GAIO VALERIO CATULLO
Al liceo, durante il passaggio dal biennio al triennio, chiesi alla prof. di Latino, Renata D’Orazio, donna laica, anticlericale, femminista e comunista, una serie di libri da affrontare per le vacanze e che esulassero da quelli obbligatori. Il nome che mi fece fu quello di Catullo. E fu amore a prima vista tanto che anni dopo decisi di inserirlo tra i tre autori da tradurre per la parte generale di Letteratura Latina (gli altri due furono Virgilio e Seneca). Per quell’esame con Mario Geymonat tradussi tutte le poesie dedicate a Giovenzio, ma qui riporto solamente una variazione, per la precisione dal Carmen IC. Un testo che, come altri, può essere considerato autonomo e indipendente, ma che dal componimento di partenza presenta la stessa tensione, lo stesso respiro.
Carmen IC
Surripui tibi, dum ludis, mellite Iuventi,
Suaviolum dulci dulcius ambrosia.
Verum id non impune tuli: namque amplius horam
Suffixum in summa me memini esse cruce,
Dum tibi me purgo nec possum fletibus ullis
Tantillum vestrae demere saevitiae.
Nam simul id factum est, multis diluta labella
Guttis abstersisti omnibus articulis,
Nei quicquam nostro contractam ex ore maneret,
Tamquam commictae spurca saliva lupae.
Praeterea infesto miserum me tradere amori
Non cessasti omnique excruciare modo,
Ut mi ex ambrosia mutatum iam foret illud
Suaviolum tristi tristius elleboro.
Quam quoniam poenam misero proponis amori,
Numquam iam posthac basia surripiam.
Mi hai rubato una promessa, nella ludica incoscienza
Del fiore invernale, il tuo odore chiaro come il tuo nome
Ingannevole aspro come il corniolo prematuro.
Mi sono bruciato per troppa esposizione. Per mesi mi
Hai sedotto e reso scherno della notte a sognare
Le tue mani a sfiorarmi per crudeltà tra i corridoi non visti
Dalle tue compagne. Quando mi avvicinavo a te, mi rifuggivi
Come la artemisia mi denigravi mentre
Io attendevo solo un tuo cenno per poterti baciare. Tu,
Per gioco, mi allontanavi per riprendermi e portarmi
Lì dove la paura del desiderio veniva resa vana dal respiro
Transitorio dei nostri corpi.
E ancora voglio, ancora vorrei, che tu allentassi
Le maglie delle tue inibizioni: apriti come il biancospino
Che in primavera si veste per accogliere
Spiriti e creature silvane. Sarà il nostro segreto.
WILLIAM SHAKESPEARE
Il mio amore per il Bardo mi portò a chiamare la tartaruga d’acqua, che avevamo in casa, Lady Macbeth. A quindici anni incontri del genere portano a vere e proprie folgorazioni. Alla figura della regina ho dedicato un soliloquio nel mio primo libro di poesie, come tanti altri rimandi sono presenti in numerosi testi. Ai sonetti arrivai, sempre durante l’adolescenza, tramite le traduzioni di una poeta, troppo poco considerata e studiata, Rina Sara Virgillito. E poi vi sono state le versioni di Montale e Ungaretti (che preferivo fra i due) fino agli studi sulla traduzione di Franco Buffoni, di gran lunga la più bella per resa e respiro. Impressa mi è rimasta una sua importante e bellissima lezione, al Dipartimento di Lingue a Venezia, sulla traduttologia a partire dal Sonetto 33. La variazione, che propongo, si rifà proprio al celeberrimo testo ed è un’ipertraduzione, un duplice omaggio visto che ho traslato il veneziano adottato da Isabella Panfido, (si legga il suo prezioso Shakespeare alla veneziana, Santi Quaranta, 2012)
Sonnet 33
Full many a glorious morning have I seen,
Flatter the mountain-tops with sovereign eye,
Kissing with golden face the meadows green;
Gilding pale streams with heavenly alchimy:
Anon permit the basest clouds to ride,
With ugly rack on his celestial face,
And from the forlorn world his visage hide
Stealing unseen to west with this disgrace:
Even so my Sun one early morn did shine,
With all triumphant splendour on my brow,
But out alack, he was but one hour mine,
The region cloud hath maskd him from me now
Yet him for this, my love no whit disdaineth,
Suns of the world may stain, when heavens sun staineth.
*
Versione di Isabella Panfido
Gò visto a volte el splendor del zorno
carezzar co ’l so alto sguardo le creste,
basar co ’l oro de la fronte i verdi pra’ intorno,
indorar i biavi rii de alchimia celeste
e po’ ai nuovi pi’ bassi passar de boto
coverzar de torbio la so divina ciera
par scondar quela al mondo derelito,
scampando zo a ponente senza maniera.
Cussì gà slusegà el me sol un dì
co tuto el so splendor su la me fronte;
ma, oe, nome che un’ora lo gò vu’ par mi,
un alto nuvolo de boto me lo tol darente.
Ma non sarà che el mio amor lu lo denega;
che i soli tereni se onfega, se fin el sol celeste se onfega.
*
Lo splendore del giorno
Ho visto talvolta lo splendore del giorno
Accarezzare con il suo alto sguardo le vette
Baciare con l’oro della fronte i verdi prati tutt’intorno
Indorare d’alchimia celeste i chiari azzurri rii
E poi alle infime nubi permettere tosto
Di coprire oscuramente il suo divino colorito
Per celarlo al mondo prostrato, svilito,
Scappando verso ponente senza modo alcuno.
Così ha emanato tutto il suo splendore
Un giorno il mio sole in piena fronte;
Ma, oh, l’ho avuto tutto per me per un’ora sola
Una nube alta tosto me lo sottrae dagli occhi
Ma non accadrà che possa dinegare il mio amore:
Ché i soli terreni s’insudiciano, se perfino il sole celeste si insudicia.
EMILY BRONTE
Avevo già letto Cime Tempestose, tutto d’un fiato, una domenica intera d’inverno, a vent’anni, collocando il romanzo tra le opere da capezzale, ma non avevo approfondito ancora l’universo poetico di Emily almeno fino alla lettura, all’immersione in uno dei più belli e fondamentali libri di Antonella Anedda. Devo a lei, e ai suoi Nomi distanti, l’incontro con la lirica e con l’esperienza letteraria e umana della più dotata tra le sorelle Brontë. Tra i componimenti che Antonella inserisce nel suo libro, uscito per Empirìa nel 1998, c’è anche quello su cui ho variato. Per questo, almeno negli intenti, risulta essere un doppio omaggio a due donne splendide, a due mondi e a due sensibilità senza pari.
I’ll come when thou art saddest,
Laid alone in the darkened room;
When the mad day’s mirth has vanished,
And the smile of joy is banished
From evening’s chilly gloom.
I’ll come when the heart’s real feeling
Has entire, unbiassed sway,
And my influence o’er thee stealing,
Grief deepening, joy congealing,
Shall bear thy soul away.
Listen, ’tis just the hour,
The awful time for thee;
Dost thou not feel upon thy soul
A flood of strange sensations roll,
Forerunners of a sterner power,
Heralds of me?
*
Giungerò a lambire l’orlo dei tuoi giorni infelici
A lato dell’ombra che si propaga sino alla tua
camera
Mentre la luce dissennata ha vanificato la promessa
Dei Corpi e il sorriso della gioia è stato ripudiato
Dalla gelida oscurità della sera estiva
Giungerò quando l’essenza del tuo respiro
Sarà Signora e Veggente del tuo desiderio
E la mia anima si estenderà intera sulle tue membra
Ché non potrai più diffondere il piacere
Del dolore, sarai vinto dalla tua anima.
Ti arrenderai alla pulsione primigenia dell’animale
Lo senti? È giunto il momento
Verrò a te, verrò a colmare la distanza
A sgretolare i tuoi torrioni
Le infime alabarde della tua finzione
Verrò come l’urto inatteso a schiantare
Con la verità delle mani la tua resistenza
Alla semplicità disarmante dello sguardo
Non puoi più opporti al dominio delle emozioni
Alla tua natura, Araldo del suono profondo e inarrestabile.
Mi senti?
CHARLES BAUDELAIRE
Il padre della modernità è stato tradotto tanto, se non tantissimo, e integralmente, da poeti come Bertolucci (la versione che più amo), Caproni, Raboni, Prete, Ortesta e da un grande scrittore come Bufalino, per questo non mi azzardo ad avvicinarmi alla traduzione di un mostro sacro alla pari di Hugo. Quando lo insegno e parlo agli allievi di Quinta della sua contemporaneità, sottolineo la forza di penetrare la realtà attraverso lo sguardo ossimorico e misterico, che più si apparenta all’universo animale che umano. Quello che segue è nuovamente una variazione, in punta di piedi, e un omaggio al mondo felino, a questi lari della nostra esistenza, alla loro santità, e anche alla persona amata. So che la mia operazione può sembrare follia, ma credo che Baudelaire mi perdonerà, se ho osato fondere i due movimenti della poesia Le chat e se all’interno ho innestato elementi del tutto originali.
Le chat
I
Dans ma cervelle se promène
Ainsi qu’en son appartement,
Un beau chat, fort, doux et charmant.
Quand il miaule, on l’entend à peine,
Tant son timbre est tendre et discret ;
Mais que sa voix s’apaise ou gronde,
Elle est toujours riche et profonde.
C’est là son charme et son secret.
Cette voix, qui perle et qui filtre
Dans mon fonds le plus ténébreux,
Me remplit comme un vers nombreux
Et me réjouit comme un philtre.
Elle endort les plus cruels maux
Et contient toutes les extases ;
Pour dire les plus longues phrases,
Elle n’a pas besoin de mots.
Non, il n’est pas d’archet qui morde
Sur mon coeur, parfait instrument,
Et fasse plus royalement
Chanter sa plus vibrante corde,
Que ta voix, chat mystérieux,
Chat séraphique, chat étrange,
En qui tout est, comme en un ange,
Aussi subtil qu’harmonieux !
II
De sa fourrure blonde et brune
Sort un parfum si doux, qu’un soir
J’en fus embaumé, pour l’avoir
Caressée une fois, rien qu’une.
C’est l’esprit familier du lieu ;
Il juge, il préside, il inspire
Toutes choses dans son empire ;
Peut-être est-il fée, est-il dieu ?
Quand mes yeux, vers ce chat que j’aime
Tirés comme par un aimant
Se retournent docilement
Et que je regarde en moi-même
Je vois avec étonnement
Le feu de ses prunelles pâles,
Clairs fanaux, vivantes opales,
Qui me contemplent fixement.
*
Il gatto
Nella mia mente passeggia e dimora
Come fosse nelle sue stanze
Un gatto sinuoso, chiaro, seducente nella sua
Bellezza
Quando emette il suo languido miagolio,
A fatica mi sforzo di rimanerne lontano.
Come calamita
La sua voce sia essa tenera e riservata
Incazzata, per una carezza sfuggita, o vellutata
Rimane impenetrabile nel suo segreto
Nel suo sogno d’essere ambiguo
Questa voce che imperla il giorno
S’inoltra nelle mie tenebre più fonde
E mi riempie come un verso colmo
Nell’estasi del filtro amoroso.
Assopisce la crudeltà di ogni male
Racchiude ogni piacere:
Per esprimere il più vasto dei desideri
Non emette parola alcuna.
Non si trova archetto – strumento di
Perfezione maschile – che morda
Il mio cuore e renda l’armonia assoluta
Sulla sua più vibrante e poderosa corda
Più che la tua voce, gatto dell’arcano
Serafico e strano
Tu che sei il mio angelo
Biondo e bruno come il tuo profumo
Sottile come lama e armonioso come sostanza.
Quando da innamorato mi getto dentro
Il tuo sguardo, pupille d’opale screziate
Mi sento irrimediabilmente perduto: vivo.
Prose e traduzioni di: Andrea Breda Minello