di Damiano Scaramella
Da un po’ di tempo mi capita, con una ricorsività che ormai mi sono deciso a non sottovalutare, quanto sto per raccontarvi.
Un pazzo mi insegue. Ovunque io vada, ovunque mi trovi, nei pochi tragitti peraltro che mi concedo tra la stanza dove scrivo e il mondo, ovvero: tra la stanza dove scrivo e il mini market, la farmacia, il bar di Jian detto Luigi, o Giggi per gli avventori più affezionati – un affabile signore cinese, che gestisce il locale insieme a sua moglie Zhu detta Stefania, chissà perché –, il negozio di musica di Piazza Morbegno e davvero pochi altri vizi che la periferia Nord di Milano offre a un umore scontroso e appartato quale temo sia il mio. In realtà, non è corretto dire che il pazzo mi insegue. Ciò implicherebbe una qualche ossessione nei miei confronti, una particolare forma di interesse che non credo di meritare ai suoi occhi. È più corretto dire che è ovunque io sia. Mi appare alle spalle, o dietro un angolo, con onesta casualità o, forse, con predestinazione. Ma appunto, appare, si manifesta a me: ci troviamo. Pazzo è pazzo, su questo non c’è dubbio. Svitato come una campana, matto da legare, è chiaramente lo squinternato del quartiere. Eppure – ma questo è già troppo narcisistico –, vorrei pensare che io sia il solo a intrattenere una qualche forma di relazione con lui. E dopotutto, avrei ben donde di pensarlo.
La prima volta che abbiamo avuto un contatto ero in fila al supermercato sotto casa. Me ne stavo lì, in piedi, col mio carrello di congelati, latte scremato e qualche barattolo di sugo pronto, quando Lui mi chiama da dietro. Più che chiamarmi, ha letteralmente detto quanto segue, lo riporto testualmente: «Sai, mio fratello è morto. Stamattina, è morto mio fratello.» Io abbasso per un attimo le difese, sempre irte quando si tratta di barcamenarsi tra troppa gente in uno spazio piccolo come le corsie di un supermercato, e replico che mi dispiace molto porgendo, col massimo del garbo che mi sento in quel momento, le mie condoglianze, più o meno sincere. La conversazione prosegue così:
«Grazie, volevo molto bene a mio nonno, mi spiace che è morto» dice Lui, che avrà a occhio una sessantina d’anni.
«Non era suo fratello?» ribatto io.
«Il nonno di mio fratello» precisa Lui con lo sguardo sperso e una voce opaca, rarefatta.
Vado per un istante in confusione, tento di reinserirmi con la giusta postura nella fila, ma Lui non molla, e domanda:
«Come devo sentirmi?»
Mi giro nuovamente, inizio a inquadrare la situazione conscio di essere una calamita per matti, ma proseguo sul binario cieco. Non sono più solito stupirmi di nulla.
«Credo male. Immagino dovrebbe stare molto male per quello che è successo.»
Lui inizia a piangere e corre fuori dal supermercato. Giù il sipario.
Da quella volta, non c’è quasi più giorno in cui non lo incontri, che io sia solo o in compagnia, e ogni volta che me lo ritrovo davanti Lui ha sempre una nuova domanda da pormi. E ogni volta io rispondo.
«Cosa devo mangiare oggi?»
Pollo con i peperoni.
«A che ora mi devo svegliare domani?»
Alle 7 e mezza.
«Cosa devo fare adesso?»
Devi andare a casa e dormire.
(Covo nel sonno l’irrequietezza che un giorno Lui verrà da me con la domanda che più temo. «Vivere o morire?» Cosa risponderò a quel punto…)
Mi rendo conto, anche solo a pensarci, che tra i due forse il pazzo potrei essere io. Almeno così mi ha fatto notare chi ha già sentito questa storia. Ma col passare dei mesi, e delle occasioni di incontro tra noi, mi sono convinto che non si tratti affatto di uno sketch di quartiere, né del mio vizio di assecondare il nonsense che galleggia su questo mondo come olio sull’acqua. Né tantomeno che si tratti di un semplice caso di disturbo dipendente di personalità, quale pure poteva essere, con chiari sintomi borderline e solo taluni, sparuti accenni di disturbo istrionico. So bene che Lui ha molto più a che fare di così con la mia vita: è uno dei fantasmi del passato, del presente e del futuro che continuamente mi vengono a fare visita, ormai da anni e ovunque io tenti di nascondermi. Uno spettro evocato tanto tempo fa, da bambino, e mai più andato via.
Avevo otto anni. Nel garage sotto casa dei miei genitori una notte si infilò un merlo con il becco rotto. Al mattino, supplicai mio nonno di catturarlo, mentre tentava di uscire tamburellando con quel che rimaneva del becco sul vetro di una finestra. Lo mettemmo in una gabbietta. Lo chiamai Edward, come Edward mani di forbice, il protagonista del film di Tim Burton (uscito otto anni prima di allora, nel 1990) per cui, in quel periodo, vivevo una fanciullesca quanto macabra passione. Ogni sera andavo da Edward di nascosto ai miei genitori, torcia alla mano, e lo spronavo a fare qualcosa di inconsueto; mi ero convinto che avesse un potere eccezionale, una magia da mostrarmi. D’altronde, con un becco così strano, come poteva non averla. Fammi vedere che sai fare, gli dicevo. Mostrami la tua magia, Edward. Mangia. Bevi. Vola. Grida, Edward. Ma Edward né mangiava né beveva né volava né gridava. Contorto nella solitudine e nella mancanza di appetiti, Edward moriva. Notte dopo giorno, ora dopo ora, un minuto dopo l’altro. Guardavo la sua magia più intima, il suo lento andarsene.
So per certo che Lui, il mio pazzo interrogante, è il merlo Edward. Lui, e molti altri prima di lui e chissà quanti altri ancora a venire. Perché esiste una regione, nell’esistenza di ciascuno di noi, in cui vita e morte si toccano fino a coincidere del tutto, e una volta che vi hai messo piede, anche solo per un momento, non puoi mai più uscirne del tutto. Un mondo parallelo che si ribalta senza preavviso su quello che definiamo reale, fino a confondersi del tutto. E quando ciò accade, Lui, Lui-merlo, trova modo e forma di perseguire quel nostro antico e sfortunato incontro. Mi costa molto ammetterlo, tutto questo ferisce il mio gnosticismo materico, la mia buona fede quantistica. Ma ho più che la semplice impressione che sia così.
L’altro disgraziato lascito di quegli anni, che hanno segnato poi un lungo periodo della mia vita (davvero concluso?) che chiamo “Essere solo”, è stato un disprezzo invalicabile per il mondo, una scontrosa noncuranza verso gli altri, un disgusto per le pochezze e la mediocrità del vivere che proprio quel film, Edward mani di forbice, ha innescato nella mia consapevolezza psicologica del mondo.
Provo, di nuovo e mio malgrado, a raccontare il perché, addentrandomi nella pellicola.
Dunque, entriamo.
Siamo in un sobborgo americano, anni cinquanta. Occorre immaginarlo come una provincia dell’inferno progettata da ingegneri serafini, un girone infernale prefabbricato seguendo lo stile dell’Eden. Il cielo è sempre azzurrino, reso appena interessante da qualche grossa nube passeggera. Le giornate sono buone, non c’è caldo e non c’è freddo, nessuna ragione per lamentarsi del meteo: si sta bene. Le strade sono ampie e contornate da villette a schiera, tutte vivacemente colorate, tutte di un solo piano. Un generico suburb pianeggiante, che lo scenografo Bo Welch ha reso, sue parole, «il più banale possibile dipingendo tutte le case in un colore pastello sbiadito, e riducendo le dimensioni delle finestre per farlo sembrare un po’ più paranoico». Nessuna linea verticale è contemplata, l’orizzonte è piatto e strisciante, non inizia e non finisce, eppure (o per questo) inietta a chi lo guarda dall’alto un sentimento claustrofobico.
L’unico punto di fuga verso l’alto è rappresentato dall’unica architettura diversa, un castello gotico esageratamente ingombrante rispetto al panorama, funesto eppure invisibile, che si staglia sull’unica montagna della città ed è l’unico luogo dove nessuno ha intenzione di andare per nessun motivo. In quanto presenza inquietante, è bene starne alla larga, si pensa infatti sia infestato da fantasmi. Meglio ancora, è bene vivere come se non ci fosse. La banalità del bene non porta infatti a esorcizzare il male, o ciò che ci sembrerebbe tale, ma a obliarlo, a vivere senza. A vivere, dunque, in maniera pienamente diabolica: a questo livello simbolico dell’universo (che è quello dualistico del favoloso, bene vs male, buoni vs cattivi, eroi vs antieroi e via dicendo), la negazione del male non è un valore positivo: soffoca il bene, lo ridicolizza, lo svuota. Lo porta alla depressione, atmosferica e umorale. La mancanza del male è un male esteso, onnipresente e ancora più maligno. (Il rovescio, che ben conosciamo, è quello del “male ovunque fuori da me”, che progetta l’Aktion T4 o scrive 2083. Una dichiarazione europea d’indipendenza.)
Per recarsi in cima alla montagna, alle soglie del castello, ci vuole dunque un paladino o una paladina coraggiosa. Eccola qui: Peggy Boggs, donna di mezz’età, sinceramente sposata, madre di due figli, un maschio e una femmina, rappresentante dei prodotti Avon, azienda specializzata in cosmetici e bigiotteria. Il solito porta a porta mattutino in cerca di signore da sedurre con la sua parlantina e le costose creme alla glicerina è stato sfortunato; le Visite Avon, in una cittadina così piccola, dopo un po’ non suscitano più curiosità: nessuno ha bisogno di così tanti cosmetici quando si è già praticamente perfetti. Occorre sconfinare, farsi ulissiaci. Bisogna andare al castello, nel non esplorato, nel non ancora makeupizzato. Lo vede apparire, Peggy Boggs, forse per la prima volta, nello specchietto della macchina, mentre è intenta a sistemarsi il trucco. Lo vede e l’attraversa un lampo, mette in moto e s’invola senza pensarci, tanta è la frustrazione dei soldi persi, lungo la tortuosa salita alberata – altra immediata contrapposizione: la natura romantica e selvaggia che percorre la salita verso il castello di contro ai praticelli rasi che incorniciano le villette a schiera della città; davvero semplice.
Questo sappiamo finora di Peggy Boggs: Peggy Boggs è tenace, è sicura di sé (non avrebbe motivo per non esserlo, da queste parti non c’è ragione per non essere sicuri di sé). È tenace, sicura di sé e indossa un cappellino Sun Purple, un paio di occhiali Sun Purple, un tailleur Sun Purple, entra nel castello grigio cenere dove non va mai nessuno con in mano la sua valigetta blu e sale la ripida rampa di scale all’ingresso congratulandosi con se stessa per aver seguito un ottimo corso di aerobica, il quale le consente ora un’arrampicata agevole e senza affanno.
A questo punto, si desidererebbe pensare, la donna in Sun Purple nella casa infestata deve fare una brutta fine, deve accadere qualcosa di spiacevole. È ciò che ci aspetteremmo, che auspicheremmo, almeno io. Purtroppo, ciò non accade. Arrivata al termine della rampa c’è una soffitta il cui solaio ha ceduto, si intravede il cielo tra i filacci di un tetto aperto. Peggy Boggs si guarda intorno, curiosa tra le pareti, e proprio quando crede che non ci sia nessuno, o almeno nessuno di visibile come ha sentito magari raccontare talvolta dai vicini, ecco che appare Edward, rannicchiato sotto la tettoia, sagoma nera nel nero, topo che gratta il muro con la schiena, e che come gli insetti in soffitta vuole insieme apparire e sparire sulla mano dell’incauto visitatore, salire e scendere dalla sua ragnatela interiore. È un bambino nascosto dietro il mobile della propria casa quando mamma e papà non ci sono ed entra un ladro. E in quanto tale, in quanto bambino che vede attaccata la propria cameretta da uno sconosciuto, o una vespa che sente qualcosa farsi strada vicino al suo alveare sotto il tetto, può accadere di tutto. Può gridare, può fuggire, può pungere, può impugnare un coltello da découpage. Può scappare o può uccidere. Edward non si decide né per l’una né per l’altra strategia: puramente, si rivela. Si alza e cammina con andamento goffo verso un cono di luce. Si lascia illuminare per lo sconosciuto. Si espone alla luce del ladro.
Peggy Boggs, nel vederlo, vive un piccolo momento di terrore; nota che c’è qualcosa di imprevisto, forse di pernicioso nella sagoma che avanza. Inizia ad arretrare, tasta l’aria con la mano, cerca un appoggio, si sforza di recuperare un senso dell’orientamento annacquato dalla comparsa della strana figura. Che è strana per davvero, aberrante e atroce. Riesce a inquadrarne meglio il viso. Viso pallidissimo, ingrigito, emoglobinico, cianotico. Viso scucito, mostra delle deturpazioni sulle guance, sulle labbra. Ha capelli ispidi e corvini, lucidi e umidi di sebo.
Un vero mostro. Oppure no. Guarda meglio… No, non un mostro. Bensì, si compiace Peggy Boggs raddrizzando la schiena e sbriciolando un sorriso d’attacco, un possibile cliente.
Ecco. Qui si gioca, a mio avviso, un tema fondamentale della pellicola, e per quanto mi riguarda il più importante. La vera banalità del bene, che in quanto tale è benzodiazepinica e autoriflettente. Laddove infatti chiunque, in un mondo in salute, avrebbe colto nell’orrore di Edward un indizio pericoloso, Peggy Boggs intravede un’opportunità lavorativa.
Il corpo di Edward è, nel suo sfacelo, un colloquio di lavoro, un’occasione di carriera.
Edward ci appare subito, al primo sguardo, come uno strano crossover dell’immaginazione. Quel poco che sappiamo della sua storia l’abbiamo appreso nelle battute iniziali del film, quando un’anziana donna riporta alla nipote la triste narrazione di un esperimento finito male. Anzi, non finito affatto, è qui il problema. Edward è infatti il prodotto laboratoriale di un inventore, che però è venuto a mancare prima di poter terminare la sua opera. Un Viktor Frankenstein altrettanto eccentrico, altrettanto puro nelle intenzioni, ma ancora più sfortunato: un infarto lo ha stroncato quando l’ultimo pezzo mancante del suo mostro era pronto, ma non ha fatto in tempo a montarlo. Edward però, a differenza della Creatura di Frankenstein, è un giocattolo del tutto nuovo. Ogni ingrediente che lo compone è originale, non ci sono pezzi di scarto, raffazzonati lavori di carrozzeria, tutto è costruito su misura per lui. Eppure la sensazione, nel guardarlo, è quella di un involucro vuoto, perché di fatto del suo interno non sappiamo nulla, non abbiamo visto nulla: è un corpo totalmente superficiale, così ci si presenta, tenuto insieme da un costume in lattice borchiato – che prelude a un insoddisfacente rapporto bondage, ma che ancor più richiama alla mente un archetipo rock à la Robert Smith o, per flashforward, à la Cheyenne di This Must Be the Place di Paolo Sorrentino –, la cui superficialità ne fa, di fatto, un corpo profondissimo. Profondissimo in quanto ignoto, in quanto segreto.
Edward rientra, in modo fin troppo evidente, in quel filone di entità mostruose come la Creatura, e ne assume durante il film tutte le posture: è un avveniristico Re Porco di Giovanni Francesco Straparola quando nasce, malsano figlio di un uomo e di una macchina; è il Fantasma dell’Opera di Gaston Leroux quando infesta il suo castello; è Petrus Gonsalvus quando va in città e desta negli abitanti, in egual modo, biasimo e curiosità; è la Bête di Madame de Villeneuve quando si innamora di Kim, la figlia di Peggy Boggs; e via dicendo, sfogliando tutto il bestiario. In una cosa però soprattutto Edward è diverso: lui è la bestia del suo tempo, è l’ultimo stadio evolutivo, l’algoritmo più aggiornato del mondo in cui si ritrova a vivere il suo creatore (Tim Burton stavolta). Non solo nelle caratteristiche scontate, ovviamente. Non per la sua aria sciupata e narcotizzata, il viso post punk o l’espressione new wave anni novanta. La vera differenza è un’altra. Mentre i suoi predecessori hanno tutti alle spalle una vita (o più d’una addirittura) da vendicare o redimere, Edward è un congegno vacuo; non ha conflitti da risolvere, ma una sola e impertinente domanda: Chi sarò io? Attenzione: non Chi sono. Chi sono è la domanda del mostro di Frankenstein, o della bestia di Villeneuve. Chi sono è una domanda opportunistica, tutta al presente. La Creatura ha bisogno di una risposta sul presente infatti, necessita di decifrare quel cruciverba interiore – fatto del cuore di un altro, il polmone di un altro, il cervello di un altro, il membro di un altro – che appare come un fatto immediato. Voglio venire a capo, pensa la Creatura, della molteplicità illegale e ingiusta che al momento sono. Che prima non ero. È una domanda che conosciamo tutti molto bene, dopotutto, una domanda dal gusto spesso retorico, allusivo, illusorio – è il grande inganno dell’Io sono –, che talvolta nasce o si tramuta in patologia: la Creatura, soprattutto all’inizio, interpreta una cartella clinica quasi prossima al Disturbo dissociativo di identità, tante sono le personalità che lo abitano. Edward invece non ha personalità da esibire. La sua domanda non nasce da alcuna crisi esperienziale, in corso o pregressa, ma da un’originaria, assoluta e piuttosto inconsapevole ignoranza. Il suo tarlo non può essere Chi sono, non ha alcun presente da vandalizzare. Ma, Chi sarò? Chi riempirà questo costume in lattice al momento disabitato? Questo edificio grande, troppo grande, il cui architetto ha dimenticato di comunicare al mondo? Edificio creato a insaputa di tutti, inutile palazzo nel deserto. Non lo sa proprio, non l’ha mai saputo. Colui che stava per mostrargli l’ultima pagina di questo stralunato manuale d’esistenza è venuto a mancare. Non è nella condizione di scegliere, Edward, non conosce proprio scelta. È un semplice atomo, e in quanto tale è vuoto per il 99,9 percento. Lo 0,01 che rimane non si dilata tra nucleo ed elettroni, ma è nient’altro che la sua sagoma superficiale.
Questa mancanza di presente in Edward ha, chiaramente, un correlativo oggettivo facilmente intuibile, a guardarlo: non ha le mani; al loro posto l’inventore ha messo delle affilate quanto provvisorie forbici, del tutto metalliche e del tutto prive di valori semantici. Sono un tappabuchi del grande vuoto, e nulla più. Fanno di lui non un uomo ma un’altra macchina del laboratorio. Nella fattispecie, la macchina per tagliare.
È quanto mai banale dire che la trama, l’unica vera trama del film, sia esattamente l’avventurosa storia delle non-mani di Edward. Ma a pensarci bene, non è affatto banale, non per la ragione che ci interessa, e che non è quella superficialmente favolistica del mostro vs i normodotati, o dei cattivi contro i buoni, o dei classisti vs gli emarginati (che nel film, in quanto fiaba, hanno connotati iperbolici: gli stupidi sono stupidissimi, la bella è bellissima, il cattivo è cattivissimo e via dicendo).
È Peggy Boggs a illuminarci, di nuovo. Se il viso tumefatto e piccionesco di Edward è un colloquio di lavoro, quelle mani inverosimili valgono direttamente una promozione. Di guance strappate, dopotutto, se ne vedono spesso in giro, basta una cremina ai semi di colza, all’olio di palma, di soia o di cocco. Le mani di forbice di Edward sono invece un esperimento, richiedono una ricetta nuova, e Peggy Boggs la troverà, sarà la regina dei cosmetici Avon. Da qui in poi il protagonista non è Edward, ma le mani di forbice, ovviamente.
Peggy Boggs decide di portarlo in città. Edward la segue fino a casa, goffo, tremebondo. Si aggira tra le villette come Cristo, con le braccia aperte. E il suo è anche nella postura, nei movimenti, il corpo di Cristo: corpo ferito da ferire, corpo offeso da offendere. È l’offerta al mondo, l’agnello da cucinare, da gustare con dissolutezza, è un invito a una festa psichedelica, alla crapula, aperitivo arcigno su cui gozzovigliare. (Dunque, è proprio il corpo Cristo.) La reazione degli abitanti-di-sotto è banale: curiosità, maldicenza, pregiudizio. Un cocktail classico di esercizi provinciali. Edward è un pettegolezzo, una diceria di quartiere, l’argomento del tè pomeridiano. Quando da diceria si trasforma in fatto, (quasi) ogni contatto con lui avviene nello spazio siderale e fantasioso delle sue mani, la sua mancanza da riempire, il suo Chi sarò. (Che l’organo mancante siano le mani e non, per esempio, le gambe, le orecchie o il pene, non è affatto indifferente. Le mani sono l’attrezzo del fare, del fabbricare, del costruire: dunque, in questa periferia color pastello, è necessario averne almeno un paio. Si può vivere senza poter camminare, senza ascoltare e persino senza ingravidare il mondo. Ma non senza armeggiare qualcosa, che sia un bisturi o la tazzina del caffè.) Ecco allora che nessuno resiste a riempire quel Chi sarò con il proprio Chi sono; ognuno, come Peggy Boggs, inizia ad affibbiare a quelle non-mani incapacitamente vuote la sua idea preconfezionata, la sua ossessione tascabile. Per Bill Boggs, maldestro pollice verde e marito di Peggy, sono un incredibile strumento da giardinaggio. Per le donne del quartiere sono forbici da parrucchiere per le loro inedite acconciature. Per Joyce Monroe, vicina di casa snob e ninfomane dei Boggs, sono un dildo sadomaso. Per Jim, nerboruto e possessivo fidanzato di Kim Boggs, sono un piede di porco per commettere un reato (più subdolamente, per incastrare Edward e farlo arrestare). Le mani di Edward sono tutto fuorché sue: sono il ricettacolo dei desideri, davvero sciocchi e piccolissimi, insignificanti, degli altri. La banalità del bene, d’altronde, è proprio l’incomprensione della profondità dell’altro. Dell’impossibile. Del mancante. Chi ha avuto il destino di nascere, e crescere, in una provincia, e in un certo tipo di provincia – come lo è quella di Tim Burton, e come credo sia stata in parte anche la mia – sa probabilmente più di altri cosa vuol dire. Si ha a che fare con questa banalità del bene dal mattino alla sera: è ovunque, quasi sempre è chiunque. Il vicino di casa. Il barbiere. Il compagno di scuola. Il compagno di giochi. Il barista. Il parcheggiatore. L’insegnante. Se non te ne sei mai accorto sei anche tu. Si è fortunati se non lo è il padre o la madre (io mi sento molto fortunato). Le mie mani di forbice, per esempio, erano già nella prima adolescenza la scrittura, la poesia, che il piccolo mondo intorno traduceva nei propri giochi: scrivimi una filastrocca di Natale, un verso da attaccare al mazzo di rose, un biglietto d’auguri. Fai della tua mancanza il mio piccolo, squallido sogno meschino.
E non è un caso che, mentre Edward si aggira per strada, una donna dai capelli rossi, Esmeralda, in un interno clamorosamente diverso dagli altri, con le pareti color porpora, invaso da ceri, immagini sacre e crocifissi, vedendolo sobbalza: «È il diavolo!». Sì, Edward è certamente il diavolo all’inferno: è l’appetitosa tentazione, l’irresistibile voglia di se stessi. La possibilità di tramutare qualcosa di straordinario in qualcosa di ripugnantemente sciocco. E dunque Esmeralda, unica fanatica religiosa nei paraggi, in questo gioco dei contrari non è il tristo ambasciatore. È la tromba squillante.
L’unica che non affibbia pruriti interiori alle mani di forbice di Edward è la bellissima e bionda Kim Boggs. Kim vive una catena di reazioni comprensibilissime davanti a Edward: prima ne è spaventata, poi lo compatisce, infine se ne innamora. Un ordine naturale, corretto, quasi risibilmente semplice. L’esperienza più lineare del mondo, avere paura di qualcuno, poi comprenderlo fino ad averne misericordia, e quindi per forza di cose volergli bene, per forza di cose amarlo: è esattamente la Bella di Madame de Villeneuve. Non guarda solo al di là della palese bruttezza di Edward, la sua purezza non consiste nel superare l’immondezza che gli si para davanti. È, invece, un senso di difesa e parsimonia dell’incredibilità dell’altro, nei confronti della quale non è spinta a investire i propri desideri, ma a dissiparli, a farli andare via. Kim libera il merlo dalla sua gabbia, dalla scena del suo prestidigitismo forzato, dal circo delle paranoie altrui. E il merlo torna al suo castello, al suo interminabile e irrisolvibile, per fortuna, Chi sarò.
Far morire il merlo nella sua gabbia significa, infatti, condannarsi alla persecuzione del suo fantasma.
«Vivere o morire?»
Tornare a casa, ovunque essa sia da un lato o l’altro della domanda.
La rubrica Nel buio – Un film, un poeta ha già ospitato gli interventi di Umberto Fiori su Orson Welles, Vincenzo Frungillo su Werner Herzog e Ida Travi su Jean-Luc Godard.