1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi 5 che per te siano fondamentali?
5 è un bel numero. Fa parte della progressione di Fibonacci. Quindi cercherò di rispettarlo, anche se quell’aggettivo in chiusura mi mette a disagio. Mi risulta difficile, infatti, selezionare dei libri per me fondamentali editi in un periodo così vicino e circoscritto. Con questo non intendo dire che la domanda sia azzardata, anzi. Non lo è affatto, è una domanda “diagnostica” del tutto legittima. Forse faccio fatica perché le radici gettate da un libro hanno per me un’origine sempre piuttosto fuori dal tempo, misteriosa, che mi pare profano rendere commensurabile, datare. Non solo, ma per consolidarsi nella vita di un lettore e diventare fondamentali, credo, queste radici richiedono una sedimentazione lunga e paziente, un dialogo abbandonato e ripreso, che potrebbe anche durare una vita. È l’aura di un’opera-libro a renderla fondamentale per qualcuno. E certo l’opera va contestualizzata spazio-temporalmente, ma non è forse quella che ci fa dimenticare spazio e tempo a inscriversi in modo indelebile dentro di noi?
Scelgo un romanzo, un saggio scientifico di taglio divulgativo, e tre libri di poesia, nell’ordine in cui mi hanno illuminato: La strada (2006) di Cormac McCarthy, Tiresia (2000-2001) di Giuliano Mesa, L’ordine del tempo (2017) di Carlo Rovelli, Le scimmie sono inavvertitamente uscite dalla gabbia (2004-2005) di Dario Voltolini, Vita Nova (anche se baro, perché è del 1999) di Louise Glück.
2. Se io incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?
Riconosco un poeta quando, imbattendomi nella sua parola, constato che essa trascende i suoi limiti fonologico-lessicali e diventa altro, diventa, attraverso suono e immagine, un’esperienza. Incontro un poeta quando, imbattendomi nella sua parola, constato che essa trascende i suoi limiti fonologico-lessicali e diventa altro, diventa, attraverso suono e immagine, uno specchio in cui mi rifrango e mi assemblo.
Scrivere poesia si riflette molto nella mia vita quotidiana. Da essa parte e a essa torna, attraverso lo sguardo. Qualsiasi sia lo sguardo che chi scrive punta sulle cose, esso deve in tutti i casi, credo, essere accudito con costanza e dedizione, come una creatura di cui si ha a cuore il rigoglio, la vita. È un lavoro che non si ferma mai, prima di scrivere poesia, far sì che ogni giorno l’occhio non si adusi mai alla visione, ma ne scopra di continuo una screziatura ulteriore, prima trascurata.
3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi? Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?
Con i colleghi, di simpatia. Con i lettori, di empatia.
Sento di far parte di una rete, alle cui maglie mi adatto.
4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?
La letteratura greca, la poesia americana contemporanea.
5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?
Molto spesso. In particolare in senso linguistico, e per lo più dalle discipline scientifiche: l’anatomia, la fisica e l’astronomia soprattutto. Sono lingue precise, chirurgiche, che spesso non ammettono sfumature semantiche. Sono molto affascinata dall’esattezza di alcuni loro esempi lessicali. Non di rado mi ritrovo ad attingerne per trasferirli in un campo di senso, l’intelaiatura dei versi, all’apparenza inospitale perché estraneo, eppure in grado di dotare quegli stessi termini di una temperatura e una gravità, per certe misteriose vie, in linea con l’originale. Per rendere un po’ meno astratto quanto intendo, sarebbe di sicuro agevole citare qualche esempio eloquente (ce ne sono tanti) della Neoavanguardia, ma in questo preciso istante mi risuona in mente uno dei più potenti incipit di Luzi: “Vola alta, parola, cresci in profondità / tocca nadir e zenith [corsivi miei] della tua significazione”. Quanti conoscano il significato delle due nozioni di astronomia, colgono subito la magia della loro trasposizione e rinascita: la metamorfosi connotativa che trasforma i due nomina, da precisi punti di intersezione di rette immaginarie ed emisferi celesti, in apici dove la parola si possa addentrare (“in profondità”) e inoltrare (“alta”), divenendo essa stessa cielo.
6. Che rapporto hai con la rima?
Provo per la rima, e in generale per il richiamo fonico, una devozione identica a quella che ho verso i ricordi che vorrei trattenere. Rime e ricordi hanno in comune la formularità e per questo si potrebbe azzardare che siano fatti della stessa materia. Se la rima è ciò che ritorna e ritornando si trattiene/ricorda, quando il ricordo affiora (e affinché ciò accada), esso deve per forza essere in rima con qualcosa di intrinseco e vitale. Cerco di spiegarmi meglio. La rima, per me, come il ricordo, è il perno più saldo attorno a cui il corpo (di parole, rispettivamente, e il corpo psichico) ruota e si evolve. Dettando il “ritornello”, sia rima sia ricordo orientano il flusso di impressioni (suoni, immagini, ma non solo), mentale e testuale. Di quel flusso sono i richiami, le certezze a cui nel modo più naturale la mente ritorna. Ciononostante, sarebbe meglio non abusare delle rime (risulterebbe persino anacronistico) – refrain che credo, piuttosto, andrebbero centellinati e risparmiati.
7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?
Se devo sceglierne tre: Riccardo Frolloni, Gianluca Furnari e Linda Del Sarto.
Infine ti chiediamo di selezionare dai 2 ai 5 testi, esemplificativi della direzione più recente assunta dalla tua poesia, provenienti dal tuo ultimo libro e/o inediti
Propongo tre testi da Gli eroi sono partiti, in corso di pubblicazione per Passigli:
ESPIAZIONE
Per silenziare la sberla
di bufera mannara che scrosta
gli stipiti delle porte, le fronde
del pensiero fragile, una vita
misera nascosta nel palmo
per scongiurarne la falcata
oltre le terre già tetre per dune
di catrame, liquame di quelli
che furono ghiacci
carcasse di orche pettinano i flutti.
–
L’espiazione la conoscono i sassi
ai piedi di queste montagne
pervase di luna, i cocci sul fondo
del sacco rifiuti tra uscio e deserto
ancora un felino arabesca alla notte.
–
ENEA
Ho raccolto dal fondale
un corallo senza nome
eppure familiare.
Non conosco l’algoritmo
che spalanca i portoni sotto chiave
che smuove
i mari stanchi, che commuove
i Tritoni.
Hai le mani fredde mentre
riavvolgi le cime
fai nodi stretti, indizi
della vita che avvinghi.
Svelami l’algebra dell’aria
che assapori quando scendi
nei paesi sommersi, la cifra
che al bivio ti illumina la via.
Sopra una chiglia sotto le stelle
siamo conchiglie nere
radunate in un palmo di mare.
Sotto le stelle sopra una chiglia siamo
trasparenze in una cruna siamo
ombre sulla randa, e la randa
un colombre che rifrange
l’ultima fronda della luna.
–
STANZE
Sapessi quanto ancora vorrei dirti
parlarti senza il sonno nella gola
come parla in un film di Ettore Scola
il fruscio di lenzuola ubriache d’aria
*
feroce il progredire non risparmia
nulla mai nessuno dal biancore
languido che angelica le nuche
guarda come crepita di papaveri
quel campo
sembrerebbe sconfinato eppure.
Immaginammo più maestosa
la cascata il suo invisibile fragore
sugli occhi affamati come spugne
inermi nell’acquaio a fine estate
più longeva immaginammo la storia
dell’iride ammainata all’altra iride
la mano rampicante e l’altra mano
che ora spelliamo, in stanze separate.
Francesca Mazzotta