Il respiro e la prossimità. Celan e Valente “lettori” di Couperin

Proponiamo un breve saggio di Dario Falcone su intertestualità e transtestualità di poesia e musica. In questo episodio si prendono in considerazione le contaminazioni tra Celan, Valente e Couperin.

Poesia: ciò può significare una svolta del respiro.

Paul Celan, Il meridiano

 

La poesia
è un respirare in pace
perché gli altri respirino.

Jorge Teillier, Poesia per René Guy Cadou

 

Paesaggio sommerso. Entrai in te. In te io lentamente. Entrai a piedi nudi senza trovarti. Tu, invece, c’eri. Non mi vedevi. Non avevamo più un codice per dirci la nostra reciproca presenza. Incrociarsi così, soli, senza vedersi. Giallastri uccelli. Trasparenza assoluta della prossimità.

José Ángel Valente, Paesaggio con uccelli gialli, da Non si desta il cantore

Con questo scritto vorrei dar vita a una piccola rubrica su un argomento tanto ricco e appassionante quanto complesso e talvolta sfuggente: il rapporto tra poesia e musica. Rapporto su cui moltissimo si è scritto e le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Per circoscrivere il discorso alla cultura in cui sono nate le coordinate intellettuali all’origine del pensiero europeo, basterà ricordare che la poesia greca arcaica e classica, felicemente estranea alla nozione di letteratura, si costituisce come un’unione indissolubile di parole, musica e, per alcuni generi, danza: la μουσική τέχνη. Da questo momento in poi, con il mutare dei contesti storici, sociali e culturali, la storia del rapporto tra poesia e musica sarà quella del loro reciproco avvicinarsi e allontanarsi, del loro unirsi e scontrarsi. Di volta in volta musicisti, poeti, teorici, filosofi, intenderanno affermare la supremazia dell’una sull’altra, soprattutto in ambito teatrale. Non a caso – credo – i due generi storicamente più felici e fecondi in cui musica e poesia hanno saputo – e potuto – fondersi per dar vita a una forma d’arte nuova si siano originati e sviluppati a latere del turbolento mondo teatrale: penso al madrigale italiano (tra seconda metà del Cinquecento e prima metà del Seicento) e al lied romantico in Germania; due generi estremamente articolati e diversissimi per contesto storico – culturale, committenza, pubblico, intenzioni, forme e modalità espressive, ma che hanno in comune, oltre il rapporto indissolubile di parole e musica, il fatto che la musica nasca in seno alle parole. Come Michelangelo affermava che la forma della scultura si trovava già nel blocco di marmo e che il suo lavoro consisteva nell’eliminazione del superfluo, così il compositore scava nella pregnanza fonica e significativa della parola estraendone il materiale musicale.

In questa brevissima e sommaria ricognizione ho accennato al rapporto tra poesia e musica per come lo si è tradizionalmente sempre visto e interpretato: un compositore di musica sceglie, più o meno liberamente, un testo poetico e lo riveste di note, nei modi più diversi a seconda del periodo storico, della propria sensibilità, delle proprie coordinate espressive ed estetiche. Qualche esempio sparso: Claudio Monteverdi con i versi di Torquato Tasso e Giovan Battista Marino, Franz Schubert e Johannes Brahms con quelli di Goethe, Robert Schumann con quelli di Heine, oppure, abbandonando il campo della produzione vocale, Richard Strauss con i suoi poemi sinfonici ispirati a Cervantes e a Nietzsche.

Ma cosa accade quando, al contrario, è un poeta a “leggere” la musica? La storia di questo rapporto inverso è stata senz’altro meno indagata e risulta ancora più misteriosa e forse proprio per questo particolarmente fertile ed affascinante. Che la poesia abbia voluto elogiare la capacità connaturata alla musica di muovere gli affetti non è certo una novità. A sembrarmi degno di nota e indice di una sensibilità assolutamente nuova è che alcuni poeti, assai differenti tra di loro, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, si siano ispirati a composizioni musicali, molto spesso del Sei-Settecento, per creare testi in cui l’ascolto musicale informa di sé ogni livello (in particolar modo quello formale). A mio avviso il primo motivo d’interesse di questa operazione artistica risiede nella strutturazione, da parte del contesto culturale, di una coscienza storica criticamente fondata e stimolatrice di nuovi immaginari. Tale fu quindi il presupposto della creazione di nuove forme e sensibilità in grado di rivitalizzare, capovolgendolo, il rapporto tra musica e poesia.

La consapevolezza della distanza temporale che separa un poeta della metà del Novecento da un compositore del Seicento o del Settecento si carica così di significati inediti. La lontananza temporale suggestiona l’orecchio del poeta in grado di cogliere le più arcane risonanze del suono.

Negli accostamenti che vorrei proporre vedremo come le scelte e i gusti musicali di diversi poeti ricadano su composizioni che intendevano rappresentare o esprimere affetti (per usare il linguaggio tecnico di molta teoria musicale dei secoli XVII e XVIII) secondo modalità retoricamente connotate e ben riconoscibili. L’ipotesi che vorrei sostenere nel corso di questa rubrica è che certa musica altamente comunicativa, “parlante”, del Sei e del Settecento si presti particolarmente ad essere destinataria di sempre nuove attribuzioni di senso e possa maggiormente incontrare la sensibilità poetica di autori nati circa 250 anni dopo. Per noi, oggi, questo fatto ha profonde ripercussioni tanto sulla lettura della poesia quanto sull’ascolto della composizione musicale che l’ha originata: l’una si rispecchia nell’altra e i rispettivi significati si stratificano, creando connessioni e suggestioni. Forse questo è il risultato più ampio e misterioso al quale il dialogo tra le arti possa giungere: la contaminazione, cioè, di forme espressive, la costruzione di accostamenti e significati nuovi.

Il primo esempio che vorrei proporre riguarda due poeti, Paul Celan (1920-1970) e José Ángel Valente (1929-2000)[1], e un compositore a loro molto anteriore François Couperin (1668–1733). Entrambi i poeti sono stati profondamente suggestionati dall’ascolto delle sue Leçons de ténèbres, una composizione vocale sacra che lo vide impegnato presumibilmente tra il 1713 e il 1714. Le Leçons de ténèbres erano un genere destinato all’Ufficio delle Tenebre del Mercoledì, del Giovedì e del Venerdì Santo. Il testo è tratto dalle Lamentazioni di Geremia dell’Antico Testamento, nelle quali il profeta si dispera per la distruzione di Gerusalemme da parte dei Babilonesi (avvenuta nel 586 a.C.). In particolare, la devastazione del Tempio comportò una gravissima crisi dell’identità religiosa, politica e culturale del popolo ebraico. La solitudine di Gerusalemme, città un tempo domina gentium ormai quasi vidua, venne successivamente interpretata allegoricamente come figura della solitudine di Cristo tradito da Giuda e abbandonato dai discepoli, il che giustifica la tradizionale presenza di questi testi all’interno delle celebrazioni liturgiche della Settimana Santa. Anche il contesto in cui le lamentazioni erano eseguite rimanda alla sofferenza, al raccoglimento, alla meditazione piena di pentimento della comunità di fedeli che, dopo la crocifissione di Cristo, attende la sua resurrezione. Il riferimento alle tenebre[2] richiama ovviamente l’oscuramento del sole durante la crocifissione e veniva esplicitato “scenicamente” dallo spegnimento delle candele in chiesa (cerimonia che si ripete identica per ciascuno degli ultimi tre giorni della Settimana Santa).

Le Leçons di Couperin per il Mercoledì Santo per una e due voci e basso continuo sono caratterizzate da un’espressività costante, da un’ispirazione che commuove la mente e il cuore. Si tratta di musica che vuole parlare e lo fa con un recitativo appassionato, uno stile vocale, cioè, che vorrebbe avvicinarsi al linguaggio parlato, per quanto riguarda il testo del profeta Geremia. Le lettere dell’alfabeto ebraico che scandiscono il testo sono invece intonate con lunghi e statici melismi. Questa distinzione tra canto melismatico e recitativo avrà molta importanza nei versi di Valente, come vedremo.

Il 10 marzo 1957 Paul Celan compose la poesia Tenebrae, confluita nella raccolta Sprachgitter.

Nah sind wir, Herr,
nahe und greifbar.

Gegriffen schon, Herr,
ineinander verkrallt, als wär
der Leib eines jeden von uns
dein Leib, Herr.

Bete, Herr,
bete zu uns,
wir sind nah.

Windschief gingen wir hin,
gingen wir hin, uns zu bücken
nach Mulde und Maar.

Zur Tränke gingen wir, Herr.

Es war Blut, es war,
was du vergossen, Herr.

Es glänzte.

Es warf uns dein Bild in die Augen, Herr.
Augen und Mund stehn so offen und leer, Herr.
Wir haben getrunken, Herr.
Das Blut und das Bild, das im Blut war, Herr.

Bete, Herr.
Wir sind nah.

Vicini siamo, Signore,
vicini e afferrabili.

Afferrati già, Signore,
artigliati insieme, come se il corpo di ciascuno
di noi fosse
il tuo corpo, Signore.

Prega, Signore,
pregaci,
siamo vicini.

Sbilenchi andammo,
andammo a chinarci
su conca e cratere.

All’abbeveratoio andammo, Signore.

Era sangue, era,
quel che avevi versato, Signore.

Splendeva.

Ci gettò la tua immagine negli occhi, Signore.
Occhi e bocca stan così aperti e vuoti, Signore.
Abbiamo bevuto, Signore.
Il sangue e l’immagine ch’era nel sangue, Signore.

Prega, Signore.
Siamo vicini.

(trad. it. di Dario Borso)[3]

Questa poesia può essere una valida risposta, credo, alla questione sollevata da Theodor W. Adorno in Critica della cultura e della società (1949) secondo cui «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie». Ricordiamo che, prima ancora del verdetto adorniano, Celan aveva scritto Todesfuge (1944-1945), poco tempo dopo essere stato liberato dal campo di lavoro di Tabarasti (in Romania), poesia che nella lettera del 12 novembre 1959 a Ingeborg Bachmann definì «un’iscrizione tombale e una tomba», aggiungendo «anche mia madre ha solo questa tomba», e nella quale, al verso 6, compare per l’unica volta in tutto l’opus a stampa la parola Deutschland. Come ha scritto lo studioso Clemens-Carl Härle nell’articolo Auschwitz e i limiti della rappresentazione (2017), «il monito di Adorno ha sottovalutato la singolare capacità della poesia di decostruire e disarticolare la lingua mettendola in grado di dire l’orrore invece di ammutolire». Inoltre, è interessante notare come anche in questa poesia così importante, destinata a diventare la sua più celebre, composta 12-13 anni prima di Tenebrae, sia presente in maniera ancor più esplicita il riferimento a tecniche musicali: la fuga a cui rimanda il titolo è infatti un’importantissima forma contrappuntistica che attraversa la storia della musica dal Cinquecento a oggi. Sembrerebbe quasi che Celan ricorra all’elemento musicale come ad un incremento delle possibilità stilistiche, formali ed espressive per cercare di esprimere ciò che nessuna parola riesce a dire, ciò che nessuna immagine può rappresentare: l’orrore della macchina della morte, della Shoah.

In Tenebrae Celan dipinge l’umanità come vicina al Signore al punto tale da poter considerare il corpo di ognuno di noi il tuo corpo, Signore. Questa prossimità tra Dio e l’uomo è la condizione di un capovolgimento quasi blasfemo: è Dio a pregare gli uomini. In soccorso ci viene il discorso in occasione del conferimento del premio Georg Büchner tenuto a Darmstadt il 22 ottobre 1960, noto con il titolo Il meridiano. Qui Celan prospetta la possibilità che il poema diventi il luogo dell’«incontro […] con un altro non troppo lontano, anzi del tutto vicino»: il poema «si dirige imperterrito verso quell’altro che esso immaginava come raggiungibile, come suscettibile d’essere liberato». Forse questa stessa vicinanza tra l’io poetante e il tu cui si rivolge adombra la prossimità tra gli uomini e Dio, prossimità che Celan ricorda con grande intensità e che l’Olocausto potrebbe aver irrimediabilmente compromesso (pensiamo alle riflessioni del filosofo Hans Jonas nel suo Il concetto di Dio dopo Auschwitz). Quanto delicato sia l’equilibrio che regge tale prossimità si evince dalla tensione dialettica (evocata ne Il meridiano) tra la «lontananza dell’io» creata dall’arte e che rende l’io «dimentico di sé» e il poema, divenuto «nella sua più intima sostanza presenza e immanenza». Il poema è dunque il luogo in cui si realizza «il mistero dell’incontro»:

Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando; e vi si dedica. Ogni oggetto, ogni essere umano, per il poema che è proteso verso l’Altro, è figura di questo Altro.[4]

Queste parole possono costituire un primo ponte verso la musica di Couperin. Come i versi di Celan, le Leçons cercano un tu cui rivolgersi con urgenza, con tono appassionato. La prossimità costitutiva del fare poetico, la vicinanza – somiglianza tra Dio e uomo, trova un possibile riscontro nella qualità di canto che Couperin affida alla voce, o alle due voci. Questo aspetto potrebbe aver suggestionato Celan, anche tenendo conto del valore che assume all’interno de Il Meridiano il respiro, concetto tra i più musicali in assoluto, intrinsecamente legato all’atto stesso di cantare e più in generale di far musica:

Poesia: ciò può significare una svolta del respiro.[5]

Come scrive Osvaldo Bevilacqua, «l’Atemwende è il momento, la pausa impercettibile in cui l’essere vivente passa dall’inspirazione o viceversa; […] ma cosa accade se l’aria ci viene sottratta o si fa irrespirabile? Il respiro diventa rantolo, esso basta ormai soltanto per un grido».[6] Il grido è innanzitutto quello della storia, dello scandalo della storia, in particolar modo di quel 20 gennaio 1942 (data cui si allude costantemente nel discorso Il meridiano), quando ebbe luogo la Conferenza di Wannsee con l’obiettivo di pianificare la Soluzione finale alla “Questione ebraica”.

Per Celan ascoltare le Lamentazioni di Couperin e fare poesia significa innanzitutto meditare sulla storia e precisamente su quel terribile 20 gennaio 1942. Il lamento per Gerusalemme distrutta diventa il lamento per l’Olocausto, la solitudine e le lacrime sono quelle di chi si è visto privare di tutto: proprietà, affetti, dignità, vita. E quanto più sognante e dolcemente malinconica potrà apparire la musica di Couperin, tanto più crudelmente in essa si specchierà la memoria storica – le lacrimae rerum – di cui è intessuta la poesia di Celan.

 

Una sensibilità molto diversa guida José Ángel Valente nell’istituire una correlazione tra le sue Tres lecciones de tinieblas (1980) e le Leçons couperiniane. Innanzitutto, il rapporto tra invenzione poetica e ascolto musicale è molto più stretto ed esplicito che non in Celan. Lo si evince dall’importante Autolectura che segue i versi:

I testi di “Tre lezioni di tenebre” traggono origine dalla musica. Innanzitutto, e prima che in qualsiasi altra, dalle lezioni di Couperin. Poi da quelle di Victoria, Thomas Tallis, Charpentier, Delalande. Dal lento stratificarsi di quelle composizioni è disceso o si è formato un unico principio d’avvio o movimento primario, quella sorta di movimento che è sotteso a ogni progressione armonica e che è detto propriamente “Ursatz”. […] Quello che in musica si chiama variazione in questa prospettiva sarebbe una modalità di meditazione creativa sul movimento primario, su di una forma universale. […] Tutte le lezioni di tenebre, genere sacro sperimentato da tanti grandi maestri, hanno la medesima struttura. In essi si canta una lettera dell’alfabeto ebraico e a seguire un frammento delle Lamentazioni del profeta Geremia. Se contemplate nel loro insieme, le lezioni presentano due assi principali. Uno verticale e uno orizzontale. L’asse verticale è quello delle lettere, che consentirebbero di leggere, come in un acrostico, tutto il linguaggio e in esso tutta l’infinita varietà della materia del mondo. L’asse orizzontale è l’asse della storia, l’asse della distruzione, della solitudine, del dolore, del pianto del profeta […].[7]

I due elementi individuati da Valente, quello orizzontale e quello verticale, creano una spazialità squisitamente musicale (oltre che ben evidente sulla pagina scritta): la verticalità dell’armonia è legata indissolubilmente all’orizzontalità della melodia; inoltre, immettono nell’orizzonte poetico il concetto di archetipo, dunque di sovra-storico e simbolico: le lettere ebraiche sono «le forme archetipiche dello spessore e della trasparenza della materia e della loro perpetua resurrezione»[8].

Questa è la prima grande differenza rispetto alla poesia di Celan: il tempo storico è il tempo della lacerazione, del caotico multiforme intriso di dolore, mentre il tempo della lettera è sovra-storico, unitario, originario e immutabile. Il rapporto tra uno e multiplo, tra l’espressione individuale del dolore e la sua oggettivazione in simbolo (la lettera), origina la forma del componimento poetico e tale forma – afferma Valente – non fa altro che tradurre quella musicale di Couperin:

Nella loro forma musicale, le lezioni riflettono la medesima struttura. Chiunque ascolti le lezioni di Couperin coglierà subito nel testo delle Lamentazioni un canto che discende da uno stile personale e da un’epoca. Inoltre, questo è un canto narrativo. Diversamente, il canto delle lettere non è soggetto alla contemporaneità e porta in sé forme molto più antiche, forse derivate dal canto sinagogale; per di più il canto delle lettere non possiede una storia, perché è un canto melismatico.[9]

A interessare Valente e soprattutto la forma musicale, tanto più che nel caso di Couperin la forma si origina proprio dall’alternanza stilistica e simbolica delle due modalità di canto, così diversamente e storicamente connotate: il recitativo tipico della musica francese della prima metà del 1700 da un lato, il canto melismatico di ascendenza sinagogale dall’altro.
Se per Celan il tempo era prima di tutto il tempo della storia, per Valente quest’ultimo è in costante dialogo con il «tempo delle lettere», il tempo dello stare, verbo caro a Valente, titolo di un’omonima poesia da Al dio del luogo (1989):

              No hacer.
En el espacio entero del estar
estar, estarse, irse
sin ir
a nada.
                A nadie.
                                  A nada.

                 Non fare.
Dentro lo spazio intero dello stare
stare, starsene, andare
senza dirigersi
a niente.
                 A nessuno.
                                     A niente.[7]

Il riferimento a questa condizione passiva compare anche in una breve prosa metapoetica all’interno della raccolta Mandorla (1982):

SCRIVERE è come la secrezione delle resine; non è un’azione, ma lenta formazione naturale. Muschio, umidità, argilla, fango, fenomeni del suolo, e non del sonno o dei sogni, ma della melma scura dove fermentano le figure dei sogni. Scrivere non è fare, ma prendere dimora, stare.[11]

Ascoltiamo ora l’intonazione che Couperin riserva ad una qualsiasi delle lettere ebraiche. Mentre il recitativo “storico” rientra nella sfera del fare, i melismi archetipici dimorano nella melma scura dove fermentano le figure dei sogni; e questo dimorare va interpretato soprattutto nella sua accezione latina (il verbo mŏror), strettamente legata alla dimensione temporale: attardarsi, sospendere, fermare, ma anche avvincere, accattivarsi.

Per Valente la dimora, la sospensione del tempo conducono a quell’idea di prossimità che era emersa nel caso di Celan e che Valente cita esplicitamente nella sua Autolectura quando definisce le Tres lecciones «canto della germinazione e dell’origine o della vita come imminenza e prossimità»[9]. «Lascia che arrivi a te ciò che non ha un nome» si legge alla lettera JHET: quando il tu farà esperienza di quella speciale condizione di dimora, l’anonimo, l’humus della terra, il lato più umbratile delle cose, immerse ancora in uno stadio pre-nominabile, si faranno avanti al suo cospetto

perché possa nascere così sopra l’ombra il segno: tracciare i segni: segni o lettere, numeri, la forma: dar nome a quello che ci è dato: cieco battesimo della luce: il raggio.[13]

Evidentemente i due poeti muovono da intenzioni espressive, comunicative e stilistiche lontane: la musica delle Leçons ha saputo diversamente risuonare in ognuno dei due, suscitando in Celan una straziante preghiera capovolta, in Valente una riflessione sulla «lenta formazione naturale» dell’antepalabra, la parola essenziale, archetipica, non contaminata dalla storia, ma che con la storia deve inevitabilmente rapportarsi e scontrarsi. Credo che un punto di incontro tra i due poeti consista proprio nella parabola tracciata dal respiro, alito di preghiera in Celan, seme nel quale discendere in Valente[14], alla prossimità, luogo misterioso in cui la creazione artistica, con tutta la sua valenza storica e simbolica, diventa segno per eccellenza: σημεῖον, traccia di memoria e indizio cifrato per tentare di orientarci nell’assenza di senso della storia e del dolore, nel viaggio verso l’Altro.

***

[1] Un nesso tra Celan e Valente esiste. Celan è presente in modo esplicito in almeno due componimenti di Valente: in Mandorla (dall’omonima raccolta del 1982) e in Ricordo di Paul Celan (da Frammenti di un libro futuro, 2000).

[2] Vedi il testo del celebre Responsorio Tenebrae factae sunt.

[3] Paul Celan. L’antologia italiana. A cura di Dario Borso. Nottetempo 2020.

[4] Paul Celan. La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose. A cura di Giuseppe Bevilacqua. Einaudi Torino 1993, pag. 16.

[5] Paul Celan, cit., pag. 13.

[6] Paul Celan, cit., pag. XVII.

[7] José Ángel Valente. Per isole remote. Poesie 1953-2000. A cura di Pietro Taravacci. Metauro 2022, pag. 275-277.

[8] J. A. Valente, cit., pag. 277.

[9] J. A. Valente, cit., pag. 277.

[10] J. A. Valente, cit., pag. 326-327.

[11] J. A. Valente, cit., pag. 293.

[12] J. A. Valente, cit., pag. 277.

[13] J. A. Valente, cit., pag. 273.

[14] J. A. Valente, cit., pag. 271: HE […] assieme a te son sceso al seme del respiro: al fondo: con la mia bocca ho bevuto il tuo respiro: non ho bevuto il visibile.

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Il «teatro fuori quadro» | Una nota di lettura su Posti a sedere di Luciano Mazziotta (Valigie Rosse, 2019)

Luciano Mazziotta (Palermo, 1984) vive a Bologna e insegna Letteratura italiana nei licei. Dopo Città biografiche (2009), nel 2014 è uscito il suo secondo libro di poesie Previsioni e lapsus (Zona). In questa nota di lettura Francesca Mazzotta presenta l’ultima raccolta del poeta, intitolata “posti a sedere” (Valigie Rosse, 2019)

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