in copertina: fotografia di Dino Ignani
V. M. Partirei dai seguenti versi: «Poi se ti sembra ti spiego e si parla poco/perché distrarsi e dire o riprendersi e guardare». Qual è il rapporto tra visione e restituzione verbale delle immagini?
C.S. Forse c’è un verso capace di parlare ancora di più riguardo a quanto mi domandi: «Mi guardi? Mi vedi che ti sento parlare?». Qui c’è un ascoltare e un parlare che domandano di essere guardati.
Nella introduzione ai testi di Nove, riporto questa sezione di un’intervista realizzata da Claudia Crocco a Mario Benedetti (contenuta in Materiali di un’identità):
Sembra che ti stiano molto a cuore questioni epistemologiche. Un problema è l’incertezza dell’esistenza delle cose, che per esistere realmente hanno bisogno di essere ricordate, quasi incise, attraverso una continua rimodulazione verbale: è quanto accade spesso in Umana gloria.
Sì, è così. È tutto molto provvisorio in maniera forte, è così pregnante la parola «provvisorio» per me. È così tutto. Forse anche perché mi sembra di aver vissuto epoche diverse. Sono nato in un Friuli molto arcaico, arretratissimo; ho sentito molto la trasformazione della società, del paesaggio – che era tutto per me, allora. Molte volte sono andato via da diversi luoghi, ma lì è davvero cambiato tutto. Qualche anno dopo il terremoto si sono modificati il torrente, le case, la gente. Già gli uomini della generazione precedente la mia avevano i loro ricordi; ma io ne ho molti di più, perché ho filtrato i ricordi di mio padre, più tutta la mia vita, attraverso la cultura «libresca». L’idea del tempo storico viene quando hai un po’ di cultura; mia madre non ne aveva, né mio padre. Nella mia prospettiva tante cose non sono solo guardate (perché anche mio padre guardava le stelle), ma rimodulate da scienziati, da poeti. Poiché tutta l’esperienza umana è per definizione provvisoria, quel che si può fare è cercare di testimoniarne piccole parti.
Lo sguardo, il guardare, entra subito come tema di Nove. Il punto di questa raccolta è stato proprio l’essersi trovati in uno stare vivendo, in un fare esperienza di qualcosa, senza mai riuscire a conoscere e comprendere in un significato che non fosse interpretazione («Nella mia prospettiva tante cose non sono solo guardate – perché anche mio padre guardava le stelle-, ma rimodulate da scienziati, da poeti. Poiché tutta l’esperienza umana è per definizione provvisoria, quel che si può fare è cercare di testimoniarne piccole parti.».) Come se un soggetto che guarda non potesse o non sapesse dimenticare di essere in un guardare (inteso come momento del significare, dell’interpretare). Come se di un rapporto tra soggetto che “guarda” e la cosa/esperienza guardata, esso sapesse testimoniare solo il guardare ripiegato su se stesso. Da qui un parziale senso dello scrivere in nota e glossando. Da qui tutta una precarietà.
V.M. Mi sembra che i fondamenti su cui si regge la plaquette possano essere indagati a partire dal termine «affetto»; scrivi, infatti: «Ma ci vuole affetto/per parlare, dell’affetto per scrivere.» Possiamo intendere l’affetto di cui parli come inclinazione, disposizione del singolo, delle parti che lo compongono?
C.S. Credo la tua lettura qui sia particolarmente profonda e preziosa. In Nove, proprio affetto è stato il gesto del soggetto scrivente verso una lingua e un’esperienza che in essa si dà, esperienza che è da scriversi, di cui si cercava conoscenza. Non perché il soggetto scrivente non desiderasse fare esperienza di qualcosa che fosse di più di un affetto e di un’incompletezza che esso porta, anzi… ma perché questo libro rende conto di una somiglianza mancata (non credo costitutivamente) tra il soggetto e la cosa guardata. Qui la parola non sa dire nulla, sa solo approssimare, circoscrivere un significato… affetto, solo affetto appunto, tra lingua, soggetto e cosa. Non amore, che invece sarebbe quanto scrive Rilke «Non è più possibile applicare la misura del singolo cuore». Essere innamorati in una lingua credo sia quella coincidenza tra soggetto, lingua e cosa/esperienza a cui il soggetto si dà. Tutta la precarietà, il fare esperienza di Nove, sta proprio in quell’affetto.
P.S. La poesia di cui citi il verso in realtà è una riscrittura di Dedica di Mario Benedetti; quindi, essa è “mia” nella misura in cui mi appartiene un’operazione del riscrivere.
V.M. Ci spieghi cosa intendi con «spazialità utopica»? Qual è, se esiste, il rapporto con il concetto di struttura?
C.S. Qua credo ci possa essere stato un fraintendimento. Il testo in cui è presente la locuzione «spazialità utopica» in realtà è costruito secondo la tecnica del googlism con esiti formali diversi rispetto a quelli teorizzati da K. Silem Mohammad in Sought poems (è tutto scritto nelle note ai testi). Di conseguenza, se c’è presenza di un soggetto che vuole in questo testo, esso è presente solamente all’interno di scelte formali (l’assembramento strofico, ad esempio) e parzialmente in una selezione tematica (attraverso le parole da inserire nel motore di ricerca). Però, ecco, quello che la poesia dice in termini semantici non è propriamente qualcosa di ascrivibile a me, a un mio pensare, ma a materiale linguistico condiviso del web. Indubbiamente c’è anche un senso semantico in questi testi, mentre un significato semantico non so se avrebbe senso cercarlo. In un dialogo con Alessio Paiano scrivevo:
Nei testi scritti con la modalità googlism, invece, forse è presente quanto scrivi, ma non tanto a proposito di un soggetto sommerso nell’oggetto, quanto di un soggetto che ha dimenticato l’oggetto ed è annichilito, estinto, da strutture interpretative che non sono neanche più un guardare – in quanto non c’è soggetto – ma un accettarle passivamente (questo è parzialmente vero, in quanto in realtà il soggetto anche nei miei googlism purtroppo si salva, essendoci nella scelta delle parole iniziali da digitare nel motore di ricerca, nel riassemblamento dei materiali…). Quei testi, ecco, sono una riflessione riguardo al poter far scrivere una grammatica priva di soggetto. Non a caso li ho voluti riordinare in endecasillabi. Che cos’è un endecasillabo, un metro ereditato e codificato, se non si fa esperienza di esso e se non lo si assume su di sé in quanto soggetti? Grammatica inerme.
Riguardo alla «spazialità utopica», però, un aspetto interessante è che inizialmente pensavo di autoprodurre Nove in due formati di supporto, uno cartaceo (un libro prodotto artigianalmente) e uno digitale, con l’idea che uno potesse essere forma e spazialità utopica dell’altro, in modo simile a come, mi sembra, il cinema sia utopia del teatro e viceversa. Volevo due formati – libro che, in negativo, svelassero significati uno dell’altro e, nel contempo, fossero un’utopia dell’altro. Il cartaceo in una sua tangibilità, il digitale in un’ipertestualità, ad esempio. Poi, però, ho incontrato le menti e le mani luminose di Giorgiomaria Cornelio e Giuditta Chiaraluce; ne è venuto fuori questo piccolo progetto – libro che è Nove.
V.M. Alcuni dei testi di “Nove” sono riscritture da Mario Benedetti. Quali altri autori si situano nella tua genealogia? Percepisci un conflitto con queste figure di riferimento?
C.S. Un testo di Nove è una riscrittura compiuta nel tentativo di poter giungere ad ogni parola rivivificandola e ripercorrendola, covandola in sé e facendone esperienza (similarmente a quanto ipotizza Borges nel racconto Pierre Menard, autore del Chisciotte, anche se lì tutto resta astratto e artificioso; diversamente, il mio riscrivere è questione di affetto che si dà nella parola – verso, come si diceva prima). Altri testi sono invece posti in nota a Benedetti, secondo un’operazione di cui avevo provato a rendere conto qui.
Gli autori di una genealogia da riferirsi a Nove sono tanti. Il primo che mi viene in mente (oltre ai già menzionati) è Jack Spicer in After Lorca (Argolibri, 2018) ma altri nomi si possono trovare nelle note ai testi del libro. Però, nonostante un’apparente letterarietà esposta, non vorrei che si confondesse l’operazione che ha portato a Nove con un puro gioco metaletterario. Lo ribadisco, essa nasce come un fare esperienza viva di una somiglianza mancata, di qualche cosa che si pone in dialogo (puramente nel pensare, non a livello formale/testuale) con Rilke quando scrive, nella IX Elegia:
Vedi, anche il viandante dalla costa del monte/non porta a valle una manciata di terra,/per tutti indicibile, ma/una parola acquisita, pura, la gialla e azzurra/genziana. Siamo qui forse per dire: casa, ponte, pozzo, porta,/brocca, albero da frutto, finestra – al più colonna, torre…/ma per dire, capisci, oh per dire così come le cose stesse/mai intimamente pensavano di essere.
Un dialogo, ovviamente, problematico, difficilissimo, che è nella precarietà.
Riguardo a una mia genealogia di autori personale, posso dirti cosa sto provando a percorrere adesso. Due movimenti, quello verticale dell’uccello in Thierry Metz:
Vecchia orsa minore
vieni a vedere:
sorge un giardino
nel respiro dell’albero
è questo il luogo
dove uomo e uccello
si meravigliano
E quello orizzontale della lepre in Maxime Cella:
Raro sbandolio di matassa
irresiste alla
presa, cede a un ricatto
d’immagini e nel segno
di quelle ali solcanti che la mano aperta
oscura, afono si sentenzia.
Già sa che chi non gli aspira perimetra
al superfluo, che chi l’asseconda e ne conclude
non è di questo mondo
S’improvvisa inattesa la speranza
di disarmo, dall’alto fessurare
di un aliante al filo a spine
a penzolo della caserma:
se n’è accorta la lepre, ora
in sfreccio sui corvi
nel campo fresco di semina
Poi, un autore che sto provando a studiare è Cosimo Ortesta.
intervista a cura di: Valentina Murrocu
Carlo Selan
Carlo Selan nasce a Udine nel 1996 e attualmente studia Italianistica presso l'Università degli Studi di Udine. È redattore delle riviste Digressioni, Charta Sporca e del sito letterario Poesia del nostro tempo. Alcune suoi versi sono apparsi nell’antologia Abitare la parola. Poeti italiani nati negli anni Novanta (Ladolfi, 2019) e in diverse riviste o testate online come Le voci della luna, Nazione Indiana (dove è presente anche un suo intervento all’interno del questionario Le radici dell’inchiostro), Argo, Perigeion e Inverso – giornale di poesia. Altre sue poesie sono state tradotte in ceco e pubblicate nella rivista specializzata in letteratura Revue protimluv. Ha curato la prefazione alla raccolta poetica di Michele Obit La balena e le foglie (Qudu, 2019). È stato selezionato come autore per diversi festival letterari, tra cui l’edizione 2019 di RicercaBo e l’edizione 2020 di Pordenonelegge. È uno dei fondatori del collettivo artistico ZufZone. Nel 2020 è uscito il suo progetto - libro Nove per la collana I cervi volanti (a cura di Giorgiomaria Cornelio e Giuditta Chiaraluce).