Isolatria. Una possibilità di lettura postcoloniale dell’opera di Antonella Anedda

Si propone la relazione riveduta di Francesco Ottonello tenuta al convegno dell’Università di Napoli L’Orientale “Isole e ponti. Per una topologia linguistica e letteraria dell’isolamento” (18-20 ottobre 2021 - Palazzo Corigliano, Napoli). Una lettura critica dell'opera di Antonella Anedda attraverso una peculiare ottica postcoloniale, connessa alla dimensione dell’isola.

Antonella Anedda, scrittrice di origini sarde (Roma 1955) riconosciuta dalla critica – da Andrea Afribo (2007) a Enrico Testa (2005) – tra i più considerevoli poeti italiani a cavallo tra Novecento e anni Duemila, ha fatto dell’isola e della relazione tra insularità, «insularity», o meglio isolanità, «islandness» (Baldacchino 2004: 272), e mondo esterno un perno della sua scrittura. Intendo qui proporre per la prima volta un’analisi della sua opera attraverso una peculiare ottica postcoloniale, connessa  alla dimensione dell’isola, che intendo approfondire ulteriormente in sede di Atti di Convegno e nella ricerca futura. 
Prima di passare ad alcuni riferimenti testuali, ritengo necessario presentare delle osservazioni che tengano conto sia dei Postcolonial Studies – in particolare di Poétique de la Relation di Edouard Glissant – sia di vari contributi connessi agli Island and Archipelagic Studies di più recente fondazione. Come ha sottolineato James Randall in An Introduction to Island Studies (2021), lo studio delle isole permette di cogliere la sconcertante varietà del significato di isola e usarla come uno strumento per capire meglio il nostro mondo. Parliamo, dunque, di un campo interdisciplinare e transculturale per eccellenza – dalle isole come hotspot di biodiversità e dall’analisi geologica della loro formazione, passando per i fenomeni di migrazione umana, alla presenza delle isole nell’immaginazione popolare e al loro uso metaforico nella cultura e nella letteratura. Una radice di questi studi – come riporta Laurie Brinklow (2011) – potrebbe essere ricercata nella biogeografia insulare, poiché le isole sono paradisi e luoghi di riproduzione per l’unico e l’anomalo, laboratori naturali per una stravagante sperimentazione evolutiva. Come David Quammen evidenzia in Song of the Dodo. Island Biogeography in an Age of Extinctions (1996), Charles Darwin stesso era un biogeografo di isole prima di essere un darwinista e non a caso Anedda ha svolto un lavoro di ricerca su Darwin e Leopardi (come tesi di dottorato all’Università di Oxford), che è sfociato in un saggio, dal titolo Le piante di Darwin e i topi di Leopardi, in uscita per Interlinea (2021). 
Eppure la traccia più remota si può riscontrare dal punto di vista letterario proprio nell’Odissea di Omero. John Gillis in Islands of the Mind (2004) mette in luce che i greci pensavano ‘con le isole’ molto prima di averle colonizzate, tantoché il poema omerico resta la storia insulare per eccellenza della partenza e del ritorno. Le isole si distinguono da altre forme spaziali per il posto che occupano archetipicamente nella nostra psiche collettiva, avendo uno «statuto poliformo» e «utopico» come evidenziato da Franciscu Sedda in Isole. Un arcipelago semiotico (2019: 10). Le isole sono, dunque, spazi reali costantemente rimodellati dal nostro immaginario (Fougère 1995: 303), che possono rappresentare un imperativo creativo in sé e per sé. Questo non significa, tuttavia, che l’isola si astragga in pura fantasia quando entra in forme di espressione creativa come la letteratura (McMahon, André 2018: 296).

Nel caso di studio preso in esame,  l’isola non rappresenta soltanto una metafora letteraria, ma anche nella sua consistenza biogeografica esercita una funzione fondamentale nello sviluppo dell’immaginario del poeta. Possiamo dire che l’isola ha un ruolo intrinseco alla poetica di Anedda, poiché con il suo portato simbolico-archetipico e biografico-esperienziale reca dei risvolti che riguardano scelte non meramente tematico-contenutistiche, ma primariamente stilistico-linguistiche. 
Per potere comprendere fino in fondo tutto ciò, ritengo determinante considerare una peculiare ottica postcoloniale. È necessario rilevare, innanzi tutto, un decisivo scostamento dal punto di vista letterario dalla centralità della tradizione italo-latina e in senso più ampio da quello che da una prospettiva sarda è chiamato ‘Continente’, lemma utilizzato insieme a ‘continentale’, nell’italiano regionale della Sardegna per indicare rispettivamente qualsiasi territorio o persona estranei all’isola Sardegna, sia in Italia, Sicilia compresa, sia all’estero (Dettori 2007). Secondo Glissant fu l’Impero Romano a mettere in atto «la pulsione di un identitario universale» (2019: 32), con la generalizzazione di un’identità che si espande per il continente – in antitesi a quella delle isole, in cui si preserva maggiormente la singolarità – tanto che Roma progressivamente non venne più soltanto intesa in senso fisico, risultando come qualsiasi luogo dove il conquistatore si trovava e che era stato sottomesso. A causa della sua natura versatile e ibrida (Lestringant 2002) e persino paradossale (Girault-Fruet 2010), la prospettiva dell’isola può rappresentare un locus di critica permanente a istituzioni, costumi e idee dominanti. Considerando anche la distanza che sta alla base del genere satirico, le isole possono essere lette in senso postcoloniale come ciò che Michel Foucault chiama hétérotopies: spazi di alterità, ovvero contro-spazi di utopia effettivamente messa in atto, in cui i siti reali che si possono trovare all’interno della cultura sono simultaneamente rappresentati, contestati e invertiti (1984: 46-49). 
Anedda intende dare ascolto alle voci delle isole intese in senso non tanto geografico, ma più che altro storico-politico, ossia quelle escluse dalla narrazione dominante. Non si può prescindere da una prospettiva storica, che risulta fondamentalmente nel significato etimologico, erodoteo, di storia come ricerca di tracce. L’ultima silloge poetica di Anedda non a caso si intitola Historiae (2018) ed intesse un costante parallelo con Tacito, a partire dal titolo e dalle varie citazioni presenti nel libro. L’autore latino è scelto – afferma Anedda – perché «nella sua freddezza è uno dei pochi che dice noi, ammette noi Romani abbiamo fatto un deserto e l’abbiamo chiamato pace» (Ottonello 2020a), oltre che per uno stile antiretorico e un’asciuttezza linguistica (Ottonello 2020b: 584-590). La rilettura della storia come ininterrotto massacro in rapporto con l’autore latino ha un filtro  possibilmente anche da Seamus Heaney, grande lettore di Tacito, che nel suo discorso per il Nobel pensando a Tacito parlò di storia «as instructive as an abattoir» (1995). Quello di Anedda è uno sguardo antropologico, deliberatamente scostato dal Continente, che si pone dalla parte dei vinti della storia. Questo aspetto è evidente sin dagli esordi e in particolar modo nella silloge centrale della sua produzione, Notti di pace occidentale (1999), con un legame con la Guerra dei Balcani, a cui si oppone la pace occidentale come vacua tregua. Pertanto, la dimensione dell’isola diviene un punto privilegiato di osservazione del mondo; il rapporto tra isolanità e creazione poetica viene tematizzato in numerosi passi, ad esempio quando l’Io esplicita:

«la lentezza mi viene dal silenzio 
e da una libertà – invisibile – 
che il Continente non conosce
l’isola di un pensiero che mi spinge
a restringere il tempo
a dargli spazio
inventando per quella lingua il suo deserto» (1999: 16).

Questa differenza non è da improntare a una tradizione novecentesca, nonostante di isole riflettano vari poeti che potremmo chiamare ‘continentali’, da una prospettiva insulare sarda. Se pensiamo ad Alfonso Gatto, l’isola non è soltanto da intendersi quale «reiterata introflessione dell’io» (Ramat 2017: 2), ma è la poesia stessa a essere un universo che ha a che fare con l’archetipo dell’isola. Indicativo a questo riguardo l’incipit del suo libro di esordio, Isola (1932):

«In ogni gioia breve e netta scorgo il mio pericolo.
Circolo chiuso ad ogni essere è l’amore che lo regge.
Tendo a questo dubbio intero, a un divieto in cui
cogliere il sospetto e la lusinga del mio movimento.
Universo che mi spazia e m’isola, poesia».

Troviamo qui alcune espressioni fondamentali per un discorso sulle isole: da una parte il «pericolo» del «circolo chiuso», dall’altra la «tensione» e il «movimento». In Anedda, però, l’isola si arricchisce di maggiore concretezza rispetto a quella ermetica di pieno Novecento che, come espresso nella poesia L’isola di Giuseppe Ungaretti del 1925, configura l’isola non tanto in senso biogeografico (infatti il poeta pensa a Tivoli), ma puramente metaforico, accentuando il carattere di isolamento psicologico e separatezza interiore dal resto del mondo.
L’isola di Anedda, invece, si configura nella sua concretezza geografica e fisica tanto da essere «incarnata nella Sardegna originaria» come scrive Giuliana Adamo (2012: 462), con rimandi tuttavia anche alla Corsica, a La Maddalena e ad altre isole e arcipelaghi dalla Grecia al Giappone. Eppure, vi troviamo anche un’altra configurazione metaforica, con quella che chiamerei ‘isola aperta’, ovvero isola tesa a una configurazione in arcipelago, da leggersi come eterotopia. Non mi focalizzerò qui sulle numerose occorrenze testuali insulari, per cui si enfatizzano per la Sardegna soprattutto gli elementi del vento, dell’acqua, in un paesaggio scabro, silenzioso e al contempo smisurato, in consonanza – se vogliamo – con alcune osservazioni di cento anni fa di D. H. Lawrence, presenti in Sea and Sardinia. L’autore inglese aveva infatti acutamente colto che «la Sardegna è un’altra cosa» rispetto all’Italia, «più ampia […] ma che si perde in lontananza», caratterizzata da «distanze da viaggiare» con «nulla di finito, niente di definitivo» che richiamano la «libertà stessa» (2000: 117-118).
Dunque, da una parte, nella poetica e nell’opera di Anedda vige una Isolatria, da intendersi come forza incontrovertibile di ancoramento-respingimento per l’isola in senso archetipico, neologismo che dà il titolo a un suo peculiare libro in prosa prossimo al resoconto di viaggio (2011). Isolatria si apre con queste parole: «La prima lezione delle isole è che non puoi andartene a piedi»; dunque «la costrizione aumenta il desiderio della distanza» (2011: 3). La scrittrice ci parla di un «ammaestramento» di «solitudine» e di «modestia» (2011: 4) che impartisce l’isola. Si configura una peculiare solitudine che accomuna gli isolani, legata alla perdita e allo sperdersi, ma al contempo l’isola configurandosi come luogo in cui ci si ritrova e si tende a tornare, nella realtà o nel sogno, con angoscia o gioia, in una certa consonanza con l’idea di isole deserte di Deleuze (2007).
D’altra parte, il discorso sulle isole si inserisce in una questione linguistica e lato sensu politica, innestandosi in una costante ricerca di una lingua – che pervade l’intera opera di Anedda – che non sia solo propria ma possa parlare per gli altri. Come scrive Riccardo Donati il suo «idioletto» è «intimo, familiare, e, a suo modo, “straniero” […], oltre che alternativo a quello patriarcale del potere». Questo aspetto viene tematizzato in alcuni versi di Notti di pace occidentale con un riferimento capovolto rispetto all’osservazione del dominus della lingua italiana, Dante, rivendicando quello strano volgare isolano che secondo l’esule fiorentino i sardi ottenevano imitando grammaticam tamquam simniae (De vulgari eloquentia I.11.7):

«Perciò sospendi tu la quiete
prova a rovesciare il dorso della mano
a raggiungermi nel nome di una lingua sconosciuta
perché parlo da un’isola
il cui latino ha tristezza di scimmia» (1999: 20).

La questione linguistica si evolve nei libri successivi in un discorso leggibile con una peculiare ottica postcoloniale in particolar modo dalla silloge Dal balcone del corpo (2009), in cui Anedda approda alla scrittura in limba (letteralmente ‘in lingua’), espressione con cui i sardi indicano il proprio idioma, non dunque l’italiano, parlata del continentale, del conquistatore. Una poesia in particolare rende conto dello scostamento dalla posizione di dominio continentale di matrice latino-italica, intitolata Contra Scaurum, riprendendo l’orazione Pro Scauro di Cicerone e capovolgendola in senso linguistico (scrittura in limba sarda), antropologico (il punto di vista è quello dei Sardi e non del latino Cicerone), politico (l’Io è eticamente dalla parte dei vinti e non dei vincitori).
Bisogna considerare in ogni caso, come ha fatto Giuseppe Marci in maniera lucida e profusa, il plurilinguismo che ha caratterizzato la storia della letteratura della Sardegna (2005), tra diverse varietà di sardo, italiano, castigliano, catalano e latino. Anedda in questo caso contamina la lingua del conquistatore, non avvertita in toto come propria, con un sardo inventato, a sua volta ibrido e impuro, a base logudorese-nuorese, con incursioni dell’altra variante campidanese, ma soprattutto inflessioni galluresi-maddalenine, mostrando in definitiva un’appartenenza imperfetta alla limba. Coerentemente Anedda scrive che la sua poesia è possibile soltanto «in traduzione» nel testo incipitario di Historiae, dandosi in una «limba mia» inventata «impastandola al passato» (2018: 5). In un’altra poesia indica che tra le due lingue «nulla est mia» (2018: 80), «né limba de oro» (sardo logudorese) «né italiano», restando solo «su disizu misturazu», il desiderio mischiato, in cui la lingua del colonizzato e del colonizzatore non sono in antitesi, mostrando un’identità ancipite, anche qui con un parallelo percorribile rispetto al discorso di Glissant sulla creolizzazione. Nella seconda parte della poesia, con un sostrato tacitiano (penso alla Germania nello specifico), troviamo ancora una prospettiva latino-italo-centrica rovesciata. In questo caso, i «suoni più barbari, affiorano misti di spine e rovi» e «resistono» – quelli della lingua sarda – venendo accostati alle sonorità tipiche dei «Germani», anch’esso popolo vinto e al contempo indomito, che «incupivano la voce schermandola di scudi». Anche qui la prospettiva postcoloniale si amplia rispetto alla questione sarda, per riflettere su una geografia e storia espanse, contrapponendo alla latinitas, di cui si serve, il valore della ‘barbaricità’ che resiste. Pertanto, si configura una lingua-ponte possibile solo in traduzione, in una prospettiva rovesciata rispetto all’Io latino-italico maschile e continentale. Quella dell’Io poetico aneddiano è una «Limba-matre» che è anche «Fiza-limba» (lingua figlia) e se «Babele s’isparghet», ovvero la confusione linguistica si espande, dagli albori dei tempi, non si può che andare alla ricerca delle tracce di ciò che si è smarrito «cancellando […] ogni genealogia» (2018: 79): ovvero testimoniare una storia altra attraverso la poesia, ovvero condurre una ricerca intessendo relazioni tra isole.

Per dirla con María Zambrano «Una isla es para la imaginación de siempre una promesa» (2007: 3). Eppure, come ricordano McMahon e André (2018), quando la profonda ontologia dello spazio e dell’identità dell’isola diventa strumentalizzata nei processi di colonizzazione, le isole si presentano all’occhio imperiale come colonie naturali (Caraibi), laboratori naturali (Galápagos, Australia), prigioni naturali (Van Diemen’s Land, Tasmania), lazzaretti naturali (Isla de Flores, Moloka’i) e tenute naturali o piantagioni (Barbados) (cf. Grove 1995). La letteratura è uno dei siti chiave dove questo labirinto di proiezioni, sia consce che inconsce, è criptato e attraversato. Perciò il suo esame ci permette in modo particolare di svelare il desiderio o la resistenza coloniale e rintracciare le sue operazioni nella storia.
Se letture postcoloniali sono state condotte soprattutto per quanto riguarda il mondo anglosassone e francese, anche la Sardegna a mio avviso potrebbe essere letta all’interno del panorama italiano, con le sue peculiarità storico-culturali, come terra colonizzata, dalla cosiddetta conquista di Roma (238 a. C.) alla presenza di Vandali, Bizantini (Alto Medioevo) e Pisani, Genovesi (Basso Medioevo), dal dominio aragonese (1323) e poi castigliano (1479) al passaggio ai Savoia (1720), con conseguente formazione del Regno di Sardegna, poi Regno d’Italia e in seguito Repubblica (1948). Nella poesia di Anedda ritroviamo poi una vicinanza tematica, per l’attenzione ai vinti e ai sardi nello specifico come vittime di soprusi, con l’opera di veri e propri poeti in limba sarda, da Peppino Mereu (1872-1901) ai maggiori poeti sardi del secondo Novecento della tradizione a taulinu (‘a tavolino’, scritta), rispettivamente Frantziscu Masala (1916-2007) e Benvenuto Lobina (1914-1993). Come afferma Maurizio Virdis «scrivere in Sardo, comunque, significa innanzitutto stabilire un rapporto, sempre complicato, con la lingua dominante […] e necessariamente fare i conti con la storia» (2017: 17).
In definitiva, nell’opera di Antonella Anedda, l’isolamento inziale del poeta con la sua sfida all’incomunicabilità si trasmuta in una possibilità di connessione in arcipelago, come nuova dimensione di collegamento individuo-individuo, individuo-mondo. La configurazione archipelagica – che resta, forse, fondamentalmente utopica, un ‘sogno di arcipelaghi’ – ovvero quella da isola a isola, si mostra nell’accoglimento dell’altro attraverso la ricerca di una lingua rinnovata proprio in virtù della sua isolanità aperta, tesa al dentro come al fuori, capace di inglobare la tradizione di matrice latino-italica e di capovolgerla da un’ottica sardo-insulare, attraverso filtri provenienti da altre discipline (scienza e arti visive in particolar modo) e letterature di altre ‘isole in connessione’ – dalla francese alla russa, dalla tedesca alla giapponese; Nomi distanti (1998) non a caso è il titolo del suo quaderno di traduzioni. La poesia di Anedda, di respiro transnazionale, non è infatti incasellabile in una netta linea italo-centrica, essendo la tradizione stessa a essere riletta come rizoma (Deleuze, Guattari 1980) piuttosto che come radice. Anedda esprime la crisi di un punto di vista dell’Io continentale e l’eterotopia dell’isola diviene così la dimora di un soggetto poetico postcoloniale, lungi da essere assoggettato ai confini della marginalità, ma rivendicando lo spazio abitato del possibile.

Bibliografia

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John Taylor, poesie, poesia contemporanea, america, italia, francia, Caroline François-Rubino, Marco Morello, Remembrance of Water & Twenty-Five Trees

Jhon Taylor | da “Remembrance of Water & Twenty-Five Trees”

Presentiamo tre poesie di John Taylor, poeta americano, residente in Francia dal 1977, che ha pubblicato nel 2018 il suo libro: “Reebrance of Water & Twenty-Five Trees” (Bitter Oleander Press, 2018). I testi sono accompagnati dad una lettura ad alta voce dell’autore e dai dipinti dell’artista francese Caroline François-Rubino. I testi sono pubblicati in lingua originale, insieme alla traduzione di Marco Morello

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Mario Benedetti (1955-2020) | Oltre la perdita e la dispersione

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Nouri Al Jarrah e le vaghe stelle del lutto

Per il nuovo numero della rubrica “Tra due esili” sulla poesia araba, si propone un articolo di Emanuele Bottazzi Grifoni su “Una barca per Lesbo” (L’arcolaio, 2018), del poeta siriano Nouri Al Jarrah. Traduzione di Gassid Mohammed.
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