Presentiamo qui due poesie da Come le rose disordinando l’aria (Passigli 2015) di Eunice Odio, a cura di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli.
RICORDO DELLA MIA INFANZIA PRIVATA
Per queste porte che si serrano, si aprono…
Sono porte che lungo l’anima colpiscono.
Non parlarmi di quelle porte, amico, non parlarmi;
perché io riconosco i loro cardini coronati d’ira,
le loro spranghe limate dal cielo,
la loro tacita insonnia nelle notti più alte,
in cui alcune volte attraversò il nostro amato
come attraverso il grido duole fino all’osso l’anima,
con tremore di pesanti membra oscure e proibite.
Sono passata ad ogni ora
per queste porte umide che si serrano, si aprono,
e ho sorriso scuotendo le spalle
nel sentire i loro fondi legnami alterati,
perché passava un bimbo corale tra le fasce
come fiumi di cigno senza bordo.
Però ricordo anche, sotto la mia infanzia,
in un segreto aprile con abitanti,
con oceani,
con alberi,
una porta d’azzurra carpenteria
dove alcune volte cominciava mia madre,
iniziavano le sue labbra,
le braccia che partivano da onde,
la sua voce in cui entrava la sera
e appena le mie due gambe che correvano
disordinando l’aria.
Adesso la ricordo
con le mie belligeranze infantili,
porte di pietre giovani,
mia madre
coi suoi passi di vitella boreale, trapassandola,
si incorporava alla settimana
cingendosi il profilo,
la treccia,
la memoria,
la cintura in maceria di colomba,
e mi cercava
tra gli abitanti di quell’aprile
con oceani,
con alberi,
ed io correvo,
correvo,
con le mie gambe di bambina
per essere trovata
con la voce
nella sera.
RECUERDO DE MI INFANCIA PRIVADA
Por esas puertas que se cierran, se abren…
Son puertas que a lo largo del alma me golpean.
No me hables de esas puertas, amigo, no me hables;
porque yo les conozco sus goznes coronados de ira,
sus barrotes limados por el cielo,
su tácito desvelo en las noches más altas,
por donde algunas veces transcurrió nuestro amado
como a través del grito duele hasta el hueso el alma,
con temblor de pesado miembro oscuro y prohibido.
Yo he pasado a toda hora
por esas puertas húmedas que se cierran, se abren,
y he reído hasta el hombro
de sentir sus profundos maderos alterados,
porque pasaba un niño coral entre pañales
como ríos de cisne sin contorno.
Pero también recuerdo, debajo de mi infancia,
en un secreto abril con habitantes,
con océanos,
con árboles,
una puerta de azul carpintería
por donde algunas veces comenzaba mi madre,
empezaban sus labios,
sus brazos que partían de las olas,
su voz en que cabía la tarde
y apenas mis dos piernas que corrían
desordenando el aire.
Ahora la recuerdo
con mis beligerancias infantiles,
puertas de piedras jóvenes,
mi madre
con sus pasos de ternera boreal, traspasándola,
se incorporaba a la semana
ciñéndose el perfil,
la trenza,
la memoria,
la cintura en escombro de paloma,
y me buscaba
entre los habitantes de ese abril
con océanos,
con árboles,
y yo corría,
corría,
con mis piernas de niña
para ser hallada
con la voz
en la tarde.
*
QUESTO È IL BOSCO
a Alfonso Chase
Questo è il bosco
e qui, un momento,
il mio cuore spia…
Vanno e vengono
i discendenti degli alberi
– occultati animali geometrici.
Ristanno nelle concave materie,
– tempie aeree,
lunghi fantasmi dalle ali sommerse.
Si spiegano,
gravitano contro l’ombra,
reali parti ascendenti
del poderoso e abitante ossigeno.
Questo è il bosco distaccato
e qui, in una forma di sete,
metto il mio cuore a riposare,
ad arretrare,
un pensamento di foglie che fu mio.
Qui, sopra la tempestosa apparenza
di una campana lanciata sopra l’erba.
Questo è il bosco
e qui il mio cuore, snodandosi,
solo sembra un rumore,
un’allegria che si deviò da dentro
e si smarrì incessantemente
e non può ritrovarsi,
o nemmeno somigliare a se stessa.
Qui il mio cuore
– questo è il bosco –
riposa celebrando la partenza.
Se ne va, andrà presto in cammino,
come dopo, come prima,
come se «sempre andare» fosse il suo pronome.
Parte verso ieri,
verso il giorno di un anno che nessuno vide crescere
perché si divorò,
perché mangiò la sua stessa sostanza.
Va oggi, andò prima,
sempre andrà in cammino
abbandonando deserti,
spine,
ossa alacri,
la locanda che sembrava la misura del mondo
e solo era
uno specchio fiammeggiante.
Se ne va, andrà, sempre è partito,
abbandonando strade invincibili,
mesi disabitati,
case serrate per il tempo verde.
Andrà, partì,
facendo compagnia
a tutto quello che contiene l’aria
di frontiere diffuse
e spume prolungate fino al canto;
facendo compagnia
a tutto ciò che vive
portato dallo spazio
e abbandonato dai frutti del mare, del sole,
del vento;
da ciò che dà la Terra
girando sulla sua estasi;
da ciò che non si disse mai più eternamente
che negava l’atmosfera.
Andiamo, àlzati,
è ora di partire.
Ma dove andiamo, compagno, senza nulla al sole?
Andiamo alla sacrale forma
che mai non dorme;
all’affaticato aroma solitario, al suo sangue
che solo sale al vento per un colpo,
logorando ciò che tocca nel suo transito.
Andiamo al gran torrente che immagina
ciò che palpiamo
e non vediamo,
accecati dal suo tatto illuminato,
dal suo annegato luccicore.
Andiamo al luogo della tempia, al passar delle ossa
perfette, spopolate, scorticate.
Andiamo ai nostri giorni nel segreto;
alla pelle che occultamente passa per mani
atmosferiche,
per i tatti elevati a potenza.
Ho freddo. Abbiamo.
Non dovevamo uscire per essere scrutati
e considerati degli altri;
e lacerati
e spartiti
come l’albero che siamo,
che ci sogna.
Camminiamo.
Entriamo
per non uscire mai più
per compiere il nostro obbligo di palpitare,
di singhiozzare,
di morire
nella sola compagnia
dell’ultima di queste ossa
che udì chiamare la Terra.
ESTE ES EL BOSQUE
a Alfonso Chase
Este es el bosque
y aquí, un momento,
mi corazón espía…
Van y vienen
los descendientes de los árboles
– escondidos animales geométricos.
Se meten en su cóncavas materias
– sienes aéreas,
largos fantasmas de alas sumergidas.
Se despliegan,
gravitan contra la sombra,
ciertas partes ascendentes
del poderoso y habitante oxígenos.
Este es el bosque desprendido
y aquí, en esta forma de sed,
pongo mi corazón a descansar,
a desandar,
un pensamiento de hojas que fue mío.
Aquí, sobre la tempestuosa apariencia
de una campana lanzada por la hierba.
Este es el bosque
y aquí mi corazón, desanudándose,
sólo es un ruido,
una alegría que se desvió por dentro
y se perdió incesantemente
y no puede encontrarse,
o siquiera parecerse a sí misma.
Aquí mi corazón
– este es el bosque –
reposa celebrando su partida.
Se va, irá pronto en camino,
como después, como antes,
como si «siempre irse» fuera su pronombre.
Parte hacia ayer,
hacia el día de un año que nadie vio crecer
porque se devoró,
porque comió de su propia substancia.
Va hoy, fue antes,
irá siempre en camino
abandonando páramos,
espinas,
huesos activos,
la posada que parecía del tamaño del mundo
y solo era
un espejo flamígero.
Se va, se irá, siempre se ha ido,
abandonando calles invencibles,
meses deshabitados,
casas cerradas por el tiempo verde.
Se irá, se fue,
haciendo compañía
a todo aquello que contiene el aire
de fronteras difusas
y espumas prolongadas hasta el canto;
haciendo compañía
a todo lo que vive
llevado por el espacio
y abandonado por los frutos del mar, del sol,
del viento;
por lo que da la Tierra
girando sobre su éxtasis;
por lo que no se dijo jamás eternamente
que negaba la atmósfera.
Vamos, levántate,
es hora de partir.
¿A dónde vamos, compañero, sin nada al sol?
Vamos a la sagrada forma
que no duerme jamás;
al atareado aroma solitario, a la sangre
que sólo sale al viento por un golpe,
desgastando lo que toca en su tránsito.
Vamos al gran torrente que imagina
lo que palpamos
y no vemos,
cegados por su tacto iluminado
y su anegado resplandor.
Vamos al sitio de la sien, al pasar de los huesos
perfectos, despoblados, desollados.
Vamos a nuestros días en secreto;
a nuestra piel que ocultamente pasa por manos
atmosféricas,
por tactos elevados a potencia.
Tengo frío. Tenemos.
No debíamos salir a ser mirados
y tenidos por suyos;
y desgajados
y partidos
como el árbol que somos,
que nos sueña.
Caminemos.
Entremos
a no salir jamás:
a cumplir con nuestra obligación de latir,
de sollozar,
de morir
en la sola compañía
del último de nuestros huesos
que oyó llamar a la Tierra.
Eunice Odio
Traduzione: T. Pieragnolo
Come le rose disordando l’aria raccoglie la più ampia selezione di poesie fino ad oggi presentata in Italia di una protagonista della poesia ispanoamericana del Novecento, Eunice Odio, nata a San José di Costa Rica nel 1919 e morta a Città del Messico nel 1974. Giornalista culturale, critico d’arte, traduttrice (insegnò anche inglese e francese), la sua opera letteraria fu molto ammirata già in vita, anche da scrittori come Octavio Paz; ebbe però molti nemici, a causa soprattutto della sua fortissima vis polemica, e in particolare negli ultimi anni, ormai cittadina messicana, si trovò contro l’intera classe degli intellettuali della sinistra di quel paese che le rimproveravano la sua posizione molto critica nei confronti di Fidel Castro.
La poesia di Eunice Odio è stata oggetto di una grande riscoperta negli ultimi anni; una poesia che certamente si avvicina alle esperienze del surrealismo, introdotto in America Latina in particolare dal poeta cileno Vicente Huidobro (e che peraltro arrivò a influenzare anche il giovane Pablo Neruda), ma che qui non vuole mai allontanarsi da una radice profondamente concreta, fisica, corporea. C’è chi ha parlato, a proposito per esempio della sua raccolta del 1948 Gli elementi terrestri, di “materialismo mistico” (Loreina Santos Silva): un esito, questo, a cui non fu immune neppure la grande poesia spagnola dall’altra parte dell’Oceano – basti pensare a uno dei capolavori dell’ultima stagione di Juan Ramón Jiménez, Animale di fondo, pubblicata soltanto un anno più tardi, nel 1949. Ma l’originalità dell’opera poetica di questa scrittrice appare oggi ancora più netta ed è un tutt’uno con il suo spirito indomito e indipendente.
Come scrivono nella prefazione al volume Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitell, i poeti che hanno scelto e tradotto le poesie che compaiono in questa antologia (e che già anni fa erano stati i primi a proporre in Italia testi dell’autrice centroamericana), “per capire ancora più a fondo la poesia di Eunice Odio è necessario comprendere la solitudine che sempre accompagnò la sua vita, un senso di perdita costante che la portava a celebrare con lucidità profonda ogni aspetto dell’esistenza come ricerca estenuante dell’amore totale e terreno, come dono naturale ed unico consegnato interamente in ogni gesto e parola”.