Quello che leggerete di seguito è, con alcune modificazioni, un estratto dalla monografia Pasolini traduttore di Eschilo. “L’Orestiade”. Possibilità e limiti traduttivi nella tragedia greca (Grin Verlag, 2018), più precisamente della parte introduttiva, che voleva essere una premessa più teorica circa i possibili significati del tradurre nel mondo occidentale, prima di addentarsi nella specificità della traduzione del teatro greco e della peculiare operazione pasoliniana.
Innanzi tutto, è curioso, emblematico, se vogliamo paradossale, ricordare che i termini per “tradurre” nelle lingue romanze sembrino derivare proprio da una sbagliata interpretazione, dal termine latino traducĕre (composto di trans «oltre» e ducĕre «portare»). Al XV secolo risalirebbe l’errore di comprensione di una frase delle Noctes Atticae (1, 18) di Aulo Gelio da parte di Leonardo Bruni, che può essere considerato il primo trattatista moderno della traduzione grazie al suo De interpretatione recta (ca. 1420). Egli interpretò traductum – inteso nel testo come “trapiantato/trasposto” dal greco al latino – nel senso odierno di “tradotto” (vocabulum graecum vetus traductum in linguam romanam).
A partire da questa svista il termine ha conosciuto, attraverso varie vicissitudini, una fortuna impensabile, non solo nell’italiano, nel quale soppiantò altre potenziali espressioni utilizzate sino all’inizio del Novecento – quali “recare in volgare”, “ritrarre in volgare”, “volgarizzare” – ma perfino espandendosi nelle altre lingue neolatine (port. traduzir, sp. traducir, cat. traduir, fr. traduire, rum. traduce). L’originale latino in realtà ha il semplice significato di “portare a”, “trasportare”, ma analizzando il significato etimologico di “tradurre” nelle altre lingue indoeuropee (ing. to translate, ted. übersetzen/übertragen, russo perevodit’) risulta evidente la stessa presenza di una sfumatura di “passaggio”, di “traporto”, che avviene da un versante ad un altro.
In latino esisteva una molteplicità di forme verbali specifiche per indicare il tradurre per iscritto, quali vortere o vertere (coi derivati convertere e transvertere), imitari, exprimere, reddere, mutare, transferre, interpretari. Il “problema” della traduzione scritta risultava molto importante per i Latini, come si evince dalla quantità di espressioni per indicare il “tradurre”, proprio per il fatto che dovessero rapportarsi, in primis, all’eredità culturale e letteraria dei Greci. Non a caso, la prima opera della letteratura latina si ricorderà essere l’Odusia di Livio Andronico, una “traduzione libera” dell’Odissea omerica.
Questi ultimi, i Greci – come ricorda un importante studioso di traduzione nostrano, fin troppo dimenticato, Gianfranco Folena – erano invece «poco aperti con pochissime eccezioni al plurilinguismo e al riconoscimento delle lingue “barbare”, giudicate inferiori e inintelligibili», e «vennero dapprima e più intensamente in contatto orale con lingue di struttura tanto diverse» (Volgarizzare e tradurre, 1973, 19912, pp. 5-6). Il termine greco utilizzato era infatti hermeneuein, legato maggiormente all’oralità, il cui significato assai sfaccettato e denso può essere suddiviso in tre direzioni: affermare/esprimere, interpretare/spiegare, tradurre/fare da interprete. Esso fu probabilmente attinto da una lingua dell’Asia Minore e come osserva sempre acutamente Folena «resta di etimo misterioso anche nei suoi collegamenti col nome di Hermes, Ermete, in cui qualcuno volle vedere il dio interprete, mediatore» (ibidem).Mentre il termine hermeneus è legato a un senso di penetrazione profonda dell’ignoto, il latino interpres, -etis è riconducibile a una sfera più pragmatica, quella economico-giuridica (il secondo elemento del composto può essere connesso con pretium), quindi l’interprete/traduttore sarebbe un “mediatore, sensale, arbitro del prezzo”. Trova le radici proprio in questo termine latino il concetto di traduzione come “negoziazione”, portato avanti (nei suoi pregi e limiti) da Umberto Eco: «un processo in base al quale, per ottenere qualcosa, si rinuncia a qualcosa d’altro» e che mette in gioco da una parte il «testo fonte» e la «cultura in cui nasce» e dall’altra il «testo d’arrivo» e la «cultura in cui appare» (Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di Traduzione, 2003, p.18).
Tuttavia, con la fine della latinità e l’avvento delle lingue romanze, si attuò una differenziazione netta tra il traduttore e l’interprete. Già nel francese antico, dal secolo XIII, esistevano due termini per differenziare colui che operava nella lingua orale, il truchement – dall’arabo tariumān (torismany in catalano), originariamente colui che traduceva dal saraceno allo spagnolo – e il translateur, ovvero colui che operava nella lingua scritta. Il termine translateur fu però rimpiazzato nel XVI secolo con la parola (che è un italianismo) traducteur, risalente a Etienne Dolet, poeta e filologo, autore della Manière de bien traduire d’une langue en aultre (1540), mentre il termine truchement assunse col tempo una valenza più complessa, talvolta negativa in senso deformante, talvolta più generica in senso di sostituto o metafora (gli occhi possono essere un truchement del cuore). Ad essi andò ad aggiungersi il termine interprète, con la stessa valenza dell’italiano “interprete” e dell’inglese “interpreter”, colui che come ha scritto George Steiner «è quel certo personaggio utile in banca, ufficio o agenzia di viaggi, ma è anche l’esegeta e l’esecutore ri-creativo»(After babel, 1975, 19922, p. 305).Il tedesco ha invece mantenuto la differenza, formalizzata nel primo Ottocento da Friedrich Schleiermacher, tra una traduzione tecnica di contenuti comuni (per cui si usa il verbo dolmetschen) e una traduzione “ricreativa” di testi non quotidiani (per cui si usano i termini übersetzen/übertragen). In sintesi, è evidente già dall’analisi dei diversi termini utilizzati in alcune delle lingue di matrice indoeuropea, come non solo non esista una definizione univoca e complessiva del “tradurre”, ma anche come i significati della traduzione non siano facilmente deducibili da un groviglio problematico a dirimersi.
Tuttavia, al di là dei significati stricto sensu impliciti negli etimi dei termini per tradurre ed esplicitati da molti teorici della traduzione, risulta interessante provare a comprenderne il significato in un senso più ampio. A chiarire efficientemente lato sensu il “tradurre” è stato illuminante proprio George Steiner, che nella rivoluzionaria opera After Babel (1975) esprime chiaramente che «ogni atto comunicativo è un atto di traduzione». Infatti secondo lo studioso «la traduzione è formalmente e praticamente implicita in ogni atto di comunicazione, nell’emissione e nella ricezione di ogni singolo atto di significazione, sia nel più ampio senso semiotico, sia negli scambi più specificamente verbali». Capire significa, dunque, decifrare e di conseguenza «la traduzione fra lingue diverse è un’applicazione particolare di una configurazione e di un modello fondamentali del discorso umano, persino quando questo discorso avviene in un’unica lingua» (ivi, p.12). Ciò che Steiner precisa con assiduità nella sua opera è che la traduzione è innanzi tutto una prassi, un’attività spesso inconscia e quotidiana, tant’è che noi «traduciamo ad ogni istante quando parliamo e riceviamo segnali nella nostra lingua» (ivi, p. 13). Ciò non porta a negare che esista la traduzione in senso più usuale, che è quella che avviene con l’incontro/scontro tra due lingue diverse, anzi, è proprio la traduzione da lingua a lingua che riprova e rinforza la problematicità congenita in ogni scambio di significato.
A tal proposito potrebbe scaturire spontaneamente un interrogativo relativo all’enorme numero delle lingue e alla loro diversità, che è alla base del discorso sul senso del tradurre e la conditio sine qua non della traduzione. Ciò contraddirebbe i criteri base dell’economia, senza alcun principio chiaramente identificabile, essendo evidenti i vantaggi sociali e materiali offerti da una omogeneità linguistica. Motivi di natura geografica non paiono essere ragionevoli a spiegarne la natura, dato che, ad esempio, si riscontrano a distanze ravvicinatissime lingue fra loro incomprensibili, parlate in un’unica comunità. Esse rappresenterebbero uno “spreco” illogico per un’umanità che è invece sostanzialmente omogenea dal punto di vista biologico e psicosomatico. Lo stesso Steiner nella sua opera pioneristica si domandava: «Perché mai devono esistere due lingue? Anzi, perché mai sono state parlate, ad occhio e croce, più di ventimila lingue su questo piccolo pianeta?» (ibidem). Tale frantumazione linguistica ha portato a tentare di rintracciare il senso di tale disastro – secondo un’etimologia cara a Steiner, “pioggia di stelle dell’umanità” – in miti come quello della biblica Babele e in accomunabili spiegazioni mitologiche riscontrabili in culture altre.
In conclusione, se before Babel il mondo ha avuto la medesima lingua unica, l’esistenza della traduzione può assumere il senso di rimettere in comunicazione, fare comprendere e avvicinare culture e lingue diversificatesi soltanto after Babel, termine quest’ultimo che secondo una affascinante paretimologia deriverebbe da balal “confondere”, o più probabilmente da bab + El “porta di Dio”, come indicano molti etimologisti (assimilabile da alcuni al sumero Ka-dingir e all’assiro Bab-Ilu). Cogliendo lo stimolo di quest’ultima etimologia, la caduta della torre di Babel e le annesse conseguenze non sarebbero, volendo, da cogliere in mero senso negativo, come catastrofica dispersione e impossibilità di ritorno ad una primigenia comunicazione esente da difficoltà, ma come possibilità e dono delle diversità, che possano arginare, in linea teorica, un autocentrismo etnico e generalizzante, arricchendo la comunicazione stessa. Vista in questa prospettiva la traduzione «è un imperativo teologico, una ricerca ostinata di tutte le aperture, le trasparenze, le paratie attraverso le quali le correnti divise del linguaggio umano inseguono il loro fatidico ritorno a un unico mare» (ivi, p.196).
O, forse, non potremo che, ora e per sempre, tradurre un’impossibilità, inventando poieticamente, ovvero ricreando, o meglio traducendo quel che mai sapremo definito, senza ritorno e meta, confondendo il bisogno di astro e rizoma.
Francesco Ottonello