L’auspicio di Figura di Fabio Orecchini (Oèdipus, 2019) è di imparare «ad abitare questo altrove che ci abita», come recita il risvolto di copertina. Dietro la Figura c’è Alcesti, l’eroina greca che sacrifica la propria vita per salvare quella del marito Admeto, salvo poi essere riportata indietro, trasfigurata in forma fantasmatica per tre giorni (anche se il dramma si chiude prima, quindi non è dato sapere), da Eracle nel ruolo di deus ex machina.
Se Dismissioni (Polimata, 2010) e Per os (Sigismundus, 2017) scaturivano da indagini di situazioni sociali (l’industria pesante, il terremoto dell’Aquila), Figura è indagine esistenziale sulla vita e sulla morte. D’altro canto Alcesti potrebbe essere l’emblema del lavoro di Fabio Orecchini, della transmedialità insita nella sua concezione di poesia, ossia l’abbandono dell’istituto verbale, della parola, per intercettare la potenza incarnatrice della voce, del teatro e della performance: una sublimazione del corpo (testuale) che si fa figurazione del corpo poetico.
Il personaggio di Alcesti è presenza che non prende forma, un calco che rimane vuoto perché deve universalizzare la ricerca identitaria dell’uomo. Tanto che l’opera si apre con il rosselliano invito «cercatemi e fuoriuscite», a patto di accettare il dolore per la presa di coscienza della condizione umana: la necessità del sacrificio e l’irrisolvibilità di un enigma edipico – l’essere pendente sviscerato dalla quarta sezione che si apre con una «astensione / dal respiro» e si chiude con la voce che «detenga detenuta | diurno il regno dell’ombra», lontano da ogni risoluzione o svelamento.
La tanatomorfosi della prima sezione, aperta con il fiabesco distico novenario-endecasillabo «“…tre giorni al confino Alcestina / tre giorni e tutto torna come prima..”», è la nekyia per invocare la figura di Alcesti che vive lo spossessamento del corpo, il distacco dalla vita materiale. Si compie la discesa agli inferi, ma non si tratta di un viaggio fisico, bensì di uno scarto prospettico («muove a lato») che permette uno sguardo nuovo sulla realtà.
Il corpo muove a lato
disabilitato, la testa cade sulla destra precipita dal collo
- non resta - che un’ombra percepita - anch’essa si frantuma -
mi chiedi d’essere di tornare
in vita, spunta dal collo un’altra testa senza vita
Questo corpo-non-più-corpo anima il testo oscillando tra il calembour e la sentenziosità cinica della sua voce, certa nella sua incertezza, che racchiude in sé il nucleo magmatico del dilemma esistenziale. Del resto, perso il corpo, Alcesti vive nella voce. Già per il personaggio di Savinio e per quello raboniano, la voce è il vero medium identitario; qui, dove l’eroina non può incarnarsi nel dramma e il linguaggio è il solo strumento a disposizione, dire è l’unica possibilità di affermare (e rappresentare) la propria e l’altrui identità.
La dramatis persona, da una parte, e la Weltanschauung della costruzione linguistica, dall’altra. Tutta Figura converge alla costruzione di un posto da abitare innanzitutto linguisticamente. È il senso stesso del fare poetico (poiesis) che muove dalla lingua per costruire il mondo e imparare ad abitarlo. Seguendo il monito di Heidegger (Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire), la testualità di Fabio Orecchini ruota intorno a uno straniamento che disvela i processi con cui la realtà si manifesta, all’alterità del luogo da raggiungere per provare ad afferrare una mica di senso – o meglio di significazione, che il senso oggi precipita nell’abisso «fra identità e rappresentazione, tra moltiplicazione dell’io e crisi della presenza». Il legame tra tessitura linguistica e costruzione – e comprensione – del mondo è dunque indissolubile.
La nominazione viene a essere simulacro di identità («dire l’altro», «un io / residuo»): Alcesti, infatti, non è personaggio, ma allegoria della condizione umana.
Le voci plateali
a fare peso, dove tutto è solo forma già compiuta nelle
pause dire l’altro sommessamente adire abito un nome
non un corpo o ancora un filo che attraversa un io
residuo uni-sonante come un silenzio elettrico
uno sparo, siamo deserti fertili di bombe
Ma proprio ricollegando quest’opera all’habitus di Orecchini, possiamo affermare che l’Alcesti mette in discussione il valore del reale percepito, in favore di una realtà che necessita di essere compresa oltre la sua rappresentazione quotidiana. È il sacrificio evitato, o compiuto fino alla liberazione – come per Ifigenia o Cristo. Il valore della parola poetica è testimonianza della responsabilità di cui l’uomo deve farsi carico. Tanto che l’opera si struttura come un processo che rimane aperto, con la deposizione di Admeto nella terza sezione e la vertenza a chiusura del libro.
Lo stasimo della seconda sezione insiste e rovescia la prospettiva dell’indagine alcestiana. Il riferimento al coro greco è un’allusione alla volontà di giudizio dell’azione del personaggio. Ma qui non c’è personaggio e, a ben vedere, non c’è neanche azione. Il coro non tenta di chiarificare quanto detto dalla voce nella prima sezione, al contrario rovescia la prospettiva della tanatomorfosi, riproponendo il medesimo dilemma nel processo inverso che va dalla morte alla vita. Prima, dunque, Alcesti compie il passaggio agli inferi, poi il coro osserva il ritorno dell’eroina con il disagio e l’inquietudine che chiudono il dramma euripideo. Di conseguenza l’unico giudizio del coro è un enigma dal cinismo spietato:
servi?, figli, guardie!!
o di vaghissime forme
il male è la medicina al male
non v’è medicina
Una dualità riferita alla vita e alla morte pervade l’opera, rappresenta lo sguardo dell’uomo verso il suo esistere. Il doppio si rifrange sulla costruzione del testo, poiché a essere allegorizzato nella figura di Alcesti è la testualità stessa della poesia. Doppia è la scrittura che alterna corsivi e tondi, utilizzando l’espediente sia da prisma polifonico – per passare da una voce all’altra attraverso le sezioni – sia come segnalatore metrico-sintattico intra- o interversale. Doppia, sul piano lessicale, è la scelta di costruire una tensione su concetti contrastanti: «vivere // soltanto, il tempo di morire», «cos’è che dentro nel vedere / l’esser veduti?», «la parola un silenzio intravisto». Oppure sulla negazione dell’azione espressa dal verbo: «andante senza andarsene senza / tornar tornata», «non ditele del dire», «negli occhi / che dicono non dire».
Sul doppio si concentra anche la struttura significante che oscilla tra figure di suono (spesso implicate in processazioni morfo-sintattiche del senso) e modulazioni ritmiche.
servi!? figli, guardie!
Non contamini il contagio
che disarma mani amate
disabitate membra
se rimani, or ne la casa l’anima
si rende, non rimane che il passaggio
che passi - ai domani - conta i passi
poi il disagio ché rièdere potresti
estinta lì rimane e non contaminimi
Elaborazione metrica e struttura ritmica giocano sull’ambiguità del «guasto metrico» che l’autore segnala a inizio sezione. Guasto supplito, sul piano retorico, dalle figure di suono che fungono da equivalenti nella struttura significante. All’interno dell’opera tali figure coinvolgono sia il piano fonologico, sia quello morfosintattico, e tendono alla ritrattazione di senso intorno ai due poli della tensione poetica: vita e morte, libertà e prigionia, catabasi e anabasi. Nessuna delle quali polarizza l’estremo positivo e quello negativo: l’indagine è priva di una soteriologia che possa redimere e salvare l’uomo, c’è solo la condanna alla condizione di essere già morti in vita, oppure trovare la vita solo nel sacrificio estremo (debito pagato da Orecchini al Michelstaedter de La persuasione e la rettorica).
La precisione della struttura testuale diviene supporto per la performatività insita dell’opera (tanto che potremmo parlare di “performatività scritta”). Come ho accennato all’inizio, le opere di Orecchini non si esauriscono mai sulla carta. Così fu per Dismissioni, riedito da Sossella nel 2014 con allegato il cd della performance musicale del collettivo Pane, in cui non a caso le figure di suono risultano essere i perni intorno a cui ruota l’esecuzione della voce; così fu anche per il sismografo di Per os da cui nacque l’opera installativo-performativa TerraeMotus (Premio Pagliarani 2018). Performatività che proprio in Per os sfocia nel presemantico delle lallazioni che rompono il testo e nella negazione della parola con la controparola che «è bianca / è nera e dentro è fuori / distruggere il logos».
La deposizione di Admeto, che occupa la terza sezione di Figura, rovescia il punto di vista e chiama in causa la complessità di un’opera il cui significato è incerto fin dal modello. Sconosciuta rimane infatti la destinazione del dramma euripideo: se per certi aspetti il sacrificio dell’eroina assume i tratti della tragedia, il finale lieto del ritorno dagli inferi nega di fatto questa possibilità. Tra l’altro non vi è una vera e propria tensione tragica tra la libertà della scelta e la necessità del sacrificio. Eppure anche l’idea che in origine si dovesse trattare di un dramma satiresco non farebbe quadrare i conti. La complessità nell’opera di Orecchini cresce con l’apparizione di una «controfigura» della «figura» della prima sezione. Il procedimento è simile a quello della «controparola» di Per os. Il titolo della raccolta è sviscerato nel primo componimento che funge da chiave di lettura:
al dire lontano
che fu sapersi detta, circoscritta nella forma o figura
appena pronunciata, figurante asservita alla scena
appena trascorsa -evocata- qualcuno provi a soccorrermi
a sfigurarmi
almeno, figurarsi altrove
Sono già presenti i due concetti cardine dell’opera: il dire e la figura. Il primo ha il valore di costruzione del reale («al dire lontano // che fu sapersi detta»); la seconda muove dal significato etimologico per mettere in discussione l’essere e l’essere rappresentato. Cos’è la realtà, dunque? Il mondo dei morti in cui Alcesti sprofonda, oppure il mondo dei vivi in cui fa ritorno?
La «controfigura» della terza sezione sembra alludere proprio a un ritorno al reale, contro la “figurazione” di quanto detto in precedenza da Alcesti. Così è rovesciato lo statuto dell’essere in vita, se essere in vita significa esistere, quindi essere nel reale. Ma la deposizione di Admeto funge tutta da contraltare alla prima parte del libro: vi entra anche la colpa di Admeto per aver permesso il sacrificio della moglie in cambio della sua sopravvivenza. È un attaccamento ossessivo alla vita, alla nostra rappresentazione del reale, che in questo oscillare tra figurazione e controfigurazione si fa dubbio amletico.
Ci tiene in vita il furore dei corpi penso mentre
attendo come un siero l’annuncio dello stralcio
passato in giudicato non sussiste alcun sospetto
figuriamoci un reato
o quanto meno impugnare il suo testamento
olografo su corpo, disattendere le parole che
irrivelanti
irrilevanti agli atti
trascini al tuo fianco
C’è la sicurezza arrogante dello «stralcio», ma anche l’angoscia esistenziale che affiora dalla tensione tra i due poli di Alcesti e Admeto, tra figura e controfigura. I nodi complicano la trama: torna anche per bocca di Admeto la figura in accezione proverbiale («figuriamoci») e non possiamo risolvere il rebus. Quale delle due figure porta la verità? Chi tra Alcesti e Admeto esiste davvero se esistere significa “stare fuori”, essere per l’altro? In questa tensione la pendenza dell’essere non può risolversi, ma crea uno spazio, una terra di nessuno tra (ben)essere e (mal)essere. È lo spazio che dobbiamo imparare ad abitare, la risposta a quello che Cecilia Bello definisce, in un suo recente intervento su Alfabeta2, «l’interrogativo sull’abitare, sull’abitabilità/inabitabilità del mondo».
Davide Paone
Fabio Orecchini
Fabio Orecchini è nato a Roma nel 1981. Le dinamiche bio-politiche e i processi di <
Vive a Paliano, nella campagna ciociara, lavorando come agricoltore.