Se Eugenio Montale scriveva nel 1952 che «il tentativo di rendere comunicante l’io individuale che non è tale per definizione […] è alla base delle ricerche artistiche e filosofiche del nostro tempo»[1], potremmo chiederci se nella poesia di oggi sia ancora ravvisabile un’esigenza di conoscersi e di porsi in rapporto comunicativo con l’altro. Nello specifico, ci interessa interrogarci sulla possibilità di individuare delle costanti rapportabili a un’interrogazione sull’identità nella poesia di alcuni esordi significativi di questi anni.
Nella prima tappa (qui) abbiamo osservato, nei libri di Giorgiomaria Cornelio, Carlo Ragliani, Giovanna Cristina Vivinetto, Silvia Righi e Francesco Ottonello, la centralità di un discorso sull’avvicinamento/allontanamento dell’io dal sé, cioè da una determinata forma identitaria. In questa seconda tappa vogliamo estendere l’analisi alle tre opere d’esordio incluse nel XV quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2021, a cura di Franco Buffoni): Questi che siamo (pref. Franca Mancinelli), di Linda Del Sarto; La danza degli aironi (pref. Fabio Pusterla), di Matteo Meloni; Diritto all’oblio (pref. Antonella Anedda), di Sara Sermini.
In Questi che siamo di Linda del Sarto, nonostante le evidenti differenze stilistiche, si registra una tensione all’altro simile a quella che anima Isola aperta di Ottonello. I presupposti sono però invertiti, perché se per Ottonello si è parlato di «apertura come una possibilità disidentificante», in questo caso si tratta infatti di una spinta identificante, di un tentativo che l’io compie per formalizzarsi: «Corre una richiesta / di maggiore nudità: voglio / essere più rosa, / rosa antico tessere / me stessa e le pareti». Il soggetto lirico, qui, è originariamente dimezzato («[…] E allo specchio / riconoscersi / a metà») a causa della lontananza – soprattutto – fisica di una seconda persona («Al risveglio cresco / mastodontica, mi aggiro / mutilata di te»), e si concepisce finanche come l’assenza che lo tarla («non so come ma dimostro / solo gli anni che non ho»). Intendiamoci, anche la voce poetante di Isola aperta vive all’insegna di «una prima persona che non significa niente»; tuttavia questo è un dolore inscritto in una dimensione già identitaria, insulare, e inoltre la separazione dall’altro si configura come un’assenza totale («Domani cadrà nessuno arriverà»), laddove in Del Sarto ha più le sembianze di una presenza dell’assente («[…] l’inspirare a caldo di / un’assenza»). L’identità è dunque la condizione di partenza in Ottonello e porta inscritto il problema dell’incomunicabilità, da cui la necessità di un’apertura, di una spinta dissolutrice («ragazzi acerbi, prima di sparire / innaffiate il mondo saremo altro»). In Questi che siamo, al contrario, la tensione all’alterità è un gesto di edificazione, di costruzione delle e nelle pareti dell’altro, per un traguardo di completamento: «Mi riconosceranno / per il tuo andare lento / (che nello stesso corpo noi / rincasiamo a sera). / Diventi santo dentro al tuo / silenzio: precisissima rispondo / a tutto quello che non chiedi». Il dialogo fra le due voci è prolifico, e genera poesia: «Al telefono ripeti / non c’è campo, non c’è campo / di fiori che tenga / al nostro amore, amore». L’individuo compiuto dall’incontro amoroso è un ‘noi’ solido e polarizzato, un luogo dov’è possibile l’orientamento («Torniamo a noi, torniamoci / sopra, l’una all’altro intendo, / per sentire come si orienta tutto»; «come noi che risorgiamo / e non ne siamo degni»), un terzo essere giustapposto alla piena totalità, che si avvicina – senza coincidervi – all’androgino di Demi-monde di Silvia Righi («Come dialogare / in uno, mangiarsi / in gabbia»). Nei testi di Silvia Righi, l’io è compartecipe di un dolore simile a quello che affligge il non-ente dimezzato di Questi che siamo, seppur proveniente da una mutilazione originale di diverso tipo, inscritta nel genere sessuale, e l’incontro amoroso è un sentiero della disidentificazione, un’alternativa alla limatura della forma individuale («la Signora Neve mi taglia / i capelli con affetto / poi i capezzoli, infine / il clitoride»). Si è detto «senza coincidervi» perché il ‘noi’ di Linda Del Sarto non è solo l’esito di una spinta identificatrice con un individuo misto, una terza persona a tutti gli effetti: in questo libro, l’amore è una forza totalizzante, capace di fondere i corpi alla storia della natura e dell’umanità («siamo tutti gli adami / e tutte le eve del mondo»), in un movimento pseudopanico di identificazione con il tutto («degradavo, sconcia primula / ai tuoi piedi, che / smarrivo, incontemplata / cuore mente / stelo e tutto») che giustifica il ritorno a tratti insistito della sfera semantica floreale («[…] campi-copriletto per amarci»; «in boccio, c’ero anch’io –») e ci consente di legare il discorso agli altri due libri qui chiamati a incontrarsi, Diritto all’oblio e La danza degli aironi, in cui l’elemento naturale è dominante.
Con l’esordio poetico di Sara Sermini, Diritto all’oblio, individuiamo fin dal titolo una chiave strutturale del concetto di identità personale: il tema della memoria. Se è vero che il ricordo identifica, l’operazione progettuale dell’autrice è indirizzata, allo stesso momento, da un lato a una decostruzione identitaria basata sulla legittima dimenticanza («i passaggi del corpo, / il suo correre ai ripari, / i suoi infiniti tentativi / di sgusciare fuori da se stesso»), dall’altro alla costruzione di una personalità cosciente del passato, e perciò in grado di agire efficacemente sul presente («Esercito oggi per dovere di memoria / il mio diritto all’oblio […]»). Questo perché, precisamente, obliare è, più che solamente lecito, un atto necessario all’uomo affinché possa distinguere un qui e ora da una prospettiva temporale passata, in virtù della quale pianificare il futuro. Nei testi di questo libro si registra dunque un continuo rinnovamento dell’io, che, avvalendosi dello strumento mnestico, può decidere – almeno in linea teorica – di abbandonare una forma per abitarne un’altra («nello spazio tra il tulipano esausto / e lo scorcio di cielo / un varco non visto / di memorie placentari»); e la mutevolezza che caratterizza la prima persona sembra riflettersi, nei testi di Sermini, in un rapporto di somiglianza con l’universo erbaceo e floreale che popola l’opera, un avvicinamento panico alla natura («Chi fugge si piega, / come l’acqua, / cambia piano il percorso, / fa l’amore coi sassi»). In altre parole, in Diritto all’oblio l’io può scegliere dove buttare le radici, poiché farlo significa «piegarsi, curvarsi, evitare», e dunque riplasmarsi attraverso la gestione della memoria. L’uomo può allora inscriversi in un gioco metaforico che lo trasforma in pianta («Li conservano in teche di ferro battuto / i vostri rami: femori, falangi, radî / ulne e cumuli di cranî. A seccare / come erba medica che nutre ma non cura»), e così dissolversi («La morte è sopravvalutata […] Occorrerebbe, dicono, / smetterla di credersi il centro del mondo»), alleggerirsi, liberarsi dal peso dei ricordi («Mi siedo davanti allo scaffale, / alla luce obliqua degli addii, / afferro le cose una ad una / le ripongo piano, con precisione, / nella scatola di cartone. / Prendo anche la polvere») per riapprendere a nascere («Sono soltanto fiori. Trabocchi / di fiori e fiorisci / nella sicurezza dei nomi»). È allora appunto dalle radici – anche – etimologiche che la poesia di Sermini può esporsi, spesso in direzioni inedite o che poco hanno a che fare con il significato originale – greco o latino – del termine considerato e riutilizzato nel corpo dei testi: qui la risemantizzazione dei significanti è possibile poiché, entro i confini elastici della memoria, la libertà d’azione dell’io è quasi assoluta («ARCHIVIO / < ARCHÈ antichità / alcuni lo derivano dal latino / ÀRCA: armadio – ma / siffatta origine non è approvata dai più. // Ed è invece, certamente, un armadio»). L’esperimento dell’autrice, che potremmo provocatoriamente definire ‘egocentrico’ in senso etimologico, ricorda per certi versi – fatto salvo l’elemento teologico – le Etymologiae dell’autore medievale Isidoro di Siviglia, un’opera anch’essa strutturata sulla libera interpretazione degli etimi in senso antropocentrico (e allora cristiano). Anche in Diritto all’oblio il cielo accoglie una definizione funzionale a ciò che ne può fare l’uomo – «(koilos) cavo, incavato / e anche / (caedo) taglio. / Cielo è ciò che le palpebre (innocue cesoie) decidono» –, gli occhi e il corpo vengono promossi a unità di misura del mondo: «Così i nostri occhi misurano le cose / così le cose non si scordano di noi / e i nostri corpi misurano così / approssimativamente il mondo»; «(le palpebre contengono / fili che l’occhio / soltanto sa tessere)». Eppure nei testi di Sermini l’antropocentrismo e l’egocentrismo spesso si sfaldano, divenendo in primo piano la natura e una tensione disidentificante che dall’io volge in direzione di un annullamento nel tutto («Scrivere la vergogna nel vento, / piegarsi come il giunco nel fango, / fare dell’acqua la propria terra e / viceversa, riversarsi, rivoltarsi»), di una fuga a serrate palpebre nei corridoi – «Corridoio significa attesa, / il tempo di ritrarsi (come ricci senza aculei), / il tempo di correr via (come lepri senz’occhi)» –, poiché forse proprio la riduzione identitaria è un corridoio percorribile per saturare la distanza, trasferirsi da un vano all’altro.
L’elemento naturale è sicuramente centrale nell’opera d’esordio di Matteo Meloni, La danza degli aironi, estremamente lontana da Diritto all’oblio per forma e stile, essendo più tradizionalmente lirica, ma a essa contigua per quanto concerne l’idea condivisa di un’abitazione della frattura: «Ritorneremo dopo lo strappo / più verdi più forti di prima». Se in Sermini lo strappo è di carattere mnestico, qui la cesura assume invece i tratti della ferita storica e si palesa come franamento biologico («Non si alzeranno gli abeti / dopo l’urto della frana. / Ogni radice scoperta / ha il suo tronco spezzato, ogni crepa / il suo estraneo motivo»), dunque umano e ambientale oltre che bellico («Disinfetta la ferita / la foglia dell’olmo, / nasconde le cicatrici»). Come nel libro prefato da Anedda, anche in questo di Meloni, aperto da uno scritto di Pusterla, è rilevante la presenza floreale e – qui, anche – faunistica. Ciò che differenzia le due raccolte – fatto salvo il linguaggio, che ci riserviamo di analizzare più avanti – è però l’assenza, nei testi di Meloni, di una vera e propria alterità, e perciò di qualsiasi tensione verso essa: La danza degli aironi, infatti, esplicita una poetica in cui l’individuo è inscritto fin da subito nell’ecosistema, e nella quale, di fatto, un ‘altro’ non esiste. La poesia si incarica dunque di svelare una coappartenenza, di condurre fiume e sentiero (strada dei pesci e degli uomini) alla stessa «polla nella terra» («Anche il ruscello può essere sentiero / nell’intrico della boscaglia. […] Sapevi assecondare gli sbalzi / del fiume, tenere a bada / la natura cedevole dell’acqua»). Corrispondendo alla medesima entità, l’uomo e la natura sono sottoposti alla stessa legge del divenire storico e degenerativo, pertanto in alcuni componimenti di questo libro è attestabile un comune movimento dissolutore, la ferita nella quale i due termini dell’equazione possono riconoscersi e identificarsi («Proverò a curarti in questa / dissolvenza […]»; «Dovremo – mi dicevi – imparare / a sciogliere i legami, / alternare di generazione / in generazione gli affetti, mancare / al tempo come le piante»). A testimonianza della fisionomia antropica della natura e, viceversa, di quella naturale dell’essere umano, il linguaggio dell’autore si arricchisce di svariate metafore e antropomorfismi («Danzavano stanotte gli occhi del bosco […] Sotto la calma del muschio le radici»; «le vene di azzurro / timidezza delle chiome»), nonché di similitudini rievocanti la sfera semantica dell’inclusività («Che la Dora ti accolga / come un suo torrente»).
In conclusione, tutti e tre i libri di esordio del Quindicesimo quaderno (gli altri quattro di Dario Bertini, Simone Burratti, Emanuele Franceschetti, Francesco Ottonello non sono esordi assoluti) condividono la ricorrenza più o meno insistita di un lessico floreale importante alla luce delle considerazioni fatte fin qui. Tuttavia si riscontra una sostanziale asciuttezza della forma, piana e concisa, che accomuna Questi che siamo e La danza degli aironi, mentre il dettato di Diritto all’oblio si distingue da quello di Meloni e Del Sarto per via del maggiore sperimentalismo linguistico che lo anima.
Per quanto riguarda il lavoro di Sermini, si registrano numerose lingue (italiano, inglese, greco, latino, spagnolo, francese, provenzale, portoghese, catalano, gaelico, irlandese, cornovagliese, cimbro, bretone ecc.), cifre romane e arabe, segni diacritici, parentesi rovesciate e l’uso del maiuscoletto. Questi utilizzi qualificano un esperimento poetico originale e ricercato: è sfiorato il manierismo nei componimenti più musicali («Impudica la mano ottusa»; «la vulnerabilità, l’inermità, la povertà, / l’astrazione di ogni realtà»), che si avvalgono talvolta anche dell’uso della rima (in questi ossarî, o forse soltanto / impilata come i libri negli antiquarî […] colombarî […]»).
Le differenze più importanti da rilevare tra la poesia di Matteo Meloni e quella di Linda Del Sarto riguardano invece la presenza dell’io nel dettato poetico, che è affermata fin dall’inizio in Questi che siamo, e solamente a partire dal quindicesimo componimento (su un totale di 34) in La danza degli aironi. Come scrive Fabio Pusterla nella prefazione di quest’ultimo libro, «è stata ridotta al minimo l’effusione dell’io: che esiste e garantisce la verità soggettiva ed emotiva di ogni immagine, ma che non turba mai la scena con la propria presenza troppo ingombrante o esibita». In effetti, da queste considerazioni si può risalire a una certa coerenza, nelle due opere, tra peso dell’io e tensione all’identificazione: nei testi di Del Sarto, dove la prima persona ha un’importanza visibile, abbiamo riscontrato una spinta altrettanto forte all’edificazione costruttiva; per La danza degli aironi, dove l’io ricorre in soli cinque componimenti, si è fatto invece riferimento a un soggetto lirico già dissolto, in regime di coappartenenza con la natura. È intermedio il caso di Diritto all’oblio, dove registriamo un’insistenza del soggetto lirico più parca (10 occorrenze su 34 testi) rispetto a quanto avviene nella poesia di Linda Del Sarto (28 su 33), e più decisa rispetto a quanto si verifica nella silloge di Matteo Meloni (5 su 34). Come si è detto, infatti, in quest’opera, nonostante la forte tensione disidentificante, non è trascurabile il ruolo dell’io, che, attraverso l’elaborazione mnestica, può scegliere di volta in volta dove affondare le radici.
[1] La citazione deriva da una conferenza che Montale tenne nel ’52 a proposito del concetto di ‘io trascendentale’. Si può reperire il passo anche in G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Il mulino, Bologna, 2005, p. 111.