Prima parte «I “percorsi del suicidio” di cinque poetesse del ‘900 (1): vita di Nadia Campana»
Seconda parte «I “percorsi del suicidio” di cinque poetesse del ‘900 (2): vita di Antonia Pozzi, Amelia Rosselli, Sylvia Plath»
Terza parte «I “percorsi del suicidio” di cinque poetesse del ‘900 (3): vita di Marina Ivanovna Cvetaeva»
“Sappiate che esistono solo omicidi.
Al mondo nessuno si è mai suicidato!”
(E.Evtushenko)
Le motivazioni che possono indurre una persona a troncare volontariamente la propria esistenza possono essere molteplici, ma nel caso degli artisti esiste un quid comune, una sorta di filo conduttore che accomuna il compimento di questo gesto estremo. Una delle “categorie” che detiene il triste primato del numero di suicidi è senza dubbio quella degli scrittori, soprattutto dei poeti. Tra questi spiccano nomi di poetesse di varie nazionalità; ne considereremo alcune, le cui vite, al di là di una analisi biografica, sembrano seguire un copione comune: la realtà discrepante da un immaginario proiettato verso un assoluto irraggiungibile. Se il divario che si crea tra l’autore e la sua produzione rimane nei limiti di una accettabile sopportabilità del reale, si viene a instaurare un relativo equilibrio, ma se questo equilibrio si infrange ed il poeta non riesce più a trovare una connessione neppure con le proprie opere, la vita “trasferita” viene a mancare ed ecco il tuffo diretto nella trascendenza, là dove esiste la speranza di un ricongiungimento con una pace sconosciuta nella quotidianità. La propria produzione diventa la parte vivente di un sé che non trova più corrispondenza, non si realizza nulla che possa in qualche modo tenere ancorato il corpo all’esistenza, si cerca disperatamente nell’essenza-assenza l’unica via d’uscita.
Sul significato dell’atto suicidario sono stati scritti svariati testi come quello di Emile Durkheim, padre della moderna sociologia, che nel suo libro “Il suicidio”(1897) svolse un’accurata analisi sull’argomento, seguendo un aspetto prettamente sociologico di notevole portata per l’epoca. Non dimentichiamo l’esistenza, e ne parla anche Durkheim, di un suicidio “imitativo” al quale però egli assegna una percentuale bassissima come fattore induttivo.
Lo scrittore Guido Morselli scrisse un brevissimo “Capitolo sul suicidio” (1) nel quale, oltre ad analizzare le motivazioni dell’atto diede a questo un profilo ineluttabile, una sorta di condanna contro la quale il libero arbitrio non sarebbe valso. Per Morselli “La vita, nel suo senso migliore, è fiducia nell’utilità e possibilità del nostro parteciparvi, in quanto ravvisiamo le condizioni per cui la nostra presenza quaggiù può essere attiva e benefica; venendo meno quelle condizioni, spegnendosi quella fiducia, la vita individuale si riduce a mera esistenza organica”, e definisce il suicidio una “condanna a morte della cui esecuzione il giudice incarica il condannato”. Anni dopo, nel 1973, si tolse la vita.
James Hillman nel libro “Il suicidio dell’anima”, pubblicato nel 1964, cercò una profonda comprensione di quest’atto finale, con un tentativo di restituirgli se non altro una “dignità” , in una ricerca analitica scevra di giudizi e pregiudizi: “L’analista non si schiera né per la vita né per la morte; si schiera per l’esperienza di questi due opposti.”
Nel 1979 uscì un libro dello psicanalista psichiatra Paul Mathis dell’ Ecole Freudienne di Parigi che storicamente fu il primo scritto intorno al suicidio perpetrato soprattutto nell’ambito dell’arte, in particolare nella “scrittura”. Il titolo, “I percorsi del suicidio”, anticipa un contenuto che si snoda attraverso un’acuta analisi delle motivazioni che dopo un percorso di sviluppo fanno maturare il germe che da anni era stato protetto dal suo manifestarsi. Mathis scava nelle ragioni che portano alla “necessità” di scrivere e presume che oltre alla ricerca di una compiutezza formale vi sia un compimento di sé attraverso l’opera. Inoltre introduce il concetto di “maschera letteraria” che impedisce di comprendere a fondo quanto lo scrittore “non scrive”: “L’opera d’arte è la maschera ingannatrice e vera, in un dire a metà tra il desiderio e il reale.” Ma aggiunge: ”Lo scrittore non è sicuro di arrivare attraverso la scrittura a sciogliersi dalla pulsione di morte. Il suo rapporto con la morte rimane lancinante, oscuro, poco chiaro. In un primo tempo si potrebbe pensare che scrivere significhi proteggersi dalla morte” (2).
In alcuni casi lo scrittore, trasferisce la sua pulsione di morte nei personaggi dei suoi romanzi, fa loro maneggiare armi, li spinge dopo lunghe sofferenze ad un angoscioso corteggiamento della morte e a commettere omicidi o suicidi. “Il giovane Werther si suicida ma Goethe giunge alla vecchiaia. Il Werther ha provocato suicidi di adolescenti. L’immaginario del romanzo si scontra con l’immaginario del lettore e determina il passaggio all’atto. Goethe con la scrittura si è protetto da una condotta suicida?”
La poesia, la vera poesia, anche se talvolta considerata un po’ a latere della grande letteratura, ha però una caratteristica vitale, e cioè la sua “autenticità”, che la rende genuina anche se non sempre di immediata comprensione. La poesia femminile, in particolare, più di quella maschile, come osserva acutamente Paola Mastrocola (3), appare “costruita sulla ricerca della verità: innanzitutto sulla ricerca della propria verità, di ciò che nella propria vita è “vero”; scrivere è riflettere su se stesse, riflettersi, piegarsi dentro e lì dentro guardare a costo di trovare il buio e l’orrore”. Il “coraggio dello sguardo” porta molte poetesse del 900 ad indagarsi, con autoanalisi spesso spietate ed una energia verbale violenta e dissacratoria, ma sempre basate sull’amore per la verità da scoprire, da capire e raccontare per quello che è realmente, senza veli e nascondimenti di comodo. La liberazione da stereotipi e la ricerca spasmodica e quasi disperata del vero, dell’autentico, è sovente percorsa “fino in fondo, fino alle estreme conseguenze: la follia ed il suicidio”(3). Delle cinquantacinque poetesse raccontate nell’antologia citata (3), undici si sono suicidate, una percentuale molto elevata, che conferma quei “percorsi del suicidio” accennati precedentemente.
Raccontiamo ora brevemente alcuni casi emblematici di questo “approdo” alla morte, una ribellione estrema alla vita comune che si conclude quasi necessariamente col rifiuto della vita stessa.
Nadia Campana nasce a Cesena nel 1954 e si laurea nell’anno accademico 1977-78 a Bologna con una tesi sul poeta Antonio Porta avendo come relatore lo scrittore Luciano Anceschi. Successivamente, a Milano, tenta di immergersi nella vita letteraria, scrive poesie, contatta poeti della sua generazione, pubblica alcune liriche su una rivista romagnola (L’altro versante) nel 1979 e poi su una romana (Prato pagano. Giornale di nuova letteratura) nel 1985. Legge Emily Dickinson e ne rimane abbacinata. Come scrive Gabriella Sica “Ne sarà segnata per sempre, travolta da quel contrasto tragico tra la passione dell’immensità e la povertà del quotidiano, tra gioia e dolore” (4). Le sue prime opere risentono dell’influsso della Dickinson di cui traduce 140 poesie che pubblica nel 1983 col titolo “Le stanze d’alabastro” riprendendo l’inizio di una poesia “mortuaria” della Dickinson (Safe in their Alabaster Chambers). Nell’introduzione Nadia cita il saggio di Paul Mathis, di cui abbiamo parlato, il che fa pensare che “i legami non tanto sotterranei con lo spettro del suicidio ci sono tutti”(4). Nell’estate del 1984 raccoglie un gruppo di circa 50 poesie, alcune già pubblicate ma in gran numero inedite nel libretto “Verso la mente” che uscirà postumo nel 1990. Qui il suo linguaggio si fa più spezzato, senza pause, allusivo ma spesso sfuggente. Sovente ostico e di difficile interpretazione per gli scarti improvvisi, le interruzioni, i salti frequenti, i nessi che si sfaldano, le irregolarità dei versi. Scrive: “Punta tenera di un dardo/ ora io esisto ancora/ sfinita dal correre è vero,/ mi porti sulle ossa/ finché la notte non mi contrari più/ madre ogni minima cosa”.
Nadia conosceva la poesia e la vicenda umana di Marina Cvetaeva e ne parla: “Marina mi prende troppo, e mi fa un po’ paura. Questo perché, se non si è un po’ distaccati, si rischia di balbettare. Spero che questa paura non sia troppo grande”. Inoltre amava la poesia di Antonia Pozzi che avvertiva affine al suo modo di sentire, e quindi alla difficoltà di dare un ordine alla propria esistenza, segnata dal dolore per la morte prematura del padre, per trovare un’armonia ed un equilibrio impossibile. Sicuramente è azzardato pensare che queste due letterate abbiano potuto essere “maestre di suicidio” per Nadia, ma sicuramente il loro messaggio di poesia e di vita fu recepito profondamente dalla poetessa di Cesena, così fragile ed affamata di affetto. Nadia si suicidò, a 31 anni, la mattina del 6 agosto 1985 ad un incrocio di tangenziali alla periferia di Milano. Si era lanciata nel vuoto dal ponte di via Corelli: era volata giù per potere risalire, “scendere con il corpo perché si levasse la poesia” (4). I versi che Vittorio Sereni aveva scritto per Antonia Pozzi, morta suicida nel 1938 vicino a Milano, sembrano accomunare a distanza di quasi 50 anni le vite difficili ed il destino terminale di Antonia e Nadia: “All’ultimo tumulto dei binari/ hai la tua pace, dove la città/ in un volo di ponti e di viali/ si getta alla campagna/..…./Pace forse è davvero la tua/ e gli occhi che noi richiudemmo/ per sempre ora riaperti/ stupiscono/ che ancora per noi/ tu muoia un poco/ ogni anno/ in questo giorno”.
Francesco Cappellani
Tiziana Mainoli
- G.Morselli: “Il suicidio” a cura di Valentina Fortichiari . Via del vento, Pistoia, 2004
- P.Mathis: “I percorsi del suicidio”. Sugarco edizioni, 1979
- G.Davico Bonino e P.Mastrocola (a cura di): “L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del 900”. Mondadori Oscar, 1996
- G.Sica: “Emily e le altre”. Cooper editore, 2010
- A.E. De Gregorio: “Antonia Pozzi e la poesia che ci guarda”. www.filidaquilone.it/num023degregorio.html
- D.Lodi: “Le ossessioni di Amelia Rosselli”. www.homolaicus.com/letteratura/rosselli.htm
- N.N: ”Suicidio di una poetessa”. La Repubblica, 12 febbraio 1996
- S.Plath: “Lady Lazarus e altre poesie” a cura di G.Giudici. Mondadori, 1976