
Lingualuce di Damiano Sinfonico (2017)
2. Se incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?
Non credo ci sia un modo per riconoscere un poeta. Non solo, per me non ha alcuna importanza che questa persona scriva versi se non in quanto possono essere versi che mi interessano e su cui posso dialogare. Di una persona mi affascina la vitalità, l’intelligenza, l’immaginazione. Questi tre aspetti non necessariamente sono espressi da una persona che scrive poesie ma di certo sono parte della poesia.
Ci sono tante pratiche poetiche quanti sono coloro che le esercitano ma per me una poesia è poesia se è il risultato di un lavoro che, all’interno di una struttura ben definita e riconoscibile e attraverso gli strumenti adatti a ricostruire e decostruire il materiale linguistico, si assume la totale responsabilità della parola detta e non detta, della chiarezza e della ragione, dei processi logici ed espressivi e con questo intento prova ad additare all’invisibile. Probabilmente, per me, chi scrive con questa intenzione, fa poesia. Yves Bonnefoy ha scritto che per fare poesia è necessario avventurarsi nel discorso degli altri, negli uomini e nelle donne del proprio tempo, dove immaginario e vero si confondono. Poesia, quindi, come attenzione a sé stesso nell’altro e all’altro in sé stesso. A volte m’immagino la poesia come la ragnatela di un minuscolo ragno nero nell’angolo di un muro bianco. In ogni caso, per provare a scrivere ma non solo, ci vuole impegno umano. Un modello irraggiungibile è Primo Levi.
3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi? Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?
La comunità della poesia, in Italia, è piccola ed esiste. La bellezza di pubblicare un libro sta anche nelle relazioni che si creano, prima e dopo la lettura di un libro, che sia il proprio o di un altro. Ho la fortuna di aver allacciato delle conversazioni preziose.
4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?
Se parliamo di tradizioni no. Mi piacerebbe tradurre e imparare di più. Gli unici autori che ho davvero studiato, anche per la conoscenza, sebbene imperfetta, della lingua, sono Mark Strand e Alejandra Pizarnik. Degli altri, complice una lingua per me inaccessibile, ho solo consumato le pagine. Tra questi ci sono il poeta polacco Zibgnev Herbert, il poeta olandese Cees Noteboom e il poeta tedesco Peter Handke e poi Paul Celan e Josif Brodskij. A proposito di traduzione, a dicembre per la casa editrice Festa mobile uscirà Approdi. Vivremo fino al mattino, un libretto che unisce poesia e fotografia con una mia selezione e traduzione, condotta insieme a Paola Fossa, delle poesie di Louis Brauquier, un poeta marsigliese che incentra la sua riflessione sul mare e sulla lontananza.
5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?
Continuamente, se parliamo di discipline scientifiche, quasi mai se parliamo di altre forme artistiche non scritte. Pittura, musica, fotografia scultura sono forme di cui amo alcuni raggiungimenti e che in qualche caso studio ma che non entrano in modo palese nei miei testi. Faccio un esempio: l’architettura, la pittura e la scultura religiosa medievale mi appassionano. Se vado in giro e so che c’è una chiesa romanica, non posso non andare a visitarla e mi soffermo su ogni particolare. Poi vado a leggerne la storia e cerco di capire cosa è cambiato dalla fondazione ad oggi. Cerco di capire quanto è scomparso. Cosa è rimasto. È la dialettica tra sparizione e permanenza che più di tutto mi stimola.
Discorso diverso vale per le altre discipline. Filosofia ed ecologia del paesaggio sono al centro delle mie riflessioni, così come la botanica, la geografia e la storia. Sulla mia scrivania c’è ormai da alcuni anni il catalogo Alberi e arbusti in Italia di Ferrari e Medici. Non potrei scrivere o starne senza.
6. Che rapporto hai con la rima?
Da ascoltatore. Mi stupiscono le assonanze, le consonanze e le rime interne. La rima è una struttura misteriosa che ho timore di usare. A volte ho la sensazione che le associazioni che scatena siano difficili da sopportare.
7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?
Maria Borio, Antonio Lanza e Francesco Terzago
Infine ti chiediamo di selezionare dai 2 ai 5 testi, esemplificativi della direzione più recente assunta dalla tua poesia, inediti o provenienti dal tuo ultimo libro.
Scelgo cinque testi da Le anime elementari, il mio unico e primo libro appena uscito a settembre per Interno Poesia.
Croce di Creto
la prestazione dell’agricoltore
è staffetta al vento, all’incostanza
il muro, il secco e più lontano il mare
la febbre della terra, la neve che non scende
e l’albero che secca, l’erba tutta bruciata
vincono le piante bene armate
le più morbide anche d’estate
*
Monte Marsicano
Leggera è la farfalla
che abbiamo adottato
succhiava dalle nostre mani
arrotolava e srotolava
la spiritromba come nelle teche
del fiore, aveva il torace celeste
e le antenne striate, passava
su un dito e su un altro
il tuo pollice
non era mai stato
una casa per farfalle
il tuo palmo un giardino
leggera è la farfalla
che abbiamo lasciato
è stata per poco con noi
come si conviene a un’effimera
*
Ripenso spesso a Frattura vecchia.
È un paese abbandonato a 1100 metri, sotto al Monte Genzana.
C’è una piazza d’erba
un ruscello che spunta dalla terra
e le bocche scolpite di una fontana.
Nel 1901 dopo il terremoto
detto della Marsica
perse quasi tutti i suoi abitanti.
Ora il fico abita le finestre
dal tetto si sporge la rosa canina
e i rovi riempiono di more le strade.
Quel giorno che lo abbiamo
conosciuto abbiamo scoperto la durata.
La continuità delle foglie e del verde
la ripetizione delle parole e dei gesti
sta nell’anello che non ti ho regalato
nel fiatone per risalire il monte
negli ometti che abbiamo ricomposto assieme.
Ci siamo tornati altre volte
l’acqua gorgogliava tra i denti di leone
e il canto dei grilli durava fino al tramonto.
Qui si sentono molte voci e nessuna parla sopra alle altre.
Si alza il vento, un turbinio di polvere ci avviluppa.
Mi prendi per mano
e continuiamo il sentiero
riprendendo i segnali per il lago.
Ti sento la pelle e le ossa. Lo vendono a Scanno
quell’anello, è d’oro, fatto a mano, e costa molto.
Ti sta benissimo al dito.
*
Terrasanta
Tra il Vallone dei Vergini e dei Girolamini
nella salita del Rione Sanità, non a destra come indica
la voce ma a sinistra, Cimitero delle Fontanelle
enorme cavità.
Cammino tra gli ordinati, tibie, femori e crani
e poi umido e sudore, polvere e monete, denti e ragni.
I fiori sono finti, non sopravvivono veri
se si mettono sui morti. I lumini brillano, i rosari sono stinti.
40.000 persone
stipate in stato d’abbandono
moltiplicati per 4
metri di profondità
altri morti sminuzzati
sotto il calpestio. In una navata
non degli appestati o dei pezzentielli
è acefala la statua di San Vincenzo, il monacone.
Ci sono luoghi che si ricordano comunque
ma noi non c’entriamo proprio niente
è come starci appena nati
non conosciamo una parola
e le conosciamo tutte: Materdei. È detto
che esondarono in un giorno e che le acque
li abbiano lavati ma gli uomini, questi uomini di ossa
li abbiano nascosti sottoterra
ancora nel ventre che li ha espulsi
e sistemati Per Grazia Ricevuta nelle cave di tufo
scavate per i vivi, nel ticchettare delle gocce
che si aggrumano nel pianto e nel tempo.
Lì dentro
per quei casi che non sai
ho incontrato delle facce conosciute.
Stavano con Pluto, il loro cagnolino.
Anche loro volevano adottare.
L’avevano trovato e scelto, il figlio
e con cura e con lo straccio il cranio
gli avevano pulito e messo una monetina sulla testa.
Uno loro non l’avrebbero mai fatto
era qualcosa che c’entrava con i teschi
e con quella luce che illuminava la basilica.
C’entrava coi lucchetti, le teche, la fossa e la famiglia.
Si sono allontanati tra le ossa verso il fondo
ma prima ci siamo ripromessi di vederci
ancora al buio. Non sono rimasto lì a lungo
sentivo freddo, la gola mi pulsava
e non volevo fare coda
per la pizza da Starita. Avevo tanta fame.
E che vuoi fare, all’una, non mangiare?
*
La casa dei ciechi
1944
Ad Ussolo in Valle Maira
un pilone votivo affrescato
una borgata, una casetta e un letto
gli aghi caduti dai larici. Tra i pascoli
bianchi, in un mondo di ciechi, due ciechi.
È il giorno di Santo Stefano, il primo martire, il linciato.
L’esercito
non ha radar
o sonogramma, così
ci hanno chiuso qui dentro
per ascoltare le strade nel cielo
per ascoltare la guerra che ci corre
di sopra e avvertire la contraerea, il comando.
A terra, paglia, pietre e stoviglie. Nel respiro
le pecore, le capre, la carne. In alto
strepitano i bombardieri diretti
dalla Francia verso le città
dell’Italia.
Noi
non vediamo
e non vogliamo combattere
ma vogliamo volare
oltre la linea di confine
oltre la linea della schiena
e ci ascoltiamo piano
ci sfioriamo lenti
lungo la linea del collo
lungo le linee della mano
poi con coraggio e con timidezza
ci prendiamo per la gola e le scapole
e ci stringiamo ben sotto il petto
ci tocchiamo sotto i vestiti, dentro le anche e l’addome.
Scoprendo l’amore ascoltavamo il rombo nei cieli passare.
Simone Biundo