Inediti, Gerardo Iandoli
Il fondo è soffice di questa culla
e il pianto del nascituro cristallizza
il tempo in macchie di attesa.
Ora il suono si fa diverso, poi
si stenta in una sorta di fischio:
ingranaggi trovano il giusto posto
e il pianto riparte. Un drone inciampa
in quelle onde e si tuffa dentro di esse:
non fa in tempo a riconoscere il figlio
in quella culla, un missile che si spezza
sotto la coperta e si espande in sorda
fiammata, che forma un pianto di fili.
Albero è il termine del nulla in questa
terra: eppure, lì le fronde resistono
allo sbattere di robot contro il tronco.
I rami fondono la materia degli anonimi
e assorbono come siringhe i loro
metalli: le foglie mutano in lamine
e il destino è l’autunno, una caduta
che dà sfogo al taglio
in una ferita senza più corpo.
Il tozzo naso trionfa sulla faccia
e la fronte è fissa sulla sbarra:
la materia delle mani è la stessa
di quella delle catene. Un fuoco
si accoccola intorno al catturato:
si conia un nuovo colosso, assorto
per quei suoi occhi ormai fusi nel ceppo:
lo sguardo occluso gusta di ruggine,
acre come l’approdo sul pattume.
Alla stazione dei treni uno schermo recita:
«Allora Dio, nel settimo giorno portò
a termine il lavoro immaginato
e si liberò da ogni sua fatica».
Nella sala d’aspetto, più nessuno.
Il signore della città è lo scavatore
che nei secoli dei secoli scassa
tutto il creato, per un ordine dato
il lunedì di un giorno d’apocalisse.
Veglia l’aracnide tra gli asteroidi:
la sua rete è un campo magnetico
che attrae i resti delle derive antropiche.
Ogni cattura emette un bagliore
e per un attimo si disvela il bottino:
una metropoli di morte memorie
buttate sugli scaffali dei sogni
come un tempo si faceva coi corpi
appena dopo l’orgasmo di coppia.
Il mostro non è padrone di niente:
può solo riparare coi pezzi che prende
i punti stanchi della sua rete,
perché dall’accumulo non c’è uscita
e lo spazio aperto è ormai paranoia.
C’è un che di umano che striscia laggiù:
la telecamera si sofferma sui bordi.
Uno spasimo, poi scatta l’allarme:
immerso nel rosso quel corpo sparisce.
La luce e il rumore riempiono l’aria
ma vuoto resta il soccorso: del liquido
invade l’asfalto, e il volto di un santo
appare spiritoso come una sentenza.
Una discarica di occhi di robot
si fissa sul crescere della Luna:
una fontana fantasma si forma
tra i riflessi delle mille pupille.
Un tenero tuono in lampo si ammuta
e il vuoto di mani è il solo rumore.
Nota biografica
Gerardo Iandoli (Avellino, 1990) si è laureato a Bologna in Italianistica e ha conseguito un dottorato in Lingua, Letteratura e Cultura Italiana presso l’Università di Aix-Marseille. Si occupa di rappresentazioni della violenza e del potere nella letteratura italiana contemporanea. Scrive di poesia per “Strisciarossa” e di narrativa per “Argo”. Ha pubblicato la raccolta di poesie “Arrevuoto” (Oèdipus 2019).