«l’enorme espansione della memoria conseguente all’introduzione dell’informatica renderà ancora più necessaria la chiarezza nella scelta di ciò che deve essere tramandato»
R. Antonelli, C. Segre, Tempo e critica del testo. Venti domande di Roberto Antonelli a Cesare Segre,
«Critica del testo», n. 1, 1988, p. 619
La scrittura ha a che fare con la perdita dalle sue origini più remote. Una necessità pratica di non perdere i conti, di tenere un resoconto, che va insieme a una spinta intrinseca all’essere umano di infuturare la traccia, propria e altrui, di far perdurare la memoria oltre l’arco di una vita o della vita di qualche generazione. Eppure si è destinati alla sparizione o al transmembramento (parola che rubo al mio poeta-feticcio Hart Crane). Non c’è archivio che tenga: «ma rotta resta la memoria hard disk» – da un endecasillabo di Isola aperta (2020, p. 95) riprendo parte del titolo di questa riflessione. La domanda d’avvio è questa: cosa succederebbe se in futuro non ci fosse più la possibilità di accedere agli archivi digitali, o se un archivio di materiale digitale si distruggesse e non si potesse mai più riparare?
Probabilmente perderemmo la traccia di una nutrita serie di testimonianze. Certamente in un’ottica ampia, non filologica, potrebbe non importarci di ciò: perché non è forse tutta la letteratura destinata a cadere in una confusione di suoni? Eppure continuiamo non solo a riprodurci come specie, ma a riprodurre i segni di un nostro passaggio: non più con pittogrammi incisi nella roccia, ma con lettere e materiali multimediali pulsanti in uno schermo. Quanto precario? Oggi per fruire dei testi spesso si ha necessità di uno strumento che non è ‘autosufficiente’, a differenza di un supporto cartaceo, essendo un medium che ha bisogno di essere alimentato ‘energeticamente’ dall’esterno. Spesso poi questo medium è legato a una pagina ancora più precaria, sospesa sul filo: online. Ma in linea fino a quando, ancora per quanto?
Fruiamo dei testi sempre più attraverso connessioni da remoto, con molteplici rifrazioni e distanze. E la poesia con tutta la sua forza non si propaga più solo attraverso la voce viva o la pagina cartacea, ma anche attraverso i meandri dei media che mutano. Fragile e transitoria si pensava la parola dell’oralità più di quella affidata ai manoscritti e alle stampe, eppure è perdurata per secoli in alcuni casi, venendo imparata a memoria e ripetuta. Quanto è più certa la nuova parola 2.0, vincolata alla luce artificiale? In questa nuova rivoluzione dei media forse ci troviamo di fronte a un supporto paradossalmente più fragile sia della viva voce, sia della pelle di animale e delle fibre vegetali.
Spesso ho meditato sulla perdita, anche in poesia, senza mai giungere a un punto risolutivo: piuttosto espando i dubbi e le criticità. Queste riflessioni nascono però da un’occasione specifica, concreta, che ha possibilmente a che fare con quella paura egoistica di sparizione, tipica della nostra strana specie. Ricercavo infatti il primissimo scritto critico uscito su Isola aperta (Interno Poesia 2020) a cura di Massimo Del Prete, autore che non conoscevo personalmente, ma di cui avevo letto delle attente e mai superficiali recensioni a libri di poesia contemporanea. Erano uscite – ironia della sorte – per un sito chiamato Menti Sommerse.
Perché dunque non si trovava più l’articolo? A quanto ho saputo, i proprietari del sito hanno deciso di non occuparsi più di poesia, per dedicarsi a espressioni artistiche più in vista. L’articolo così è stato soppresso, la mente è stata davvero sommersa. Un click è bastato per spazzare via tutti gli articoli usciti negli anni al riguardo. Ci affanniamo a conservare qualcosa, ma d’altronde basterebbero dei little clicks, o un grande Blackout – titolo, per altro, di un memorabile libro-poemetto di Nanni Balestrini – e non potremmo accedere più a nulla.
Non che non esistano riviste accademiche di prim’ordine attente alla poesia contemporanea, come per esempio «Semicerchio» diretta da Francesco Stella, «Testo a fronte» diretta da Paolo Giovannetti (fondata da Franco Buffoni), «l’Ulisse» diretta da Italo Testa e Stefano Salvi (quest’ultima è attualmente solo digitale). E resistono ancora riviste cartacee più militanti e/o divulgative come «Atelier» di Giuliano Ladolfi e «Poesia» di Nicola Crocetti. Non mancano nemmeno nuovi progetti vòlti al cartaceo, sorti per iniziativa di poeti e critici delle nuove generazioni. Eppure spesso, nel bene e nel male, diversi dibatti sulla poesia contemporanea vengono alimentati dai cosiddetti litblog, se non da dinamiche social (soprattutto sul più boomer Facebook, secondariamente sul più millennials Instagram) connesse alle pubblicazioni sui blog. Cosa ne sarà tra trent’anni dei litblog (di qualità) attenti alla poesia contemporanea, da quelli più ‘storici’ come Le parole e le cose e Nazione Indiana, a quelli sorti negli ultimi anni con le nuove generazioni? Come sarà possibile tra cent’anni ricostruirne filologicamente le vicende?
Non ho una risposta. Non pensò sarà facile farlo. Mi viene però alla mente come nel 1872 il celebre filologo classico Wilamowitz si scagliò contro la rivoluzionaria opera di Nietzsche sulla nascita della tragedia, parlando in senso sprezzante di Zukunftsphilologie, una ‘Filologia del futuro’, in cui i due termini cozzavano, essendo la filologia intesa come restituzione del passato (cf. Dan Octavian Cepraga, Filologia del futuro! L’ecdotica nell’universo digitale, Recensione a Scrittura e filologia nell’era digitale di Domenico Fiormonte, «Textual Cultures», 1.1, 2006, pp. 124-134). Oggi più che mai, ma ormai da qualche decennio, direi che i termini futuro e filologia non sono più antitetici. La precarietà insita al medium stesso del digitale accelera il problema della filologia del futuro, in cui le esili proiezioni virtuali rischieranno di avere disperso del tutto le fonti.
Conscio di queste questioni, non facilmente risolvibili, ho deciso di ripubblicare gli articoli di Massimo Del Prete, nella convinzione che siano meritevoli di una nuova, per quanto precaria, luce artificiale. Un aspetto curioso che rafforza il paradosso è che spesso le letture critiche, sia per la scelta dei libri recensiti sia per sensibilità dell’autore, si focalizzano proprio sui temi della memoria e della perdita. Ed è proprio con l’articolo su Verso le stelle glaciali (Interlinea, 2020) di Tommaso Di Dio che voglio terminare la riflessione e fare riemergere ‘la prima mente sommersa’:
Perdere la memoria (se le stelle glaciali sono l’unico orizzonte di senso ma non sono raggiungibili) è comunque insufficiente per considerare una resa definitiva alla vita: «il vento che muta cancellando | le tracce, i cammini» non basterà a scardinarci, a farmi morire ancora.
La memoria non può restare «eppure | bisogna tenerlo | bisogna nutrirlo. Questo tronco | che non vuole più | andare via da qui». Quelli che sono giunti fin qui forse non potranno dire di essere «esistiti veramente»: che traccia infatti si può dire di aver lasciato se ci proporzioniamo anche solo ai tempi delle generazioni umane? […] Ciò che eravamo si riforma da capo: il passato stesso si oblitera e la memoria si sovrascrive in un nuovo punto di partenza dei tempi. Conterà allora solo l’eterno presente e ogni futuro, conterà infine soltanto essere giusti verso sé e il mondo. Conterà soltanto dirsi la verità:
«Le nostre parole | stanno per raggiungerci. Siate pronti. | Dite loro il vero».
Clicca qui per leggere il primo articolo della serie: Verso le stelle glaciali di Tommaso Di Dio.