“Quest’anello!” balbettò [Frodo]. “Com’è potuto finire in mano mia?”
“Ah!” disse Gandalf. “È una lunga storia. Risale agli Anni Neri, che ormai solo gli esperti della tradizione ricordano. Se ti dovessi raccontar tutta la storia, saremmo ancora seduti qui quando la primavera sarà diventata inverno”.
(J. R.R. Tolkien, Il Signore degli anelli)¹
Anni fa ho scoperto esserci un legame tra ciò che di misterioso si cela dietro gli alberi millenari della foresta di Fangorn e ciò che personalmente amo indagare occupandomi di poesia.
Mi riferisco al fascino dell’occultamento volontario di dettagli narrativi, in virtù del quale il significato di un testo – anche e forse soprattutto poetico – acquisisce una maggiore potenza.
L’immaginario fantasy produce, per necessità, un linguaggio che è votato ad una continua omissione di particolari.
Possiamo forse ammettere che l’universo fantasy è esso stesso una gigantesca omissione, in quanto in esso è di fatto omessa una cosa piuttosto importante: la realtà.
Più in generale, come è evidente, in un’opera nascondere qualcosa alla vista del suo fruitore significa dare spazio alla sua immaginazione e in qualche modo amplificare la portata del messaggio complessivo.
È così che il Nulla de La storia infinita di Ende non trova una vera e propria definizione, se non nel progressivo inghiottimento del mondo di Fantàsia; e proprio in questo continuo “sfuggire semantico” risiede la sua forza (per questo ci fa paura).
È così che ne Il Signore degli anelli la descrizione dettagliata della terra di Mordor si fa attendere: quanto è più vasto il Male (o il Bene) se lo posso solo immaginare?
Nel film La compagnia dell’anello, primo della trilogia magistralmente diretta da Peter Jackson nei primi anni Duemila, possiamo solo intravedere la torre nera di Barad-dûr – per esempio nella breve sequenza in cui Gollum viene torturato dagli orchi e rivela il nome “Baggins”- e dunque solo intuire quel paesaggio di dolore e morte. Per questa capacità di togliere alla vista, Jackson è riuscito, a mio modo di vedere, a fare onore al romanzo e a coglierne uno degli aspetti costitutivi.
Ancora. C’è evidentemente qualcosa di importante nel bosco di Lothlórien, come tra i neri corridoi di Moria, ma a noi è dato guardarne solo un assaggio: raggiungeremo la reggia di Galadriel, conosceremo il Balrog, demone del mondo antico, ma nel disvelarsi di queste due incredibili creature noi subito intuiamo che c’è dell’altro, che non vedremo in questo film, che non leggeremo in questo libro. E di questa intuizione si nutre il lettore/spettatore.
Nei film de Il Signore degli anelli ci sarà sempre dell’altro: un mondo industrioso e metallico, nei crepacci fondi che circondano la torre di Isengard, che a noi è dato solo sorvolare con l’inquadratura della cinepresa. Così ci sarà concesso immaginare all’infinito gli orchi che lavorano il ferro, che si strangolano fra loro, che usano le imponenti armi elaborate dalla torva mente di Saruman.
Quella de Il Signore degli anelli di Jackson, fedele alla tensione epica di Tolkien, è sempre una visione echeggiante, che rimanda a tutto ciò che non è nel film (e va detto che a questo effetto ha contribuito anche la notevole musica composta da Howard Shore.). Il piacere che si trae dalla visione della trilogia è quello di essere rimandati sempre ad un luogo che non fa parte della narrazione principale, e che quindi non verrà indagato, in modo che possa riverberare.
Un esempio di quanto detto risiede in maniera emblematica in un fotogramma:
Questa ci sembra essere la città morta di Minas Morgul, ma noi ancora non conosciamo il suo nome. Stiamo guardando il primo film della triologia: La compagnia dell’anello.
I nove cavalieri neri (Nazgûl) sfrecciano in sella ai loro cavalli verso la Contea, avvertiti della presenza dell’anello. C’è in evidenza il grande portone della città morta, e poco più a sinistra vediamo anche una piccola rientranza, che non si saprà mai dove (e se) conduce, ma che ci fa immaginare: un antro nella città morta? Uno stanzino per le torture? L’ingresso secondario verso un dedalo di cunicoli oscuri? Una porticina murata costruita in un tempo ancora più remoto dell’Era di mezzo? Un varco verso dove?
Mostrare a noi stessi, all’infinito, le nostre paure più profonde e interpretarle. Non è forse questo il piacere della lettura – e della scrittura? Interrogare e praticare la scrittura per allungare la vista, per sporgersi sul varco della fantasia.
Un’opera ci sembrerà allora ben riuscita, quando svolge la stessa funzione amplificatrice di quella piccola rientranza misteriosa sulle verdastre mura di Minas Morgul.
Note
1 La traduzione è di Ottavio Fatica.
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