Abitare l’assenza. Su Animali selvatici vaganti di Lorenzo Chiereghin

Pubblichiamo una recensione di Simone De Lorenzi alla raccolta poetica "Animali selvatici vaganti" di Lorenzo Chiereghin, uscita nella primavera 2024 per Nulla Die.

Poco più di un anno fa, nel febbraio del 2023, se ne andava il grande poeta Giampiero Neri. Tra gli interlocutori dei suoi ultimi anni c’era anche Lorenzo Chiereghin, milanese classe 1974 che Neri apprezzava come «una delle voci più interessanti e riconoscibili della nuova poesia italiana». L’attestato di stima proviene dalla prefazione a Previsioni sull’arrivo del caos (Nulla Die 2021), che si trova a stretto contatto con la nuova raccolta Animali selvatici vaganti (Nulla Die 2024); Chiereghin, infatti, prosegue e muta di prospettiva la condizione di reclusione esistenziale attorno a cui si sviluppava lo scorso libro e il confronto tra le due sillogi permette di chiarire il valore del riconoscimento neriano.

Se nelle Previsioni regnava un pessimismo catastrofico, con la conseguente spinta all’evasione – «Questa deriva è una fortezza / invisibile che ci tiene ancora / prigionieri. Nessuna fuga / dal mondo ci è concessa / nessun ricovero dentro l’orbita / celeste di uno sguardo», p. 48 –, qui a prevalere sono l’indeterminatezza e l’assenza (delle quali la testimonianza più significativa viene dalla particella negativa «non», impiegata in abbondanza). Il pessimismo è dunque declinato in una dimensione nichilista («E io non sono più niente», p. 59), dove la catastrofe preventivata nel libro precedente si concretizza in uno scenario post-apocalittico in cui l’apocalissi non ha nulla di fantascientifico e partecipa piuttosto dell’avvilente banalità cittadina.

Solo adesso mi rendo conto
che ho sempre vissuto
in un mondo sommerso,
con l’imminenza della fuga
addosso, come un prigioniero
schivo e indolente, vestito
di stracci, che ignora persino
la colpa da cui sta fuggendo. (p. 28)

È nella natura che l’io poetico trova il motore per reagire a quella «condizione di inattualità» che già Neri rilevava come caratteristica dell’autore: un «segreto bisogno di altitudine» (p. 19) che eleva il paesaggio montano a oggetto dei suoi desideri: i crinali dei monti («unico azzardo che ora mi concedo», p. 25) rapiscono il suo sguardo facendosi orizzonte capace di procurare un temporaneo sollievo dalla quotidiana disperazione urbana. Il grigiore e la piattezza che permeano Animali selvatici vaganti, infatti, non sono meno insidiosi del pericolo catastrofico paventato in precedenza: la monotona stabilità che si viene a creare nella routine cittadina è ancora più diabolica dell’inferno temuto. E le bestie erranti del titolo – chiosa l’autore nell’avvertenza introduttiva – altro non sono che i poeti, in fuga da questo piattume vuoto e senza senso verso diversi orizzonti d’attesa.

Il ricorso alla natura, espresso in varie forme animali e vegetali, potrebbe indurre a pensare che Chiereghin faccia un utilizzo ingenuo di temi e codici iperinflazionati quali potrebbero essere quelli propri di un topos edenico. Tuttavia questa dimensione in potenza ancestrale è attraversata da lampi di quotidianità e riferimenti a una sfera più mondana che allontanano il discorso da un orizzonte anacronisticamente panico (distanza evidenziata inoltre dalla pronuncia ponderata, non urlata né entusiastica, della voce poetante). Può apparire contraddittoria la densità di occasioni e riferimenti concreti – pur carenti rispetto al passato – in un libro che tematizza l’assenza, ma è chiaro come questa si configuri come un’inconsistenza esistenziale più che fisica.

Si ha così un’assolutezza che non disdegna lo sporcarsi le mani col mondo concreto (la villeggiatura, le incombenze genitoriali, i propri affetti, le strade, il cortile domestico, i vicini sul balcone): stimoli provenienti da quello squallore provinciale che compone l’ambientazione tipica della produzione dell’autore. Questo alone di indefinitezza quasi astorica è quindi situato in un qui-e-ora determinato, che talvolta prende concreta fisionomia in figure e situazioni del mondo fenomenico: «È la tromba / di Chet Baker […]» (p. 60); «Alla fine, decidi di aprire l’antologia / di quel poeta irlandese a cui molti anni fa / assegnarono il premio Nobel» (p. 81). C’è, insomma, la tensione tra la spinta verso un altrove vagheggiato come salvifico e un inevitabile richiamo dal mondo empirico, che spesso danna e solo a volte lascia intravedere vie di fuga o di salvezza.

Finalmente decidi di perderti
nel frastuono che fanno le parole
troncate sul nascere e allora corri
verso l’assedio di tutti gli sguardi
possibili attratto dalla parvenza
di una voce remota e inviolabile
che rinsalda il tuo bisogno di rivolta
e ti fermi sotto le fragili arcate
della pioggia che scuote i portoni
delle case solo per qualche istante. (p. 83)

Nella riflessione di Chiereghin la caducità dell’uomo pare riscattabile solamente dal poeta, che si costruisce la speranza di «un risveglio / ancestrale, un ultimo slancio silente / che mi sveli le palpebre del mondo» (p. 56). Ma sono pochi gli impulsi compiutamente positivi che da questa derivano, accolti con disillusione e senza riserve ironiche («e questa lieve brezza / mi sussurra che il mattino radioso / è spuntato sul mondo», p. 17; «[…] un bozzolo disabitato / in cui per qualche istante / la vita ha irradiato il suo mistero», p. 24).

Quella del poeta «aggrappato a quell’ultimo / verso che ancora non c’è» (p. 161) è una fuga solitaria, che a prima vista può apparire connotata da un’altezzosità propria dell’intellettuale che si vuole distinguere; ma che in realtà è lo scarto di chi vuole andare oltre la superficialità, «Smetterla di addentrarsi nelle cose / ordinarie, nei loro futili labirinti / di felicità mercantile, tirarsi / fuori dai discorsi più arrendevoli, / dalle domande vuote […]» (p. 76). Non mancano riflessioni sullo statuto del poeta, anche se la metaletterarietà è meno autoriferita rispetto al passato: a differenza delle scorse raccolte, abolisce del tutto le prose esplicitamente autobiografiche che era solito intercalare ai testi in versi.

Vaga il poeta alla ricerca
di un appiglio, si ancora
alle fauci della notte
accettando il rischio di essere
divorato. Ne trae ancora
qualche parola acuminata
come il suo slancio. (p. 39)

C’è, di fondo, un’apertura verso il futuro fondamentale per sfuggire all’oblio, «convinti che in fondo / scrivere sia il più efficace rimedio / per illudersi di restare» (p. 91), insieme al recupero memoriale di un passato che lentamente scivola nella dimenticanza trascinando con sé il tempo e il poeta stesso. In quest’ottica la notte diventa il periodo riservato alla riflessione e all’azione, poiché capace di aprire nuove possibilità estendendo il tempo della vita autentica. L’autore è un attento osservatore della realtà circostante – lo sguardo e gli occhi sono altri elementi ricorrenti –, a partire dalla quale è capace di ricamare visioni che danno fondo ai suoi pensieri.

Considera che abitiamo la nostra
pagina con palpabile imbarazzo,
come dei reietti, come dei reclusi
senza vie di scampo, e tutto ciò
a cui non sappiamo dare un nome
ci sovrasta come l’erba grama.
Dopotutto i periodi in cui precipitiamo
sono incompiuti come le nostre
miserabili ambizioni. Sembriamo
animali selvatici vaganti per le strade
in cerca di un rifugio per morire. (p. 130)

Caratteristico di Chiereghin è lo stile volutamente piano – anche se mai dimesso; e comunque «Non sai cosa ha passato il poeta / per giungere a quella semplicità» (p. 148) –, estraneo a giochi intellettuali o stilistici (fatta eccezione per alcune costruzioni con rime o schemi metrici regolari, mai comunque banalizzate). Non ha paura di usare con frequenza paragoni e termini di comparazione espliciti («Come queste nuvole erranti / non hanno fissa dimora i miei affanni», p. 15) che non temono accuse di faciloneria. Che parta da uno spunto narrativo, riflessivo o descrittivo, la sintassi del dettato impiega le armi della logica per esporre il proprio pensiero, che di rado resta enigmatico.

La voce poetante si esprime prevalentemente in prima persona, imperniando tutto il discorso attorno alla propria condizione esistenziale. A volte la prima persona diventa plurale, con riferimento a un soggetto comunitario (i poeti? l’umanità?) che vive le medesime situazioni. Altre volte compare un tu altrettanto universale a cui indirizza suggerimenti, indicazioni, consigli, confessioni, presagi: questa seconda persona può essere riferita effettivamente a un altro, altre volte pare invece inscenare un dialogo allo specchio con sé stesso. E anche i rari casi in cui compare una terza persona o adotta degli infiniti riferiti a nessuno in particolare sembra essere sempre lui a osservarsi da fuori.

Ancorarsi a una sventura come
se fosse un talismano, un viatico
per aprirsi la strada, un sostegno
ineluttabile. Poi lasciarsi cadere
nel punto esatto in cui si sfiorano
gli opposti, il riso e il pianto,
uscire dal seminato ancora e ancora. (p. 59)

Nel descrivere la propria condizione interiore, anche attraverso il confronto con l’altro, la postura della dizione poetica favorisce in definitiva l’assimilazione della propria vicenda personale a un’esperienza universale: ne sono spia i toni che da disperati e quasi arresi per la «mancanza / di prospettive che reprime / ogni mio slancio» (p. 87) passano ad essere sapienziali («Non è ciò che non hai potuto avere / a tenere avvinti i tuoi pensieri / ma la quieta nostalgia che te ne rimane», p. 51).

Con Animali selvatici vaganti la sostanza del soggetto poetico che Chiereghin è venuto costruendo attraverso le sue raccolte non muta; e queste, accostate l’una alle altre, formano una narrazione coerente, seppure ognuna declini gli stessi temi e pensieri secondo focus e modalità proprie, che restano circoscritte al singolo libro. L’obiettivo, se obiettivo si vuole trovare a questa poesia, risponde al proposito di continuare a «Esserci ancora / nell’assenza che ci abita», nonostante e contro l’assenza:

Sempre al fianco del nulla che incombe
baluginando piano, di straforo,
sul tuo volto senza espressione
ti chiedi quale orma lasciare
sulla terra, a quale solco
affidarsi per sfuggire alle leggi
dell’oblio. Vivere quest’ora
fugace senza rimpianti
e – se ti riesce – fermarla sulla
pagina vuota. Esserci ancora
nell’assenza che ci abita. (p. 138)

Quella di Giampiero Neri, che ci ha lasciati prima di vedere conclusa questa raccolta, è solo una delle assenze che abitano sottotraccia Animali selvatici vaganti. Ribaltando la prospettiva, Chiereghin abita questa e tante altre assenze riempiendo i vuoti e le mancanze con la propria poesia.

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Citizen Kane, Orson Welles

“Divieto d’accesso”. Appunti su Citizen Kane di Orson Welles

Nel buio – Un film, un poeta. Nel buio uterino e amniotico del cinema, la luce del film e lo sguardo di un poeta. Abbiamo chiesto a poete e poeti di parlare di cinema, ma a partire da un film, una sequenza, un fotogramma. Nella consapevolezza di quanto profondo e fertile sia il legame tra le arti e gli artisti e di quanto invece possa diventare miope e asfittica una “comunità” poetica chiusa in se stessa, in mente abbiamo un archivio. Un archivio grazie al quale avvicinarsi a un regista attraverso la voce di un poeta amato oppure, attraverso il cinema, immergersi e stupirsi dentro la voce di un poeta.

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De Pisis, Fireze, Dante, Franco Buffoni, MediumPoesia

Franco Buffoni | Dante e i suoi maestri (da “Maestri e amici. Da Dante a Seamus Heaney” – 2020, Vydia editore)

In questo articolo Franco Buffoni ci parla del rapporto di Dante con i suoi “maestri”, Brunetto Latini e Virgilio, soffermandosi sul canto XV dell’Inferno e sulla sodomia, provando a rovesciare alcuni aspetti dati spesso per scontati. Il contenuto che qui leggerete apre la raccolta di saggi brevi “Maestri e amici. Da Dante a Seamus Heaney” (2020, Vydia editore), strutturato nelle 3 sezioni: Sulle spalle dei giganti, Il Novecento, Tra due secoli.

Come esplicita l’autore stesso nella premessa, in questo volume non troveremo approfondimenti sugli autori di cui Buffoni si è occupato maggiormente durante la carriera accademica e saggistica, ovvero gli scozzesi del Sei-Settecento Ramsay e Fergusson, gli inglesi romantici Byron e Shelley e altri autori a lui cari come Wilde a Auden. Come fa intuire il sottotitolo, Buffoni si è mosso incrociando due tradizioni principali, quella letteraria inglese e quella italiana, lungo un periodo che si estende dagli esordi delle letterature europee fino al contemporaneo. (F. Ottonello)

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