Oggi esce il nuovo Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea a cura di Franco Buffoni, il XVI, com’è tradizione – dal VI Quaderno del 1998 – per Marcos y Marcos, mentre i primi cinque Quaderni (1991-1996) uscirono per Guerini e Associati (I-IV), e Crocetti (V).
Non solo un libro – dal peculiare genere ibrido che definirei ‘antologia critica di raccolte poetiche individuali’ (sette) – ma un vero e proprio evento (amato, odiato, sicuramente discusso) nel microcosmo della poesia italiana, se come scrive Davide Castiglione «i Quaderni rimangono quanto più di vicino abbiamo – per il prestigio dell’iniziativa, la sua centralità culturale e la durata nel tempo – alla formazione quantomeno potenziale di un canone»[1].
Difatti nei primi otto quaderni, dal 1991 al 2004, si trovano voci poetiche oggi ampiamente riconosciute e in alcuni casi piuttosto imitate dalle nuove generazioni: come Guido Mazzoni e Stefano Dal Bianco, Antonio Riccardi e Rosaria Lo Russo, passando per Claudio Damiani e Maria Luisa Vezzali, Gian Mario Villalta ed Elisa Biagini. Risultano inclusi anche poeti-narratori come Aldo Nove, Emanuele Trevi e Flavio Santi (all’esordio come ‘dialettale’ in friulano), poeti a vocazione lirica, talvolta classicheggiante, come Alessandro Fo, Roberto Deidier, Paolo Febbraro, Gabriel del Sarto; e parimenti vi sono poeti votati alla sperimentazione formale come Andrea Raos, Andrea Inglese e Dome Bulfaro. Meriterebbe uno studio a sé soltanto la prima stagione dei Quaderni, che si chiude a mio avviso, con i primi due volumi degli anni Zero, che includono: Dome Bulfaro, Stelvio Di Spigno, Gabriela Fantato, Pierre Lepori, Massimiliano Palmese, Stefano Raimondi, Andrea Temporelli (VII, 2001); Fabrizio Bajec, Vanni Bianconi, Nicola Bultrini, Andrea De Alberti, Tommaso Lisa, Annalisa Manstretta, Luigi Socci (VIII, 2004):
Quella che individuerei come ‘seconda stagione’ dell’esperienza dei Quaderni si apre presentando un netto divario tra le istanze avanguardistiche (o postliriche, dette anche ‘di ricerca’) e liriche (o neoliriche, talvolta ‘neo-orfiche’). Risulta esemplare la rosa dei nomi del IX Quaderno (2007): accanto ai due autori del dirompente Prosa in prosa (2009, II ed. 2020), Alessandro Broggi e Marco Giovenale, si registra la presenza degli ‘stregati’ Maria Grazia Calandrone e Mario Desiati, e poi dei ‘lirici’ Massimo Gezzi, Giovanni Turra e Luciano Neri. Una polarità confermata, seppure in modo meno sfumato, dalla scelta dei nomi del X Quaderno (2010): Gilda Policastro, Laura Pugno, Italo Testa, e Corrado Benigni, Andrea Breda Minello, Francesca Matteoni, Luigi Nacci.
Indicative al riguardo sono le parole di Matteo Fantuzzi che, in una relazione al “XXIV Congresso ADI 2021”[2], ha specificato come «l’impianto di dialogo generato da Franco Buffoni, anche tra realtà geograficamente e concettualmente distanti, tra identità differenti, crei una sorta di clima complessivo, una idea di possibilità collettiva di fronte ad un impegno comune, all’interno di un mondo editoriale e sostanziale mutato rispetto agli anni della raboniana Guanda». Una realtà che Fantuzzi – riprendendo le immagini e i concetti di «sogno di arcipelaghi» e «isola aperta» (presenti nei miei lavori Isola aperta, Interno Poesia 2020, e Futuro Remoto, “XV Quaderno”, 2021) – definisce una «possibilità di intreccio di mondi e isole difficilmente dialoganti tra loro», «un’isola aperta e una infinità di ponti da attraversare per raggiungere ulteriori isole».
Ma queste isole – potremmo chiederci – sono davvero entrate in dialogo, a livello testuale, nella poesia delle più recenti generazioni?
“La poesia di ricerca nell’orizzonte contemporaneo non è ancora effettivamente partita o almeno pienamente penetrata?”. Questa la domanda che Gilda Policastro, inclusa a sua volta come poeta nel X Quaderno (2010), rivolgeva agli ‘inquadernati’ del XIII Quaderno (2017): Agostino Cornali, Claudia Crocco, Antonio Lanza, Franca Mancinelli, Daniele Orso, Stefano Pini, Jacopo Ramonda. Pur cogliendo gli esiti maturi dei poeti di quel Quaderno, nella sua recensione, Policastro lamentava un «orizzonte» che restava alla base «interamente lirico» (nonostante siano espliciti i debiti di Ramonda verso la ‘prosa in prosa’)[3].
Proprio Claudia Crocco, nella recensione su «Semicerchio» al XV Quaderno, osservava come risulti alquanto diversificato lo stile e il soggetto enunciativo delle sette sillogi: «Meloni, Franceschetti e Del Sarto sono fedeli a una lirica più tradizionale, ma quella di Del Sarto è anche una forma di parodia, mentre i testi di Franceschetti (il più deangelisiano […]) sono più filosofici. Nelle poesie di Bertini e di Sermini, in modi diversi, è presente una riflessione sul piano morale, mentre Ottonello sembra credere più degli altri nell’oltranzismo formale (e linguistico) come principio di poetica. Le poesie e le prose di Burratti, invece, sono quelle più sperimentali dal punto di vista del soggetto dei testi»[4].
Un altro punto a mio avviso centrale da approfondire in sede critica sarebbe quello legato al tema dell’identità, al rapporto tra le istanze di poesia engagé e lato sensu erotica, alle configurazioni della relazione io-mondo nei testi poetici degli ultimi decenni. Niccolò Scaffai su “Allegoria”[5], a proposito dell’XI Quaderno (2012) che apriva gli anni Dieci, osservava che al centro delle poesie degli ‘inquadernati’ – Yari Bernasconi, Azzurra D’Agostino, Fabio Donalisio, Vincenzo Frungillo, Eleonora Pinzuti, Marco Simonelli, Mariagiorgia Ulbar – vi era «la ricerca di un rapporto tra il soggetto e la realtà (la storia, le esistenze), che le sospinge verso una soglia etica». E anche Maria Grazia Calandrone sul “Manifesto”[6] parlava di responsabilità della poesia, riscontrando una certa «presa in carico di una coralità umana, subumana, superumana o parzialmente umana».
Dalle letture condotte in anteprima sull’ultimo Quaderno (oltre che su diverse sillogi uscite in questi anni), mi sembrerebbe plausibile pensare che, passato un decennio, i poeti Millennials tendenzialmente siano decisamente interessati a esplorare tematiche, direzioni, strategie stilistiche, soluzioni formali connesse al tema della ‘dis-identità’ tra soggetto e realtà, all’impossibilità dell’impegno unidirezionale verso un obiettivo prestabilito.
L’intento non è scovare o costruire un luogo possibile nel mondo attraverso la poesia, semmai dare forma all’impossibilità di riconoscersi in qualcosa di fisso e definito. Il poeta della generazione-arcipelago non si pone forse nemmeno più il problema di potere agire in modo attivo e propositivo nel mondo per modificarlo. Forse la possibilità della nuova poesia sta nella forza queer della ‘disidentificazione’, più che nella ricerca dell’individualità dello stile e della deindividuazione del soggetto tardo-novecenteschi, di cui parlano rispettivamente nei loro saggi i poeti-critici Maria Borio (Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000, Marsilio 2020) e Riccardo Socci (Modi di deindividuazione. Il soggetto nella lirica italiana di fine Novecento, Mimesis 2022). La poesia ipercontemporanea può forse sondare nuove possibilità di esistere in un nuovo paradigma di ‘transmodernità’ (vd. infra): l’esistenza nel bilico dell’irrealtà, la vita nella virtualità che invade la realtà, la guerra a pezzetti che si riproduce (anche e non solo) nei cervelli iper-notificati.
Buffoni parla infatti di «Poete e poeti [che] non si fanno più alcuna illusione circa la possibilità di incidere sulla realtà del mondo in cui viviamo, ma che questa realtà non possono fare a meno di fotografare e di trasmettere filtrata attraverso la mediazione artistica»[7]. E ricordando la recente indagine di Roberto Cescon sul ‘Nuovo Sentire’[8], si può sottolineare un «intenso riferirsi alla dimensione biologica e neurocognitiva» nella poesia dei più giovani.
D’altronde, già nel XV Quaderno, al di là del mio Futuro remoto – definito «a dominante distopica» con una «spazialità sfuggente, “rizomatica”, che allude a una temporalità molteplice» dal prefatore Paolo Giovannetti – un forte senso di impossibilità e disincanto permeava le sillogi dei miei ‘colleghi’. In modo palese nel nichilismo trionfante e beffardo di Simone Burratti e nella tragicità prosciugata e suicida di Emanuele Franceschetti. In modo più sfumato nel sentimentalismo sonante e sfiduciato di Linda Del Sarto, e nella lingua glottologica dell’oblio di Sara Sermini, fino a un’impossibilità, meno di sostanza, nel respiro oltremontano di Meloni e nella sagacia tragicomica di Dario Bertini.
E non mancavano certamente scritture di ‘allarme’ nei precedenti Quaderni: penso in particolare alle interessanti scritture di soglia di Maria Borio con le sue ‘trasparenze’ (XII Q.) e di Carmen Gallo tesa tra ‘fughe’ e spazi chiusi (XIV Q.), ma anche alla classicità allarmata di Marco Corsi (XII), o alle deformazioni apprensive di Andrea Donaera (XIV). Ulteriori sondaggi potrebbero essere fatti sugli altri ‘inquadernati’ del XII (oltre a Borio e Corsi), ovvero Maddalena Bergamin, Lorenzo Carlucci, Diego Conticello, Alessandro De Santis, Samir Galal Mohamed, e sui poeti del più recente XIV che (oltre a Gallo e Donaera) include Pietro Cardelli, Raimondo Iemma, Maddalena Lotter, Paolo Steffan, Giovanna Cristina Vivinetto.
Nella selezione da parte del comitato per il XVI Quaderno mi sembra però che venga rimarcata con più nettezza una direzione – già presente seppur meno esplicitamente nei precedenti Quaderni della ‘seconda stagione’ – ovvero quella che definirei ‘transmoderna’.
Personalmente mi pare sia infatti da superare una volta per tutte il paradigma di postmodernità. Forse valeva maggiormente per una generazione di critici e poeti cresciuti a finte rivoluzioni, a reale berlusconismo, in un immaginifico postmoderno. A me non pare di essere in nessun ‘dopo qualcosa’. Siamo in una fase, invece, di transizione fondamentale, e da poeti è fondamentale comprenderlo: un momento di soglia e passaggio dal meccanico al digitale, dal reale al virtuale, dall’unica via nettamente stabilita (straight) all’indefinibilità delle possibilità (queerness, anche della Fisica come ha osservato Karen Barad). Transmodernità come fluidità tra possibilità e impossibilità stesse, divenendo l’impossibilità e l’indeterminatezza lo statuto del possibile. Sia che questo passaggio lo si interpreti in senso apocalittico sia in senso entusiastico, non lo si può, non lo si dovrebbe, negare. Per essere poeti in questo nuovo paradigma è forse necessario entrare nel transito, e approdare a quel ‘Terzo Paesaggio’ (nozione di Gilles Clément) che per Laura Pugno[9] si addice al genere poetico.
Ho rielaborato il concetto di ‘Transmodernità’ in rapporto alla poesia a partire dai saggi della filosofa Rosa María Rodríguez Magda (vd. Transmodernidad, 2004; cfr. Enrique Dussel, Postmodernità e transmodernità) in un contributo di prossima uscita per “Labirinti”[10] dell’Università di Trento (n. 196, 2023) e nella mia recente monografia[11] sull’opera di Franco Buffoni (Multimedia, 2022), poeta egli stesso entrato in un pieno orizzonte di transmodernità con la silloge Betelgeuse e altre poesie scientifiche. Con Transmodernità in poesia si intende:
un superamento di alcune rigide dicotomie: avanguardia (scritture di ricerca) – retroguardia (lirica), Io maschile – Io femminile, centro – periferia (Imperi – Colonie). Di conseguenza il modo di concepire e vedere il mondo non parte più necessariamente (soltanto) da una prospettiva normativa, maschile e patriarcale, limitatamente eurocentrica, o – nel caso della poesia italiana – italocentrica, ma da diversi punti sincretici, non gerarchici, collegati tra loro come in un arcipelago. Transmodernità anche come superamento della crisi postmoderna, di una società non più meramente frammentata e consumista, in cui all’edonismo e al disimpegno ludico si sostituisce una postura responsabile e responsiva, pur se improntata al disincanto e a un senso di impossibilità. In un paradigma di transmodernità rientrano più facilmente i concetti di rizoma, tecnologia, globo, con una prospettiva relativistica ma totalizzante, che non solo accetta la differenza ma la ritiene una parte fondamentale per comprendere il tutto con un valore ‘transinclusivo’. Se il concetto di modernità giunse all’apogeo con le avanguardie del primo dopoguerra, stabilendo chi fosse egemonico, il transmoderno interpreta la necessità del tutto in tutte le prospettive. La transmodernità può essere dunque vista come una sintesi tra modernità e postmodernità. Si parla di ‘simultaneità’, di cyberspazio, di glocal – e volendo anche di metaverso – con una coesistenza degli elementi del reale e del simulacro (virtuale). Quella che era la coscienza dell’individuo postmoderno all’interno di questo paradigma si fa social: un individuo nuovo nel mondo delle reti. Se lo spirito diventava corpo nella postmodernità, diviene ibrido, cyborg o proiezione virtuale nella transmodernità. Se il protagonista era per lo più maschile ed eterocentrico all’interno di un paradigma postmoderno, nella transmodernità trovano rappresentazione sia soggetti femminili autodeterminati sia soggetti divergenti, queer. L’oralità che entrava nella scrittura nel postmoderno ora diviene schermo. Il concetto di Transmodernidad col suo prefisso latino trans è dunque in grado di connotare l’emergente cambiamento socioculturale, economico, climatico, politico-filosofico di fine Novecento e primi anni Duemila ben oltre la postmodernità, potendosi leggere in relazione ai concetti di ‘modernità liquida’ di Bauman e di ‘deserto del reale’ di Žižek. Una nozione che risulta più ampia e radicale rispetto a quella di postmodernità, avendo una relazione strutturale non solo con la globalizzazione, ma con l’informatizzazione e la conseguente esigenza di rinnovamento.
Penso che una lettura attenta di questo Quaderno XVI (ma anche del XV e parzialmente dei precedenti Quaderni) possa rimarcare come sia finita l’epoca del ‘dopo la lirica’ (sulla scorta di Enrico Testa), del ‘postremo’ (per dirla con Andrea Afribo), o della ‘ultima poesia’ (seguendo la già citata Policastro). O meglio penso che possa far capire come non sia mai iniziata. È arrogante da parte nostra ritenere di essere arrivati al capolinea, si è solo davanti all’ennesimo precipizio della storia, che forse un tempo sapremo non essere mai esistito.
La poesia è il tempo unito della diversione e della conversione, e a maggior ragione in un paradigma di transmodernità non c’è ordo (prima o dopo in linea retta), solo simul (la simultaneità delle tradizioni). In conclusione, con le voci raccolte da parte di Franco Buffoni e il comitato dei Quaderni – di Michele Bordoni, Marilina Ciaco, Alessandra Corbetta, Dimitri Milleri, Stefano Modeo, Noemi Nagy, Antonio Francesco Perozzi – si entra a mio avviso nel pieno della ‘Transmodernità’.
Diversi poeti del XVI lo fanno in modo esplicito e problematizzante, con uno schiacciamento verso la stretta contemporaneità e un uso massiccio di linguaggio scientifico e tecnologico: Perozzi in bottom text mediante una sintesi versificatoria brillante e sarcasmo acuto, mentre Milleri con Nel pieno di nor e Ciaco con Gli anni del disincanto attraverso un ricercato impianto intellettuale e la giustapposizione fluida di versi e prosa. Invece Bordoni preferisce uno stile versificatorio mediato dalla classicità, da molteplici tradizioni storico-letterarie, e da disparati inserti linguistici, dal vietnamita al sardo, con Il duca di Sullun (un Nullus capovolto alter ego del nor di Milleri?). Vi sono dei segnali notevoli di ‘transmodernità’ anche in opere cosi antitetiche come quella empatica, tesa alla responsabilità collettiva, rivolta al ‘ritorno alla partenza’ di Modeo (Partire da qui); e quella chirurgica e improntata alla dissezione, anzitutto anatomica, di Nagy (L’osso del collo); e persino sottotraccia nel lirismo fiabesco del poemetto Sempreverde di Corbetta, con protagoniste le voci delle bambine (quest’ultima da saggista si occupa di Media Studies ed è l’unica tra gli ‘inquadernati’ nata poco prima degli anni Novanta). In sintesi, ogni poeta della generazione-arcipelago nota come Millennials mostra un’urgenza di esplorare (o perlomeno non ‘riesce’ a escludere del tutto), ognuno con la sua scrittura ben distinta, l’orizzonte che in Futuro remoto ho chiamato ‘transumano’.
Certamente rimane da vagliare la tenuta dei singoli esiti degli ‘inquadernati’ e attendere i loro eventuali percorsi futuri. E sarà da osservare, criticamente, se oltre alla spinta verso il ‘Futuro’ vi sia nelle scritture un legame profondo con il ‘Remoto’. Una poesia che non sia solo calcolo intellettuale, slancio sul precipizio, esibizione di cultura, ma un attraversamento responsivo dei multiversi delle tradizioni in convergenza, possibile – come direbbe Buffoni – solo con una ‘poetica’ autentica, ovvero che regga, alle sfide dello spaziotempo.
Francesco Ottonello
Link dei contributi citati
[1] https://www.labalenabianca.com/2019/05/07/xiv-quaderno-di-poesia-italiana-il-setaccio-dei-poeti/.
[2] https://www.francobuffoni.it/files/pdf/fantuzzi_adi.pdf
[3] http://www.francobuffoni.it/files/pdf/gilda_su_quaderno.pdf
[4] https://www.francobuffoni.it/files/pdf/semicerchio_c_crocco_xv_quaderno.pdf
[5] https://www.francobuffoni.it/files/pdf/xiq_n_scaffai_allegoria.pdf
[6] https://www.francobuffoni.it/files/pdf/calandrone.pdf
[7] https://www.glistatigenerali.com/letteratura/i-quaderni-e-la-poesia-intervista-a-franco-buffoni/
[8] https://www.pordenoneleggepoesia.it/nuovo-sentire/
[9] https://www.leparoleelecose.it/?p=35317