Franco Loi, come noi tutti, si farà nel tempo un nome sempre più distante, eppure resterà in qualche modo la presenza della sua poesia nella lirica italiana del Novecento con un suo peso specifico. Con il 2021 si apre, dunque, un decennio ancora da leggersi e si chiude il cerchio dei Poeti del Novecento (1978), nota antologia di Pier Vincenzo Mengaldo, molto discussa al tempo e oggi ancora discutibile(1), ma preminente negli studi, che canonizzava ben 42 poeti, ponendo in apertura Govoni, Corazzini, Palazzeschi, Gozzano ed in chiusura proprio Franco Loi (con la presenza tra i cosiddetti neodialettali anche di Tessa, Marin, Noventa, Guerra, Pierro, oltre al Pasolini friulano).
Loi – cognome di origine sarda come quello di Antonella Anedda – nacque a Genova, ma si trasferì a sette anni nel capoluogo lombardo(2) con i genitori, padre sardo e madre emiliana. Dopo avere appreso il dialetto nei contesti lavorativi (soprattutto quello di operai, ferrovieri; pur conscio della tradizione letteraria milanese, Carlo Porta in primis), già a partire dall’esordio da quarantenne con I cart (Edizioni Trentadue, Milano 1973, con disegni di Eugenio Tomiolo) scelse di scrivere in un milanese reinventato, aperto, contaminato. Negli anni e decenni successivi, con varie pubblicazioni e riconoscimenti da parte di numerosi poeti e critici (tra i primi vi furono Franco Fortini e Dante Isella)(3), definì sempre più il suo idioletto, capace di accogliere scaglie del presente vivo del dialetto e memorie di sostrati distanti, senza rinunciare a proiettarsi nel futuribile proprio della lingua poetica, in cui vige un tempo al di là dei tempi.
Nella Quarta di copertina di Nomi distanti, peculiare libro di Anedda che si compone di traduzioni intese come «risposte da lontano: al lontano testo originale, alla pura lingua della traduzione» (introduzione di Anedda, p. 7), troviamo proprio alcune parole di Franco Loi, che scrive che come Anedda egli non può «che dare fiato ad una risposta, anzi ad una domanda alla domanda, fare spazio alla lontananza». In Nomi distanti, accanto a nomi di poeti russi come Mandel’štam e Cvetaeva e statunitensi come Ezra Pound (e vari altri), troviamo anche poeti etichettati dalla critica come “dialettali” (rispetto al sistema italiano), tra cui lo stesso Franco Loi, come a ribadire un’assenza di gerarchia tra le lingue, essendo la lingua poetica per Anedda una lingua che si dona soltanto in traduzione(4), in cui soggiacciono tante lingue altre. La scrittura poetica, secondo i testi dei poeti che seleziona e ripropone Anedda, può essere letta come un tentativo di rivitalizzare oggetti caduti in oblio, storie in procinto di dissolversi ed una lingua spenta che si traduce di generazione in generazione: un «canto soffocato» di «ombre che strisciano i piedi nella danza più triste dell’isola» (p. 6).
Vi presentiamo le due poesie sia in originale – di Franco Loi – sia raccolte dalla traduzione – in questo caso auto-traduzione– sia nei nuovi testi dischiusi con «un altro respiro, un altro destino: una terza voce in un terzo spazio» (p. 7) – quella di Anedda, (da Franco Loi). Da notare che nella riscrittura aneddiana si perdono sia la facile musicalità “neo-milanese” sia lo schema di versi endecasillabi con rime (o assonanze) tipici di Loi (non a caso molto interessante è l’aspetto orale e “performativo” della sua poesia). A partire più che altro dal testo dai toni più piani auto-tradotto in italiano, Anedda tende da una parte a ribaltare alcune espressioni di Loi, per esempio con un passaggio da frase negativa ad affermativa nel primo testo, fino a un cambio di paesaggio nel secondo testo, tant’è che viene nominato il mare, e ancora stelle e vento. Dall’altra, da notare che Anedda distende ulteriormente il verso e la lingua, resi al contempo più scabri e asciutti, per una poesia che si sgancia dalla contingenza di relazione amorosa maschile-femminile (si perde, ad esempio, nel primo testo il riferimento alla donna), per approdare a un’intensificazione e assolutizzazione dell’esperienza, tramite la poesia di Loi, ma in limba sua (con la sua lingua).
Francesco Ottonello
Franco Loi
Sù no se nel tastàm amô g’û ‘n cör.
‘Na lama spessa me cunserva al fregg,
fregg de paüra, spegg che mustra el nient,
niente sensa vita che me jüta a mör
tra vus luntan ch’je porta i sentiment,
Oh, dònna che ne vent ciama e me vör,
lassa la vita morta persa al spegg.
Franco Loi
Non so se nel toccarmi ancora ho un cuore.
Una lama spessa mi conserva al freddo,
freddo di paura, specchio che mostra il niente,
niente senza vita che mi aiuta a morire
tra voci lontane portate dal sentimento.
Oh donna, che nel vento chiama e mi vuole,
lascia la vita morta persa allo specchio.
Verna, Empiria, Roma 1997
Antonella Anedda da Franco Loi
Ora so che nel toccarmi ho un cuore
non importa se il fuoco innalza la paura
se un bagliore scuote un silenzio d’acqua morta.
Morte non è il tuo sguardo
non è morte l’aria che muove l’ardente nulla dei corpi.
È il silenzio dove il male si mostra senza ghiaccio
sono le cose brevi strette piano dal mondo, è il mondo
che fa vere le ombre e caldo il vento
del mondo in cui parlando andiamo.
*
Franco Loi
Sbianca la nott la ghe tegniva in scoss,
e la citâ despersa drè di spall
e l’acqua sott i câ la se perdeva
e i gent che nel passà rideven matt,
e lé l’era la nott che ghe purtava
tra i strâd ne la belessa de l’andà,
che mì e tì, nel perdèss del stà insèma,
anca la nott, l’umbrìa, èm smentegâ.
Franco Loi
Pallida la notte ci teneva in grembo,
e la città dispersa dietro le spalle
tra le acque che sotto le case si disperdevano
e le genti che nel passare ridevano strambe,
e lei la notte ci portava
tra le strade nella bellezza dell’andare,
ché io e te, nel perdersi dello stare assieme,
anche la notte, l’ombra, abbiamo dimenticato.
Verna, Empiria, Roma 1977
Antonella Anedda da Franco Loi
Pallida notte ci teneva in grembo
e la città sfocava le sue luci
tra l’acqua dei canali senza moto. Gente forse rideva
andava, più veloce di noi verso case vicine a ridosso del mare
in luoghi solo loro. Stelle riposte
le stelle dentro un campo. Altri lumi notturni
come occhi distolti come il buio che a un tratto
ci strodiva. Pallida notte e freddo in calli nere
dove io ti chiedevo e ancora chiedo: scosta quell’ombra
lascio ce la porti nel tempo solo io, che il silenzio
mi basti e non mi scacci
verso il vento di terra che mi chiama.
NOTE
1 Sulle questioni dell’antologia e del canone vd. Effetto canone. La forma antologia nella letteratura italiana, Atti della giornata di studi (Milano, Università Iulm, 13 giugno 2016), a cura di Carmen Van den Bergh e Paolo Giovannetti, «Enthymema» n. 27, 2017; Claudia Crocco, La poesia italiana del Novecento. Il canone e le interpretazioni, Carocci, Roma 2015.
2 Franco Loi ha scritto l’autobiografia Da bambino il cielo (Garzanti, 2010). L’autoantologia, che seleziona il meglio della sua produzione, è Aria de la memoria. Poesie scelte 1973-2002 (Einaudi, 2005).
3 Il suo secondo libro è Poesie d’amore, incisioni di Ernesto Treccani, Il Ponte, San Giovanni Valdarno 1974; poi pubblicò il noto Stròlegh, introduzione Franco Fortini, Einaudi, Torino 1975; in seguito numerosi altri libri.
4 Vd. Francesco Ottonello, La lingua di Antonella Anedda tra sardo e latino, in «L’Ulisse» n. 23, 2020.