Caro Dario,
forse una prefazione non andrebbe scritta in forma di lettera, ma in fondo è da quando ci conosciamo che parliamo di poesia da amici, incontrandoci al bar, in osteria, per strada, in una piazza.
Inizio così, perché penso anche che le persone che hai incontrato e descritto nella tua silloge vorrebbero farlo o avrebbero voluto.
La via che passa per l’articolazione dei versi e quindi del pensiero non è molto conveniente. È una stanza d’ospedale. O le pareti di una casa, gli interni. Sono letti che esprimono la profondità di un abitare soppresso in un modo o in un altro dalla mancanza di movimento. Le gambe a volte sono zampe, il dono dell’intelligenza è istinto al vivere, ma nonostante tutto, come dice Dario Villa “veniamoci incontro […] domani ti porto / a vedere la notte dei morti viventi”. Sono questi i centri nervosi dell’intera tua raccolta, i cosiddetti gangli toracici cioè quelli che forniscono nervi alle ali e alle gambe. Sei sempre stato legato ai tuoi pazienti e ai tuoi lettori, nelle tue raccolte e nelle tue serate di poesia al pub. Respiri con loro, parli con loro anche nei tuoi silenzi dove si esprime su una linea mediana di condivisione il tempo dell’attesa e il tempo dell’azione. A volte l’idea d’ispezione nel caos delle macerie corporali tenta quasi una esumazione. Il corpo già morto è riportato in vita da un ritmo che tenti di conferire al paziente. Nessun predatore quindi e nessuna preda ma ascoltatori che sotto l’occhio e l’orecchio esperto di un musicista incantatore attendono nuova esistenza. E poi lo stupore, il non credere ai propri occhi.
Scavi con grande cautela in quel piccolo fazzoletto di terra che è un letto d’ospedale non un reperto ma la sua missione, non frammenti ma una via di fuga. Ne scaturisce conoscenza, un preludio per empatie future, un coronamento accresciuto di quella che è stata la tua ricerca poetica: riesci a vedere dentro la tua immaginazione la vita che implode in un’immagine sorpresa non nel suo nascere ma nel suo morire.
Interno ed esterno ci dimostrano che disponiamo di poco, quasi di niente per osservare la morte. Il vero miracolo è fermarsi su un corpo che non rischia alcuna decomposizione perché reso immortale dal verso che ci dimostra anche che esiste una frontiera di condivisione attimale. Non un confine, ma uno spazio comune alle due forme primarie di vita, nel quale solo l’immobilità di chiosserva e di chi è osservato hanno la stessa anatomia di stupore con piccolissime ma efficaci dosi d’ironia: “era nato da un geyser, a quanto pare / così di getto”.
In tutta la tua silloge reggi tale confronto, conservi le carni con lo stiletto velenoso della tua versificazione disarticolata, le tieni in salamoia allo stesso modo in cui l’imenottero iniettando una piccola goccia d’umore fa con le sue prede. È quasi impossibile muoversi da umani fra le stanze e gli interni, attorno al Gattile di Via dei Matti che poi altro non è che tutta la tua Infanzia ed è per questa ragione che sembri aggirarti in questi spazi come un animale, ce ne sono tantissimi nella raccolta: la lucertola, il merlo, le blatte, il canarino giallo, i gatti, le mosche, i cani, un colibrì, le formiche, i pesci, perfino i cammelli, cerbiatti, conigli, volpi, la marmotta, il capriolo e per finire un drago! Animali che si muovono in un prodigioso viaggio tra terra e cielo nella chimica trascendentale delle parole. Il tuo metodo è rapido ed efficace, pone il paziente in una condizione che differisce dalla vita (“le hanno sconsigliato di provare forti emozioni”), verso l’immobilitàe lo eleva a potenza salvifica per l’intera umanità. “Voglio fare il concime” dici nella poesia che apre la raccolta. Giusto. Come del resto la poesia fa da millenni.
incipit di Il caffè della sala infermieri, Dario Bertini
Se davvero si vuole parlare della gente
non c’è niente di meglio degli obitori,
che tanto si finisce lì lo stesso
perché non serve a nulla correre dietro alla felicità
come se fosse una lucertola stesa al sole.
Tanto varrebbe piantarsi una bussola dentro il petto
e lasciarsi trasportare nella vita
neanche fosse una stanza vuota con un tappeto grigio
bruttissimo a cui tutti cercano di dare fuoco
finché arrivi un bambino, una notte, che dica
non riesco a dormire e fissando uno specchio si chieda
cosa farai da grande? – la risposta è negli occhi
che brillano come bicchieri rotti
voglio fare il concime, fare ridere i fiori
DARIO BERTINI nato a Legnano (MI) nel 1988, abita a Pavia. Si è laureato in Lettere a Pavia con una tesi dal titolo “‘Multipla una eco’ La poetica dialogica di Ferruccio Benzoni (poetica e stilemi in Sguardo dalla finestra d’inverno)”. Ha curato per le edizioni Marcos y Marcos Con la mia sete intatta. Tutte le poesie di Ferruccio Benzoni (2020). Ha pubblicato Distilleria di contrabbando (Cardano, Pavia 2009, con prefazione di C. Lolli); Frequenze clandestine (Sigismundus Editrice, 2012 con postfazione di A. De Alberti); Prove di nuoto nella birra scura (Edizioni del Foglio Clandestino, 2014). Collabora da alcuni anni, per la poesia, alla pagina online di «Nuovi Argomenti». Organizza numerosi reading ed eventi culturali, tra cui la rassegna mensile “Poesie al tavolino”.