Franco Buffoni | Dante e i suoi maestri (da “Maestri e amici. Da Dante a Seamus Heaney” – 2020, Vydia editore)

In questo articolo Franco Buffoni ci parla del rapporto di Dante con i suoi “maestri”, Brunetto Latini e Virgilio, soffermandosi sul canto XV dell’Inferno e sulla sodomia, provando a rovesciare alcuni aspetti dati spesso per scontati. Il contenuto che qui leggerete apre la raccolta di saggi brevi "Maestri e amici. Da Dante a Seamus Heaney" (2020, Vydia editore), strutturato nelle 3 sezioni: Sulle spalle dei giganti, Il Novecento, Tra due secoli. Come esplicita l’autore stesso nella premessa, in questo volume non troveremo approfondimenti sugli autori di cui Buffoni si è occupato maggiormente durante la carriera accademica e saggistica, ovvero gli scozzesi del Sei-Settecento Ramsay e Fergusson, gli inglesi romantici Byron e Shelley e altri autori a lui cari come Wilde a Auden. Come fa intuire il sottotitolo, Buffoni si è mosso incrociando due tradizioni principali, quella letteraria inglese e quella italiana, lungo un periodo che si estende dagli esordi delle letterature europee fino al contemporaneo. (F. Ottonello)

Nel canto XV dell’Inferno due parrebbero essere i punti fermi relativamente al rapporto tra Dante e Brunetto Latini: 
– Dante mostra rispetto e affetto per il maestro: gli dà del “voi”; si rivolge a lui come a “ser Brunetto”;
– Dante condanna Brunetto alla pena eterna in quanto “sodomita”.
Il mio obiettivo è di mostrare come entrambi questi assunti possano essere messi in discussione, e persino radicalmente contraddetti.

Iniziamo dal primo, considerando anzitutto l’arretratezza del bagaglio letterario e culturale di Brunetto – ancora strettamente legato all’enciclopedismo e alla poesia didascalica – rispetto all’ampiezza del respiro lirico e al rigore morale della nuova poesia di Dante, una volta abbandonato nell’incompiuto Convivio l’insegnamento del maestro. Da una parte, dunque, Brunetto che pervicacemente continua a dare credito al caso («Se tu segui tua stella…»), dall’altro Dante che invece si affida alla Ragione rappresentata da Virgilio, guidata dalla Grazia: per lui la Fortuna è ormai Intelligenza celeste, all’interno della quale – pur permanendo chiare considerazioni relative all’influsso degli astri, come nel Paradiso all’entrata nella costellazione dei Gemelli – appare completamente trascesa la meccanicistica visione astrologica del Latini.

Alla riflessione sull’arretratezza culturale di Brunetto, vorrei aggiungere un dato che non mi risulta sia mai stato posto nella debita luce: Brunetto non riconosce Virgilio. Laddove Dante, all’inizio della cantica, lo riconosce immediatamente. Come mai? Credo vi sia una sola risposta, perché sarebbe ridicolo parlare soltanto di luce soffusa: Brunetto non è degno, non è all’altezza di riconoscere Virgilio. Brunetto pensa solo al suo Trésor, lo raccomanda all’ex allievo pateticamente, e l’ex allievo gli darà gloria perenne per luce riflessa, il modo peggiore che un autore possa desiderare per essere ricordato. Brunetto non riconosce Virgilio perché questi è troppo grande per lui. E nemmeno cammin facendo Dante ritiene sia il caso di rivelare a Brunetto l’identità del suo nuovo maestro Virgilio.

Virgilio la cui opera assorbe e trasmuta la grandezza dei più grandi tra i suoi precursori; Virgilio capace di celare in ogni esametro un universo citazionale, referenziale, intertestuale, e al contempo di mostrarci poesia pura, limpida, affatto appesantita, semplicemente perfetta, e volta a preconizzare, prevedere, abbracciare le più grandi tra le opere future. Come quella di Dante.

Ser Brunetto – per contro – non vede oltre il proprio naso, pensa solo a sé stesso, si vanta di aver compreso le doti letterarie del suo allievo, ma anche qui in modo estremamente riduttivo, non accorgendosi che proprio in questo suo incoraggiare e incitare l’allievo («non puoi fallire a glorioso porto»; «dato t’avrei a l’opera conforto») sta un’ulteriore dimostrazione di arretratezza culturale, di inadeguatezza.

Dante vuole far fare brutta figura a Brunetto Latini non perché “sodomita”, ma perché mediocre letterato. E ci riesce perfettamente, malgrado le parole di affetto («la cara e buona immagine paterna») e le manifestazioni di gratitudine («m’insegnavate»). L’immagine diviene persino scultorea con Brunetto in basso – non in quanto peccatore, ma in quanto culturalmente inadeguato – e Dante rivolto ormai a Virgilio in modo definitivo. Virgilio che pur si degna di considerare Brunetto per il suo buon senso («Bene ascolta chi la nota»), ma dall’alto e 13 con lo sguardo già volto a ben altri incontri, a ben altre esperienze di viaggio.

De Pisis, Fireze, Dante, Franco Buffoni, MediumPoesia

Quanto al secondo punto, occorre fare attenzione a non procedere in modo banalmente sillogistico e superficiale. Dante in Inferno XV non condanna l’omosessualità, così come in Inferno V non condanna l’adulterio. Certo, Paolo e Francesca sono all’Inferno in quanto adulteri; e Brunetto Latini vi si trova in quanto sodomita. Perché Dante applica la lettura cristiana della corrispondenza peccato-pena. Ma indica anche una via a sé stesso e al lettore: impegniamoci a essere virtuosi, a superare le tentazioni della carne e della vita terrena, noi che questi atti li abbiamo desiderati, li abbiamo commessi. E questo senza voler minimamente rinverdire antiche dispute su Dante uomo e poeta da una parte, e Dante teologo e giudice dall’altra; o tra struttura teologale del poema e poesia capace di comprendere e assolvere.

Occorre anche distinguere tra la legge – che per sua natura non può che essere generale e astratta – e l’atteggiamento “umano” di Dante, che è sempre concreto, individuale. Pertanto, così come tutta una tradizione di amore cortese rivive e viene immortalata nel bacio di Paolo e Francesca, allo stesso modo tutta una tradizione di omosessualità e cultura rivive nell’incontro tra Dante e Brunetto. «Tutti fur cherci / e litterati grandi e di gran fama», rivela Brunetto parlando dei tanti chierici e letterati che compongono il suo gruppo.

Brunetto è un omosessuale organico. È il maestro omosessuale che non riesce a trattenersi dall’accarezzare “paternamente” ogni volta che può i propri allievi: lo fa ancora, anche con Dante, anche in questa occasione. Non dimentichiamo che Brunetto ha applicato in chiave omosessuale gli stereotipi del corteggiamento amoroso tipici della scuola siciliana nella canzone per Bondìe Dietaiuti. Ma Brunetto è anche un pavido, che nel Tesoretto (2, 33, 44) condanna senza appello la sodomia: «Deh, come son periti / que’ che contra natura / brigan cotal lusura». Ciò che un Dante estremamente problematico e intrigante si guarda bene dal fare nella Commedia, dove mostra la fine che fanno i peccatori: tutti i peccatori. Oggi diremmo che Brunetto è un omosessuale velato. Come ognun sa, si tratta della categoria più scatenata sessualmente in quanto maggiormente repressa, e quindi la più a rischio in ogni senso.

E Virgilio? Virgilio, il modello, il nuovo Maestro? Durante l’adolescenza veniva deriso dai compagni, schernito e sbeffeggiato come “fanciullina”, perché capace di provare trasporto amoroso solo per i ragazzi. Era di salute cagionevole, timido, già malato di tisi, e dunque spinto a condurre una vita solitaria, volta alla meditazione, alla speculazione filosofico-letteraria e quindi alla grandezza dell’artista creatore. Dante sa benissimo che anche le pulsioni del nuovo maestro furono sempre di segno omoerotico. Ma non se ne stupisce e tanto meno se ne preoccupa. Il punto è non più peccare, non non desiderare.

Dante non è omosessuale come Virgilio o come Brunetto. Ma, come ogni uomo “normale”, può compiere atti omosessuali se le circostanze sono favorevoli. Va ricordato che, nella sua cerchia, tra chierici e letterati per l’appunto, il fatto che certi rapporti esistessero era non solo tollerato, ma praticamente considerato la norma. E forse l’immagine emblematica di questo dantesco stare “sia di qua sia di là” appare proprio all’inizio del canto, con Dante che cammina sul ciglione dell’argine del Flegetonte, paragonato a una diga.

Non abbiamo dati precisi relativi al Trecento, ma all’inizio del Quattrocento, a Firenze, oltre il sessanta per cento dei maschi adulti era stato arrestato almeno una volta per avere commesso atti di sodomia. E si sa che le multe che si pagano per le infrazioni commesse – e quindi registrate – sono di gran lunga inferiori alle infrazioni effettivamente commesse ma con discrezione (e comunque non rilevate). In sostanza l’accusa di sodomia era il mezzo più semplice a disposizione di chiunque per vendicarsi di qualcuno: funzionava sempre. 

Tutto ci lascia supporre che la situazione non fosse molto diversa all’epoca di Dante. D’altro canto è risaputo che la relazione omosessuale per antonomasia fioriva nelle scuole di retorica tra maestro e allievo. Dante, dunque, detto in termini contemporanei, compie un outing rivelando pubblicamente l’omosessualità di Brunetto. Ma il décor stesso del canto insiste su immagini di reciprocità e di inversione. Come ha osservato Tommaso Giartosio, «maestro e allievo si muovono in parallelo, si toccano, perpetuano i ruoli scolastici oppure praticano un rituale gioco delle parti, fino a un curioso scambio di cortesie per decidere chi sta sopra e chi sta sotto (l’argine)». E ancora: l’atmosfera stessa del canto, solitamente definita come purgatoriale, una penombra discreta e sfumata; con apparizioni indistinte che scrutano «come suol da sera / guardare un altro sotto nuova luna»; pochi accenni alla pena; il Flegetonte descritto come un ruscello. Una ambientazione che sottolinea la dimestichezza tra Dante e Brunetto, il tono patetico e pudico del loro ritrovarsi. Un simile regime di scarsa visibilità si adatta perfettamente (come scrisse Mario Mieli) ai luoghi di battuage un tempo frequentati dagli omosessuali.

Va infine ricordato che entrambi, Dante e Brunetto, furono condannati all’esilio (Brunetto era guelfo e fu esiliato per sei anni). E proprio da Brunetto giunge a Dante la profezia più chiara relativa al proprio esilio. Al punto che, per alcuni commentatori, tema vero del canto non è la sodomia bensì la polemica di Dante con Firenze. Resta il fatto che il canto dedicato all’omosessualità è anche il canto dell’esilio; e in tale ottica il verso «dell’umana natura posto in bando» possiede polisemica valenza.

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