Caro Antonello Ottonello, semplicemente “Otto” per tanti, Nino in famiglia, caro zio, proprio ora che sono tornato in Sardegna, per stare un po’ di tempo in più del solito, proprio ora che avremmo potuto realizzare una plaquette o una mostra insieme – arte e poesia come ci dicevamo da tempo – proprio tu, questa volta, sei partito.
Un viaggio senza ritorno – dicono – eppure so che tornerai, con il tuo modo di essere così accogliente, sarcastico e spinoso quando serve, con i tuoi colori, le tue forme, che entrano dentro e si fanno coscienza individuale e collettiva. Tornerai ogni giorno con la vitale ironia che sempre portavi con te, anche nel dolore che soprattutto negli ultimi tempi tante tregue non ti aveva concesso, esclamando: «Eccomi, sono tornato, ma che ci avete creduto davvero, dopo tutto quello che ho passato, che me ne sarei andato così? O scemi!». E poi dirai che dovrai andare via per allestire un nuova installazione, ignota e remota, con tutte le tue opere che restano qui e ci osservano e segnano dentro, mentre tu ti allontani e stiamo in attesa. Aspettarsi, aspettarsi ancora, come i cavallini di terracotta della Giara sospesi sulle scaglie di micascisto, alla mostra del 2014, con il racconto omonimo di Milena Agus, che recitai all’inaugurazione alla Fondazione Bartoli Felter di Cagliari, vicino a via Mameli, la via della tua storica casa-laboratorio.
Al tempo ero un giovane teatrante e studente in Lettere, iniziavo a frequentarti davvero, non più ‘con parenti’ o ‘perché parenti’, ma per una segreta sintonia, avente l’arte come filo conduttore. Eppure, stavo per partire verso Milano per aprirmi al contemporaneo e tu eri contento che lasciassi l’isola, per poi tornarci e raccontare anche a te degli avanzamenti del mio percorso, da solo, in una città vorticante e nel sibillino mondo letterario. D’altronde era quello che avevi fatto anche tu, molto prima, con più coraggio sul finire dei Sessanta eri andato a Roma e nel ’74 ti eri diplomato all’Accademia di Belle Arti in Scenografia. Anche i tuoi primi passi furono nel mondo del teatro, da scenografo, costumista e pure attore, con la compagnia di Mario Ricci. Ci unì anche questa passione per il teatro, che è passione per una vita da calcare più intensamente, senza finzione, e per il cinema. Amavi Fellini, a cui dedicasti una mostra che omaggiava una celebre scena di Amarcord, il passaggio del REX. Quante cose mi raccontavi di Roma… E poi Spezzati (2016), con le spine di acacia che infilzano i biscottini, in memoria dei bambini offesi, gli stessi aculei che raccoglievi con le tue mani e penetravano le tue tele dai pigmenti naturali (blu, terra e grigio ottonelliani sourtout) e cuscini in cui è impossibile dormire
Tanto mi hai insegnato e le tue poesie figurative (Poesie, 2012) sono entrate nelle mie. I minerali che compaiono sono anche i tuoi e quelli di mio nonno materno, Albino Ibba, minatore in Belgio e in fonderia a San Gavino, e di quanti altri. Le miniere in abbandono, da Ingurtosu al Sulcis, con la traccia del dolore che resta, a cui la tua arte con la ricerca di polveri, colori, materiali, residui ha dato un nuovo senso, immortalando sensazioni e sentimenti contrastati in una e più e più forme, inventando per ogni ricordo il suo colore.
incontra un compagno che ti insegni
riprendi ad amare, addentrati, tieniti
sull’attenti, una dedizione che riempie
i vuoti spazi che restano di luce
–
tremante nella costanza del buio
trainarla scavando come schiavi
basalto granito ossidiana, fitta anima,
e appena vibri, in sogno, approssimarsi
farsi custodi, miniera a miniera
Francesco Ottonello, Isola aperta (Interno Poesia 2020)
Ed ora hai preso la tua valigia, una delle Valigiemigrazione (titolo di una tua grande mostra al Teatro Lirico di Cagliari del 2010), quelle di cartone dei minatori sardi e fragili dei continui esuli del mondo, con qualche brandello di camicia, schegge di legno, chiodi di ferro dentro, e sei partito. Avrai raggiunto, seguendo fili azzurri e pietre sonore, i tuoi amici Maria Lai e Pinuccio Sciola, o chissà quali altri artisti del futuro e del passato. Ricordo con un sorriso quanto ti adombravi per la loro scomparsa e poi sarcastico dicevi: “Ormai manco solo io”. E continui a sfondare e andare in volo, per citare una tua opera recente (2017) Sfonda e vola.
Eppure sbaglio, non sei volato via. Sei qui, terreno, con il tuo ultimo monito, i tuoi bronzi-tondi, bronzi-paesaggio, che ho fotografato insieme a te, facendo il giro della mostra Bronzi (Mediateca del Mediterraneo, 2018). Due di essi proprio un mese fa, mentre eri in ospedale, sono stati posti all’ingresso della Galleria Comunale d’Arte dei Musei Civici di Cagliari, nei tuoi amati Giardini Pubblici. Spero che Cagliari, la Sardegna e il mondo continuino a scoprire la tua opera, non smettendo mai di stupirsi e interrogarsi. E così sono io a congedarmi da te (non il contrario): tu mi accompagni, pensando all’ultimo sogno e a quella telefonata, in cui ormai semicieco mi chiedevi di recitarti una mia poesia, perché tu non riuscivi più a leggere. Poi mi ricordavi le tue, perché la poesia non è fatta soltanto di parole, ma di soli, spine, pietre, lune, ritmo, colori, linee e soprattutto silenzi.
un tempo l’australopiteco
per ringraziare di una nuova cattura
alzava il piccolo suo verso il cielo
come me non ha memoria del nome
–
l’angoscia di pietre che si sfasciano
sentirsi soli, tremendamente in bilico
attende il nuovo e gli manca già tutto
l’abbraccio che stenta, non sapere morire
–
il vuoto è un’inutile pretesa di stare
malinconia e manicomio della specie
assenza di ritorni, espansa vita
–
finirà per ucciderlo e noi ancora
a un albero aggrappati
qui come a un sogno
Francesco Ottonello, Futuro remoto (XV Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea, Marcos y Marcos 2021)