Francesco Cappellani è nato nel 1935, laureato in fisica all’Università di Torino nel febbraio 1958, ha iniziato l’attività di ricercatore a Milano al CNEN (Centro Nazionale Energia Nucleare) e poi al costruendo Centro di Ricerca a Ispra (VA). Dal 1961, con l’acquisizione del Centro da parte della Unione Europea, ha lavorato per anni nel dipartimento di fisica nucleare e poi nel dipartimento Environment sulla spettrometria molecolare per studi di inquinanti atmosferici. Nel 1967 ha conseguito la Libera Docenza in Radioattività, insegnando poi all’Istituto di Fisica dell’Università di Milano per alcuni anni. Nella sua ricerca ha prodotto circa 90 pubblicazioni scientifiche e, dal 2000, anno del pensionamento, circa 70 articoli divulgativi di scienza e sulla seconda guerra mondiale, che ha vissuto nell’infanzia come esperienza indelebile.
Vi lasciamo con questo suo racconto, che partendo dal dato autobiografico, incrocia con arguzia argomenti scientifici, avvenimenti storici – come lo sgancio della bomba atomica – e la poesia nel suo senso più assoluto, come un incontro che allontana l’indifferenza.
Francesco Ottonello
Nel 1962 mi trovavo negli Stati Uniti in visita al centro di ricerca nucleare di Oak Ridge nel Tennessee. A sera, alla fine del giro dei laboratori e delle relative discussioni, volendo fare quattro passi, mi ritrovai nell’esteso paese anonimo e triste vicino al centro atomico, dove l’unica parvenza di vita si manifestava all’intorno di una grande piazza circolare dove si affacciavano case, negozi e qualche sparuto locale di ritrovo.
Tornai rapidamente in albergo, un motel malandato e impersonale come tutto il resto, e, dopo un vano tentativo di appassionarmi ad un incontro di baseball in televisione, ripiegai su un comodissimo letto king size di una piazza e mezzo abbondante. Come d’abitudine, aprii il cassetto del comodino per cercare qualche foglio di carta da scrivere.
C’era la solita Bibbia, praticamente intonsa, segno che i clienti dell’hotel avevano altro da pensare o, meglio, da fare, la sera, oppure che la conoscessero già integralmente. Accanto c’era un libretto sgualcito dal titolo Selected Poems col nome dell’autrice, Emily Dickinson.
Non conoscevo Emily Dickinson per cui mi misi a leggere qualche riga con diffidenza e scarso entusiasmo temendo che si trattasse di una di quei poeti che scaricano su dei versi, sovente melensi e banali, i loro amori impossibili o il loro sentimentalismo, a maggior ragione trattandosi, come avevo letto nel risvolto di copertina, di una poetessa di metà ’800.
Oak Ridge era nata praticamente nel 1942, quando la zona era stata scelta dal Governo Federale nel quadro del progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica. Nei suoi laboratori si doveva realizzare la separazione, con tecniche elettromagnetiche, dell’uranio 235 dall’uranio naturale composto quasi totalmente da uranio 238.
L’uranio 235 era il materiale fissile che con un opportuno innesco dava luogo alla reazione di fissione nucleare a catena ed alla conseguente esplosione della bomba con uno sviluppo enorme di energia fino ad allora impensabile. Mi raccontarono che durante la costruzione dei giganteschi magneti separatori si verificò che il rame che serviva per gli avvolgimenti dei magneti non era sufficiente e non ve ne era disponibilità nell’immediato. Furono chieste allora ed ottenute prontamente in prestito dal Ministero del Tesoro degli Stati Uniti, quasi 15.000 tonnellate di argento in lingotti! L’argento è un eccellente conduttore elettrico per cui non ci furono interruzioni nella messa in opera del sistema.
Fu necessario costruire una cittadina per alloggiare tutto il personale che operava nei laboratori, e le rispettive famiglie. Al culmine del progetto Manhattan, cioè negli ultimi anni del conflitto, Oak Ridge contava circa settantamila abitanti, rispetto alle poche migliaia di prima della guerra. Tutto il centro di ricerca era circondato da una fitta cancellata e, negli anni di guerra, off limits, sorvegliato giorno e notte, in quanto gli studi e gli esperimenti che vi venivano condotti dovevano restare rigorosamente segreti.
Ricordo che la prima lirica che lessi, aiutandomi con un vocabolarietto tascabile, fu la seguente, datata 1863, qui riportata nella traduzione di Margherita Guidacci (1):
«Come se il mare separandosi
Svelasse un altro mare,
Questo un altro, ed i tre
Solo il presagio fossero
D’un infinito di mari
Non visitati da riva –
Il mare stesso al mare fosse riva –
Questo è l’eternità».
Fui sbalordito dalla modernità del contenuto e della scrittura di un testo di cento anni prima. Non aveva alcuna parentela con la lirica femminile di metà Ottocento, era già poesia del Novecento, ma forse non era neanche questo, era “Poesia” e basta, qualcosa di assoluto.
Fui ancora più stupito quando seppi, tornato in Italia, che Emily Dickinson aveva vissuto in una cittadina del Massachussets, volontariamente segregata nella casa paterna, con una educazione di rigida impostazione puritana senza contatti, se non forse libreschi, con i movimenti letterari europei. Lessi fino a tarda notte provando un coinvolgimento sempre più intenso e, alla fine, una fascinazione per questa poetessa che ha finito per irrorare tutta la mia vita.
L’indomani, in mensa, ne parlai con i vari colleghi americani ma mi accorsi che non ne conoscevano neanche il nome. Un veterano del progetto Manhattan, che aveva lavorato a Los Alamos, il principale centro di ricerca per la progettazione e costruzione della bomba atomica, mi disse sorridendo che l’unica persona che mi avrebbe potuto illuminare su tutto, e quindi anche su Emily, era il fisico Robert Oppenheimer, il direttore del progetto, notissimo anche per la sua sterminata cultura.
Di famiglia ebrea tedesca ma nato negli Stati Uniti da madre americana, Oppenheimer, dopo gli studi ad Harvard, era venuto in Europa, prima a Cambridge e poi, nel 1926, a Gottinga dove conseguì a ventitré anni il dottorato e si trovò in stretto contatto con i maggiori fisici dell’epoca, quelli che stavano rivoluzionando definitivamente la cosiddetta “fisica classica”. Dopo un periodo al Politecnico di Zurigo, tornò negli U.S.A nel 1929 come professore all’università di Berkeley ed al Caltech (California Institute of Technology) a Pasadena. Nel 1942 verrà poi chiamato come direttore scientifico del progetto Manhattan.
Nelle parole del fisico italiano Emilio Segré, premio Nobel nel 1959, che lo aveva conosciuto bene, Oppenheimer «era stato tra i primi ad introdurre la meccanica quantistica in America ed aveva fondato una fiorente scuola di fisica teorica da cui uscirono non pochi dei migliori fisici teorici americani. Si interessava di molte altre cose oltre che della fisica: filosofia, letteratura, conosceva più o meno bene varie lingue tra cui il sanscrito» (2). Proprio la conoscenza e la passione per le religioni orientali gli fecero venire in mente, come raccontò in seguito, alcuni versetti della Bhagavad-Gita, il poema sacro degli Hindu, alla vista dell’immane esplosione e della luce accecante sprigionatasi durante il test Trinity della prima bomba atomica ad Alamogordo, nel deserto di Jornada del Muerto nel New Mexico, il 16 Luglio del 1945, venti giorni prima del lancio di Little Boy su Hiroshima: «Se la luce di mille soli divampasse nel cielo, sarebbe come lo splendore dell’Onnipotente» ed ancora «Io sono diventato Morte, il frantumatore dei mondi».
A queste parole terribili e minacciose, che le circa settantamila vittime di Hiroshima morte sul colpo testimoniarono tragicamente profetiche col loro sacrificio (per gli effetti delle ferite e delle radiazioni ne moriranno altre sessantamila entro l’anno), credo sia consolante accostare la visione aggraziata e quasi seduttiva della morte in una delle più celebri poesie di Emily Dickinson nella traduzione di Silvio Raffo (3):
Poiché io non potevo fermarmi per la Morte
Lei gentilmente si fermò per me.
La carrozza bastava a contenere
Noi due soltanto – e l’immortalità.
Piano andavamo – non aveva fretta
ed io avevo tralasciato
il mio Lavoro ed anche il mio riposo
per la Sua Cortesia –
Passammo oltre la scuola, dove bimbi
Giocavano in Cortile a Ricreazione –
Passammo i campi d’Occhieggiante Grano,
e passammo oltre il sole che moriva –
o piuttosto fu lui ad oltrepassarci –
le Rugiade tremavano di freddo,
di sola Garza era la mia Gonna,
la mia Mantellina – di tulle –
E ci fermammo dinanzi a una Casa
Che assomigliava a un’Onda della Terra –
Il Tetto si vedeva a malapena –
Per Cornicione solo poche zolle –
Da allora sono Secoli, ma sembrano
più brevi di quel Giorno in cui mi accorsi
– in un attimo – che all’Eternità
Le Teste dei Cavalli eran protese
(1) Emily Dickinson, Poesie. Introduzione, traduzione e note di Margherita Guidacci, BUR 1979
(2) Emilio Segré, Enrico Fermi, fisico, Zanichelli 1970