Dopo questo mese di accesi dibattiti e discussione alla Camera della proposta di legge sull’omobitransfobia con relatore Alessandro Zan, attesa in Italia da almeno 25 anni (la prima proposta a firma di Nichi Vendola risale al 1996), uscirà il nuovo libro in prosa di Franco Buffoni, dal titolo Silvia è un anagramma (Marcos y Marcos, 2020), che mi immagino e mi auguro possa accendere un dibattito, a lungo censurato, stroncato sul nascere in Italia.
Ormai è noto l’impegno teorico, critico e militante del poeta Franco Buffoni su temi inerenti al mondo LGBTQI+, a partire almeno dal suo manifesto ideologico Più luce padre. Dialogo su Dio, la guerra e l’omosessualità (Luca Sossella Editore, 2006), in cui veniva avanzata una critica radicale al sistema eteropatriarcale. Tuttavia, un primo nucleo di omorivendicazione consistente era presente già in uno dei libri più rilevanti per la critica a cavallo tra Novecento e Duemila, Il profilo del Rosa (2000): nello specifico mi riferisco alla sezione Naturam expellas furca (citazione oraziana, Epist.1.10.24).
In questi ultimi venti anni la produzione letteraria Buffoni ha spaziato da numerosi libri di poesia – tra cui quella che ho definito sull’ultimo numero di ACME la sua trilogia omorivendicativa, ovvero Noi e loro (2008), Jucci (2014), Avrei fatto la fine di Turing (2015) – alla narrativa, al teatro alla saggistica.
Non posso non menzionare almeno il più recente dei docufiction di Buffoni, Due pub, tre poeti e un desiderio, uscito per Marcos y Marcos l’anno scorso, incentrato sull’opera letteraria e le vicende biografiche di Byron, Wilde e Auden, che vanno a costituire un’unica figura in continuità tra le epoche, una grande persona sopranominata “BWA” (1788-1973): il poeta anglosassone, gay ante litteram, narcisista, uomo d’azione e di successo, che porta in sé un unspeakable vice. Intrecciando le tre vite, si dispiegava in quel libro anche il succedersi della storia sociale inglese, con un’attenzione particolare al diritto e alla filosofia – oltre che alla poesia dei tre autori – venendosi a delineare un percorso ideale, progressivo come lotta di liberazione: dalle impiccagioni e dalle gogne pubbliche, evitate con le fughe mediterranee ai tempi di Byron, passando per la prigione e i lavori forzati ai tempi di Wilde (recluso a Reading per via di una gross public indecency), fino al primo Novecento di Auden, che non vive il “tempo del peccato”, ma piuttosto quello della “patologizzazione” dell’omosessualità, facendo giusto in tempo ad assistere alla sua depenalizzazione in Inghilterra nel 1967, ai moti americani di liberazione sessuale e alla nascita del Gay Liberation Front (1969-1970).
Silvia è un anagramma è dunque a mio avviso un sequel ambientato in Italia del libro precedente, atto a rimettere in discussione la biografia di alcuni poeti centrali nel canone della poesia italiana, per rileggerne l’opera e attraversare anche la storia sociale e dei diritti in Italia, dall’Ottocento a oggi. Al di là del focus sulla nuova triade Leopardi-Pascoli-Montale, di cui si esplorano (finalmente) senza censure gli aspetti legati alla sessualità e all’omofobia interiorizzata, l’autore spazia su numerosi altri letterati, poeti e studiosi, antichi e contemporanei, nonché su personaggi storici celebri come Cavour, Mazzini, Mameli, Settembrini e altri meno noti, quali Niccolò Persichetti di Santa Mustìola, Gino Olivari e Emanuel Carnevali. Con coscienza e documentazioni storico-letterarie, grazie al talento del comparatista arguto e dotto, questa operazione di Buffoni evidenzia come, non esistendo un modello unico di orientamento sessuale da darsi a priori, a lungo perpetuato dalla “grigia neutra” accademia italiana, si possa accedere con nuovo sguardo alla storia della poesia e della letteratura italiana.
Questo coraggioso libro sarebbe da leggere e rileggere per intero per apprezzarne la perizia dell’articolazione macrotestuale e immergersi in una prosa che ha il dono di sintetizzare l’istanza narrativa e quella saggistica, dilettando e educando. Ne riportiamo a seguire l’indice e degli estratti da alcune delle cinque sezioni: la prima con funzione di prologo ideologico agli argomenti trattati, la seconda con focus su Leopardi e il primo Ottocento, la terza su Pascoli e il secondo Ottocento, la quarta su Montale e il primo Novecento, la quinta con funzione di epilogo, che offre ulteriori spunti su dinamiche e autori del secondo dopoguerra.
Francesco Ottonello
Indice
Variante naturale
In che peccai bambina?
Il fattore “O”
Neutro accademico eterosessuale
Persone e atti
L’anomalia italiana
Laicità
Definizioni e antologie
Genesi psichica inspiegabile
Retaggio abramitico
Il contino p 18
Quei fonemi
L’innamoramento
Le lettere di Giacomo a Ranieri
Le lettere di Giacomo e Monaldo
Contino Giacomo in biblioteca
Ciò che Leopardi scrisse sull’amore greco
Fanny donna schermo
Carducci su Aspasia e giovinetto
Più di quanto non si convenga a un uomo
O molto invocato
Le solite obiezioni
Ciò che stabilivano i codici
Chiacchiere sul figlio del conte Monaldo
Giovanissimo, bellissimo
Leopardi a Napoli
Evidenze testuali
Sdraiati accanto
Schiller Hofmannsthal Keats
Sanguineti Solmi Ceserani
Chi vuol comprendere e chi no
L’analogia con Schubert
Lettera a Leopardi
Fanciullina e Gobbo fottuto
Zvanì p 46
Padri della Patria – Cavour e il Contino
Padri della Patria – Mazzini e Mameli
Giuseppe e Goffredo
Padri della Patria – Luigi Settembrini
Le quattro fasi
Pippo non lo sa
Lo studente e l’ingegnere
I costumi delle popolazioni meridionali
L’azzurra visïon di San Marino
Karl-Heinrich Ulrichs
Dagli scritti di Ulrichs e Pascoli
Allodole
Piazza Ulrichs
Magnus Hirschfeld
Hirschfeld e il cinema
Mario Mieli e Hubert Kennedy
Allodole e legionari
Fidanzate e promesse spose
Gabriele e Giovanni collegiali
Giovanni Pascoli
La Dickinson italiana
Pascoli un grande
Le pastoie del ritmo
Giovannino e il brigante
D’Annunzio gay
Eusebio p 79
Montale-Kniaseff
Ignoranza e pregiudizi ministeriali
Codice Rocco
Montale su Gadda e Penna
Sandro Penna
Mentre Montale
La mannaia e le donne
Il volto di Marcello Mastroianni
Il fetido fiore
Montale anziano
Carlo Emilio Gadda
Saba Sereni
Libero De Libero
Montale nonostante
Gadda e Palazzeschi
Biografia sì o no?
Rebora e la parola senza bacio
Diego Valeri e Marino Moretti
Ungaretti Montale e il 33
Eliot contraltare di Montale
Biagio Marin su Montale e Pasolini
Sulla necessità di contrabbandarsi
Colpi di coda p 112
Lo stigma da Stefan Zweig a Piero Chiara
Emanuel Carnevali
Cesare Pavese
Pasolini e Byron
Totò Pasolini e De Mauro
Pasolini Olmi Gadda Tondelli
Enzo Siciliano e i ragazzi della Repubblica romana
Carlo Antonia Mario
Mario Mieli
Lo sciagurato rispose
Cantautrici e cantautori d’antan
Quadri e antologie
I colpi di coda della fase uno
Note bio
IL FATTORE “O”
Si tratta – semplicemente – di porre anche l’omosessualità nel novero delle opzioni, delle possibilità. Se gli americani hanno messo in gioco tale fattore per Melville e Thoreau, e gli inglesi per Tennyson e Swinburne, non si capisce perché noi italiani non dovremmo farlo per Leopardi e Pascoli.
Conosco bene le due obiezioni di fondo.
La prima: che prove hai?
Lo si chiederebbe supponendo eterosessuale un autore?
Certo che no! Perché quella è considerata la “norma”, non essendo ancora penetrata nel costume italiano la delibera dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 17 maggio 1990 che definisce l’omosessualità “una variante naturale della sessualità umana”.
Non a caso quel giorno è ufficialmente ricordato nei paesi civili* come “Giornata mondiale contro l’omofobia”.
Seconda obiezione: che cosa cambierebbe nella nostra comprensione dell’opera se si dimostrasse che l’autore era omosessuale?
Significa semplicemente non voler comprendere che – per un autore omosessuale in un contesto sociale omofobico, come quello del nostro Otto-Novecento – il fattore “O” non è una questione di gusto personale, ma la questione centrale della sua esistenza e quindi della sua opera.
Come ha scritto Goffredo Parise: “Ogni uomo, uno scrittore, un poeta, un artista è quello che è la sua sessualità”.
A mia volta domando: per quante generazioni ancora gli studenti italiani dovranno sorbirsi tesi assurde? Il figlio del conte Monaldo restò celibe perché era infelice nell’apparenza fisica? In un tempo in cui il matrimonio era considerato anzitutto un accordo economico tra famiglie?
Ecco così stagliarsi il Leopardi segreto, quello ancora non accettato dall’accademia italiana, il Leopardi omosessuale, esule a Napoli per amore, a mantenere Ranieri con il mensile che gli passa Monaldo. E a sfogarsi con gli scugnizzi in cambio di “avarissime mance”. Napoli era pur sempre la città che in tutta Europa, come ha scritto Arbasino, “suscitava l’ammicco e il sorriso del connaisseur quale sinonimo ed epitome di sessualità a buon mercato e bisessualità disponibile ad ogni angolo di strada”.
CARDUCCI SU ASPASIA E GIOVINETTO
Giosuè Carducci, il maestro di Giovanni Pascoli, in una pubblica conferenza diede conto di un’intricata vicenda che vide coinvolti da una parte Leopardi e Ranieri, dall’altra Fanny Targioni-Tozzetti e un suo giovane nipote. Disse Carducci: “Raccontavano a Firenze che Leopardi, quando più ardea dell’Aspasia, solesse affazzonare con uno scialle un giovinetto congiunto di lei che molto le somigliava e stesse contemplando a lungo quell’immascherato e dicendogli ciò che non osava all’Aspasia. No ‘l credo, e mi pare indegno”.
Dunque Carducci racconta che a Firenze si diceva che Leopardi, innamoratissimo dell’Aspasia, non potendo stringer lei tra le braccia, avvolgeva uno scialle sulle spalle del giovinetto che tanto le assomigliava, per goder dell’illusione di avere lei accanto. Carducci poi aggiunge di non credere all’aneddoto, però lo racconta in un contesto pubblico mentre compie un’analogia sul concetto della donna-schermo.
Sciocchezze, direte, scherzi goliardici, se non fosse che la storiaccia tra Ranieri e la Targioni-Tozzetti è vera e documentata, e che il ragazzino era spesso una sorta di go-between tra la nobildonna (sposata), Ranieri e contino Giacomo, che poi in pubblico “serviva” Aspasia per compiacere il Ranieri.
Quella malinconia mista a ironia, che è lo stilema di fondo della scrittura leopardiana, traspare anche da queste situazioni di vita vissuta, incomprensibili se non nell’ottica di Leopardi che ha perso la testa per Ranieri al punto da mimarne i sentimenti per l’Aspasia, e da essere da questi – Ranieri e Aspasia insieme – strumentalizzato per confondere le acque.
A Firenze Leopardi e Ranieri erano ancora nel loro periodo “giocoso”: quello in cui, magari sul piano scherzoso, Ranieri ogni tanto, quando aveva bevuto, lasciava un po’ fare al contino. E allora ci sta tutta che entrambi poi – il recanatese Giacomo e il napoletano Antonio, goliardi a Firenze – “scherzassero” anche con un giovinetto bellissimo, celiando sulla “loro” passione per zia Aspasia. Ganimede è sempre in agguato quando i sensi sono all’erta. E tutto può accadere.
Ciò che conta è l’intonazione del periodo: per la prima volta Leopardi è stabilmente fuori dallo Stato pontificio, lontano da Recanati, nella libera e disinvolta Firenze, e innamorato. Di Ranieri.
L’intonazione cambierà completamente nei quattro anni napoletani. L’innamoramento diventerà ossessione e Ranieri sarà sostanzialmente un mantenuto che nulla più concede a Giacomo sul piano fisico. Allora il giovinetto che a Firenze contino Giacomo immascherava prenderà la forma delle volgari anonime marchette con le quali contratterà avarissime mance.
LA DICKINSON ITALIANA
La biografia di Pascoli oggi potrebbe essere ammaestrante come quella di Verlaine, di Wilde, di Kavafis: poeti certamente a lui inferiori – pur se grandi anch’essi – ma biograficamente “risolti”. Pascoli, proprio perché i Gender Studies ancora non si sono imposti nell’accademia italiana, resta biograficamente irrisolto. L’analogia più convincente mi sembra con Emily Dickinson. La quale scrisse: “Che l’amore sia tutto, è ciò che sappiamo dell’amore”.
Proprio perché l’eros non venne “agito” nella vita di solitudine e di autoreclusione che Emily Dickinson condusse, un erotismo fecondo, un erotismo da Cantico dei cantici prorompe dai suoi versi, attanagliando il lettore attento, quasi stordendolo. “Prima di amare, non ho mai vissuto pienamente”, scrive ancora Dickinson. Secondo molti americanisti, Emily amò un certo professore, un reverendo col quale ebbe un intenso rapporto epistolare… Raro che si alluda a una fanciulla, che faceva parte della cerchia allargata della famiglia, segreto oggetto di palpiti amorosi…*
I versi di un vero poeta esprimono sempre un senso non del tutto razionalizzabile, che va oltre le intenzioni dell’autore. Questo con Pascoli e con Dickinson avviene al massimo grado. E se il “qualcosa da dire” urge, ma non può essere detto, il poeta può ricorrere al potenziale musicale che la sua lingua gli fornisce. Pascoli – che fu la vera Dickinson italiana – lo fa al massimo grado. E, come con Dickinson, anche con Pascoli basta leggermente scrostare l’accattivante dettato per individuare voragini di pensiero poetante, per provare vertigini, con il punto infinitamente più piccolo che diventa un mito, un universo senza confini, tanto prossimo da poterlo toccare. E, per contro, può accadere che ciò che ci sta accanto, l’oggetto consueto, persino la persona cara, vengano proiettati a enorme distanza, tanto da non poterli più vedere né sfiorare.
Per trovare un raffronto capace di descrivere quel rapporto particolare che Pascoli riuscì a stabilire con la lingua italiana, riesco solo a pensare a ciò che Emily Dickinson riuscì a costruire con l’inglese della Nuova Inghilterra a metà del secolo diciannovesimo. Altro che il “piccolo-grande poeta” stigmatizzato da Croce. Per altro ripagato con la stessa moneta da Pascoli, che replicò: “Porcheriole del filosofastro che voleva la cattedra di Carducci e ambiva a dirigere lo spirito italico nella qualità ufficiale di successore”.
Quanto a Pascoli come il poeta che mette in musica ciò che non può dire, tra i numerosi esempi possibili scelgo Ultimo sogno.
Da un immoto fragor di carrïaggi
ferrei, moventi verso l’infinito
tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi…
un silenzio improvviso. Ero guarito.
Era spirato il nembo del mio male
in un alito. Un muovere di ciglia;
e vidi la mia madre al capezzale:
io la guardava senza meraviglia.
Libero!… inerte sì, forse, quand’io
le mani al petto sciogliere volessi:
ma non volevo. Udivasi un fruscio
sottile, assiduo, quasi di cipressi;
quasi d’un fiume che cercasse il mare
inesistente, in un immenso piano:
io ne seguiva il vano sussurrare,
sempre lo stesso, sempre più lontano.
Indubbia la fascinazione di questo dettato poetico; quanto al “contenuto” non è il passaggio in cui appare la figura della madre («vidi la mia madre al capezzale») quello su cui vorrei soffermarmi. Ma tre versi più sopra, laddove il poeta scrive: «Ero guarito». Guarito da che cosa? E aggiunge: «Era spirato il nembo del mio male in un alito». Qual era il suo male?
La verità su Pascoli l’aveva intuita Pasolini nella sua tesi di laurea del 1945, ma i tempi non erano maturi per la rivelazione: la rivelazione del “crimine senza nome”. Mentre Alfonso Traina nella sua “Introduzione” a Pascoli, Poemata christiana (Rizzoli 1984), si limita a osservare che “la precoce orfanezza bloccò Giovannino allo stadio dell’infanzia: ‘O mamma, ma io voglio rimanere con te.’”
In tempi più recenti uno studioso-poeta molto appartato, Vito Bonito, nella sua monografia uscita per Liguori nel 2007, analizzando “Il gelsomino notturno”, sta per dirlo: “C’è tutto il romanzo psichico di Giovanni, con il suo corredo di contemplazione della carne, morbosità visionaria, fantasia turbata entro cui si svolge l’intera esperienza sessuale che di fatto resta circondata da un sentimento di orrore e violenza, di rovina e di morte”. E ancora: “Passando attraverso le luci che si spengono nel Gelsomino notturno, la vergine e con lei lo sguardo poetico ripercorre un viaggio conoscitivo di pulsioni e tremiti carnali tipico dell’erotismo celibe e voyeuristico di Pascoli”. Infine: “L’ideale femminile del Pascoli è la vergine madre, variamente incarnato nelle madri fanciulle della sua poesia e nella madre-sorella della sua vita: si direbbe che la maternità paghi il prezzo di aver violato, col sesso, la purezza dell’essere”.
Bonito sta per dirlo, ma si blocca. L’accademia potrebbe non perdonare.
Mentre ampiamente fuori strada, pur nella raffinatezza delle analisi proposte, mi appaiono Cesare Garboli e Vittorino Andreoli, entrambi determinati a non voler nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi rappresentata del fattore “O”.
Garboli nel saggio introduttivo a Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli sposa esplicitamente la tesi del rapporto incestuoso tra il poeta e le sorelle, o una di esse.
Vittorino Andreoli, neurologo e psichiatra, in I segreti di casa Pascoli giunge alla stessa conclusione: rapporto incestuoso con Ida, gelosia e isteria di Mariù. Le sue fonti sono gli epistolari e gli scritti di Maria (Lungo la vita di Giovanni Pascoli) suffragati da una visita alla casa di Castelvecchio. Secondo Andreoli scattò la proiezione della figura della madre su Ida e l’immedesimazione di Giovanni col padre morto. La descrizione della cappella dove è conservata la tomba del poeta – con il particolare delle fessure nel sarcofago, talmente sottili che solo Maria, di corporatura minuta, potesse continuare a toccare la salma del fratello – completa il quadro. Come se Digitale Purpurea si fosse materializzata.
Infine Elio Gioanola in Giovanni Pascoli, sentimenti filiali di un parricida, sulla linea indicata da Traina, spiega perché Pascoli per tutta la vita si sentì colpevole della fine del padre, avendone desiderata la morte dopo che questi lo aveva allontanato dalla madre mandandolo in collegio a Urbino. Secondo Gioanola, il trauma dell’assassinio bloccò lo sviluppo di Giovanni lasciandolo per sempre bambino, “inetto al ruolo virile nel matrimonio”, desideroso di “ritornare al ventre materno”, perseguitato dal fantasma del genitore assassinato, incapace di elaborare il lutto. Pascoli, secondo Gioanola, fu dunque parricida nel senso che si sentì tale. Accettare questa chiave interpretativa significa che nell’Aquilone il vero morticino a cui la madre pettina i capelli è Giovannino stesso, ansioso di ricongiungersi a lei; che la Tessitrice rivela al poeta: solo nell’aldilà sarà per te realizzabile il sogno coniugale; che I due fanciulli rappresentano la fuga dal mondo maschile e paterno per cercare rifugio in quello materno del perdono e della pace; e che il “don don” della campana vespertina “sul far della sera” è desiderio di fuga dalle responsabilità adulte. E anche qui, naturalmente, Il gelsomino: l’immagine della solitudine del poeta nel buio, a vegliare allucinato la “casa che bisbiglia” e custodisce segreti erotici a lui preclusi.
* Susan Huntington Gilbert, amica intima e, dal 1856, anche cognata.
MONTALE-KNIASEFF
Il danzatore russo Boris Kniaseff (in alcune trascrizioni indicato come Baris Kniaseff) venne ammirato da Eugenio Montale nel gennaio del 1923 mentre si esibiva sul palco del Teatro Verdi di Sestri Ponente. Pochi giorni dopo il poeta potette incontrarlo nell’atelier genovese dello scultore Francesco Messina, dove Kniaseff posava.
Al riguardo appare significativa la testimonianza del critico Silvio Ramat: “Mi sono laureato su Montale nel 1962 e chiesi al poeta chi fosse questo K. al quale è dedicata la poesia “Ripenso al tuo sorriso”. Lui mi inviò una lettera in cui mi spiegava che era un ballerino russo che aveva conosciuto. Precisò anche di non averlo detto subito per non passare da pederasta nel 1925”.
Sin dall’apparizione di Ossi di seppia non poterono esserci dubbi sul fatto che il dedicatario fosse di genere maschile: al quinto verso “o lontano” è un vocativo al maschile; al settimo gli aggettivi “vero” e “raminghi” sono declinati al maschile. Va dunque riconosciuto il coraggio del giovane Montale che dignitosamente evitò di falsificare il genere del dedicatario.
Va comunque ricordato che nel marzo del 1923, allorché apparve il primo nucleo degli Ossi, che ancora riportava l’originale titolazione – Rottami – la poesia era dedicata “a Francesco Messina, con molta gratitudine per la sua bellissima e cara amicizia”. Pochi mesi dopo, in luglio, come la raccolta cominciò a prendere forma, assunse anche il titolo definitivo. E la dedica divenne “a K”.
Il fatto che Montale tradusse personalmente in francese “Ripenso al tuo sorriso” affinché Kniaseff potesse leggerla, dimostra il profondo coinvolgimento emotivo del poeta venticinquenne nei confronti dello stupendo danzatore. Un legame cripticamente confermato da Montale trent’anni dopo, nel 1955, quando in un articolo sulla pagina culturale del “Corriere d’Informazione” intitolato “La fiera di Soročincy di Musorgskij e racconto d’inverno di Rossellini”, il poeta cita Kniaseff come coreografo de “La fiera di Soročincy”.
IGNORANZA E PREGIUDIZI MINISTERIALI
1925: il timore di Montale d’essere giudicato pederasta
1962: la lettera “esplicativa” a Silvio Ramat.
Tutto potrebbe lasciare supporre che nel 2008 sia il coraggio/timore montaliano del 1925, sia le volgarità epistolari del 1962, fossero state superate. Invece no: a prevalere è ancora il neutro grigiore eterosessuale, quando il 18 giugno 2008 – aperte le buste coi titoli dei temi assegnati dal ministero per l’esame di maturità – si scopre che la poesia proposta agli studenti per l’analisi testuale è proprio “Ripenso il tuo sorriso”, tratta da Ossi di seppia. Che però viene presentata senza la dedica a K.
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida
scorta per avventura tra le petraie d’un greto,
esiguo specchio in cui guardi un’ellera i suoi corimbi;
e su tutto l’abbraccio d’un bianco cielo quieto.
Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto s’esprime libera un’anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma,
e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d’una giovinetta palma…
Partendo da questo testo, segue una guida alla lettura volta a indurre gli studenti a discettare sul “ruolo salvifico e consolatorio della figura femminile” nella poesia di Eugenio Montale. Come potessero farlo con gli aggettivi declinati al maschile rimane un insondabile mistero.*
No comment.
*Mistero ancora più fitto se si considera che il tema della figura salvifica della donna comincia a comparire nella poetica montaliana solo più tardi, nei Mottetti, contenuti nelle Occasioni.
Franco Buffoni
Franco Buffoni
Franco Buffoni ha pubblicato Suora carmelitana 1997, 2019 ristampa, Il profilo del Rosa 2000, Theios 2001, Guerra 2005, Noi e loro 2008, Roma 2009. L'Oscar Poesie 1975-2012 raccoglie la sua opera poetica. Con Jucci (Mondadori 2014) ha vinto il Premio Viareggio. In seguito sono apparsi Avrei fatto la fine di Turing (Donzelli 2015), O Germania (Interlinea 2015), Poeti (Lietocolle-Pordenonelegge 2017). È autore dei romanzi Più luce, padre (Sossella, 2006), Zamel (Marcos y Marcos 2009), Il servo di Byron (Fazi 2012), La casa di via Palestro (Marcos y Marcos 2014), Il racconto dello sguardo acceso (Marcos y Marcos 2016). Del 2017 l'opera teatrale Personae edita da Manni. Del 2018 il libro-intervista Come un polittico e il libro di poesia La linea del cielo. Del 2019 in prosa Due Pub tre poeti e un desiderio, ed. Marcos y Marcos. Il suo sito è www.francobuffoni.it