La Generation ‘П’ di Viktor Pelevin: capitalismo e letteratura nella Russia post-sovietica

Presentiamo alcune riflessioni di Riccardo Cabitza sul romanzo postmoderno "Generation ‘П’" (1999, "Babylon", 2000, in traduzione italiana) di Viktor Pelevin, uno degli scrittori di punta della letteratura russa contemporanea. Copertina: Vasilij Kandinskij, Primo acquerello astratto, 1910.

In Russia c’è stata una generazione fregiatasi del privilegio di traghettare il suo Paese verso le distese rigogliose del paradiso liberista, una generazione slanciata e dinoccolata, che già all’alba degli anni ’80, nella profonda steppa comunista, veniva sfiorata dal vento occidentale. Dieci anni più tardi ne verrà completamente travolta, svoltando l’incrocio, e si ritroverà a costeggiare decadenti palazzi di un’ideologia ormai usurata, fino ad allora ritenuta eterna.

All’insegna di questo clima si apre il romanzo di Viktor Pelevin Generation “П” (1999; tr. it. di K. Renna, T. Olear, Babylon, Mondadori 2000), con il simulacro del prodotto, la Pepsi (da cui Generation P); intenta a sgrassare via l’eternità dai piedistalli, mentre, alle sue spalle, il popolo consumava l’interramento dell’ideologia preesistente nella fenditura scavata dal coltro capitalista. Crebbe così una ricerca galoppante quasi in senso dogmatico del profitto, orbitante intorno ai moderni mezzi di comunicazione americani; il motto cedette il passo allo slogan, e venne insegnata la perizia nella ricerca di opportunità.

I cingoli della pubblicità irruppero quindi a Mosca e imposero agli acclamanti una scelta: soccombere o salire sul carro prosperoso del denaro facile. Il microsistema delineatosi, in cui cacciatori e prede si rincorrevano fino a venir fagocitati da chi, nella piramide sociale, giaceva sopra di loro, non consentiva al singolo individuo di emergere pienamente, se non sotto l’egida di una grande azienda nutrita dal sole della deregolamentazione economica.

Il protagonista Vavilen – che il narratore chiama sempre con il cognome Tatarskij – come tanti altri russi deve, dunque, incunearsi nella caotica realtà post-sovietica. Poeta alle prime armi, sfumato l’ingresso presso il dipartimento di poesia dell’Istituto letterario, studierà tecniche di traduzione delle lingue dei popoli dell’URSS. Dopo la caduta del regime, tra le alternative racimolate, emergerà dal setaccio l’impiego presso un chiosco di ceceni, in cui manifesterà fin da subito una scaltra maestria chiromantica unita ad un variopinto cinismo.

L’anti-stachanovismo che lo contraddistingue faciliterà l’incontro con un vecchio compagno di studi che, prendendo inaspettatamente la funzione di donatore fiabesco, rivestirà l’eroe postmoderno di allettanti scenari, intarsiando la sua curiosità.

Consacrato frettolosamente alla carriera del copywriter, sotto un pacco di Davidoff ritirerà il nullaosta per il nuovo impiego, su cui, con l’impacciataggine dell’ultimo arrivato, tenterà di scarabocchiare la propria poesia. Tatarskij si mostra desideroso nel vendere la propria sophia al miglior offerente; si cimenta, pertanto, nella creazione di slogan pubblicitari, capaci di sgusciare nella mente del cittadino russo e di immergerla nella stessa sensazione di vuoto che ricopriva a lutto la statua di Karl Marx in piazza Teatralnaya, sanabile unicamente attraverso l’acquisto del prodotto promosso. Pelevin assegna a Tatarskij una riflessività laboriosa e disciplinata, in grado di flettersi al repentino mutamento della dimensione temporale, dove l’immutabilità collettivista lascia presto il passo al presente elargito alla spicciolata, Davidoff dopo Davidoff.

A Pelevin non interessa descrivere l’universo consumistico in senso generale, affiora piuttosto la volontà di circoscrivere l’indagine all’impatto che esso produce nella società russa. La discrasia tra l’eterno diroccato e il concreto orizzonte quotidiano accompagna, dunque, costantemente il protagonista; a questa frattura si sovrappone l’eco del passato mitico, quello delle ziggurat e delle divinità babilonesi, un territorio lontano nello spazio e nel tempo in cui viene profetizzata la sorte del kosmos peleviniano.

Il legame sotteso fra questa realtà arcana, carica di timore reverenziale, e il variopinto quadro della Russia contemporanea – privo di ogni solennità – trascina con sé sagome sfocate, strappate alle dottrine occulte babilonesi in un’aura carica di misticismo orientale. Emerge, fra queste visioni folcloriche, il “mito delle tre grandi ere del cielo”, inserito nella narrazione metaletteraria – costruita dentro la lettura di una tesi dottorale in storia antica – al fine di esasperare le proprietà magico-rituali dell’ovolo magico. Bizarreries rimpinzate d’ironia (come il macinino ricoperto di lettere tibetane) e incastonate in piani narrativi deformi, tutti sorretti dall’elemento parodico; ebbene, l’intento è schernire fino a mistificare, smontare i ramificati scomparti in cui si dividono i diversi piani e riassemblarli distruggendo – o plasmando a seconda dei casi – la consequenzialità fra questi. Il tutto è convogliato all’interno di una cornice surrealista: Tatarskij è un surrealista-munifico, incapace di comprendere e governare le stranezze che va creando.

La parodia è presente fin dal principio della narrazione, quando la scelta della Pepsi da parte dei bambini sovietici degli anni ’70 appare coscienziosa e consapevole, a tal punto da venire equiparata all’elezione di Breznev. L’ironia post-moderna, adoperata non come espediente retorico momentaneo ma come legame strutturale nella costruzione del personaggio e dell’ambiente circostante, si mostra secondo Sophia Khagi quale elemento destabilizzante di ogni genere di discorso, confinando il soggetto a «effect of narration»[1].

In Babylon quest’ultimo si configura come un caso di auto-parodia; attraverso continui riferimenti biografici Vavilen ironizza sui lineamenti che va assumendo la Russia contemporanea. Lasciando che divampi la mancata conclusione di ogni processo, nulla appare stabile: la professione di copywriter, l’origine del proprio nome, l’eternità rappresentata dal mondo collettivista. L’autore, dunque, stando alla definizione fornita da Bachtin, aggira la risoluzione dei fenomeni attraverso «various forms of reduced laughter (irony)»[2].

Il veicolo della satira nel romanzo si presenta tramite il sovrabbondare di metafore, paradossi, aforismi, e talvolta prende le sembianze dello sperimentalismo linguistico. Si pensi ad esempio alla metafora che vede Darth Vader impersonificare il “comunista in carriera”, per cui la parodia contiene al suo interno un’ulteriore ironia, in un gioco geometrico sempre più raffinato:

Gli tornò in mente Darth Vader e il suo fischio asmatico: era rimasto impressionato da quanto sembrasse la perfetta metafora di un comunista in carriera; di sicuro da qualche parte sulla sua navicella spaziale erano nascosti anche un rene artificiale e due squadre di medici.

Come osservato da Irina Rodnianskaia[3], Pelevin si può configurare come un esteta, dal momento che, perseguendo una ricerca di criteri estetici – spesso radicati nel surreale –, non misconosce la figura di scrittore-stilista tanto cara a Vladimir Nabokov. Pelevin veste con cura i panni dello scrittore nabokoviano, diviene un esteta della risata. Se alla risata affida le chiavi dello sconvolgimento lungo tutta la narrazione, all’esteta affida l’onere di revolvere il suolo su cui verranno poi trasportati i protagonisti.

L’incertezza costituisce un altro tratto marcato della fisionomia caratteriale vavileniana, sia nella produzione degli slogans, spesso rammendati in un continuo labor limae comico-realista, sia nei legami sviluppati con le categorie sociali che transitano lungo la sua quotidianità (da Sergueï Morkovine ad Andrej Gireev). Da un lato, Pelevin porta all’esasperazione l’interdipendenza fra testo e immagine, come accade nella scrittura di Michel Butor, creando numerosi riquadri surrealisti e bizzarri; d’altro lato, restituisce all’oggetto la sua natura simbolica, come nel paragone tra la scelta della Pepsi e l’elezione di Breznev.

Viene quindi rafforzata l’indagine attorno all’oggetto, laddove in Butor prevale la mera descrizione fisica. Per Butor prima e per Pelevin poi «l’image et le texte se conjuguent pour produire un effet visuel singulier»[4], lo scopo che risalta è rendere insignificanti i singoli, lasciare che lo spazio divampi fagocitando il protagonista. L’eco marcusiano ristagna fra le pieghe del romanzo peleviniano; Vavilen si forma sotto gli insegnamenti di una falsa coscienza inquieta, lui stesso rappresenta l’eroe postmoderno, trait d’union tra la realtà esterna, autogovernata dalla mutazione consumistica, e la realtà interna, costituita dalla propria poesia repressa.

In conclusione, Generation “П” merita a buon ragione un posto alla tavola dei grandi classici contemporanei, non tanto per l’ironia post-moderna che pervade diversi piani temporali e nemmeno soltanto per la rielaborazione marcusiana della società russa, quanto soprattutto per l’originalità stilistica e per l’acutezza ‘avanguardista’ con cui l’autore ha prefigurato il mondo dell’immaginario digitale. Questa si evince in particolare dalla teoria dell’Homo Zapiens, non priva anche qui d’ironia ed esposta dallo stesso protagonista in un capitolo centrale del libro (il settimo). L’essere umano diventa per Tatarskij un essere-rimasuglio di continue scelte, anzi, di fluttuanti non-scelte, a causa di una forma coercitiva di zapping propugnata in primis dalla televisione. Si configura un umano schiavo di un primitivo algoritmo-consigliere che suggerisce prontamente lavoro, musica di tendenza, consigli per riscattarsi dalla propria mediocrità, hobby da poter rivendere durante la pausa pranzo in piena bolla speculativa.

La “dottrina peleviniana” si arresta qui alla televisione, regina indiscussa nel macrocosmo delle costrizioni pubblicitarie nella Russia neocapitalista, tuttavia si trasla con incredibile facilità al nuovo codice binario di (non-)scelte, patologia di quello che potremmo definire “Homo social media-Zapiens”: un individuo cinto da non-libertà, comodo nell’impossibilità di emanciparsi a discapito dell’universo pubblicitario-consumistico. Tatarskij può bene rappresentare, difatti, anche l’uomo digitale-contemporaneo, strenuo sostenitore della sua ineguaglianza, conseguenza della privazione di libertà operata dai moderni mezzi di comunicazione. Quest’ineguaglianza – per riprendere il pensiero di Berdajev[5] – si mostra come base di ogni struttura e armonia cosmica, giustificazione dell’esistenza stessa della persona umana e la fonte di ogni moto creativo nel mondo, come movimento vitale intriso di parodia: lo zapping peleviniano. 

Ma lo zapping coercitivo, quello in cui il televisore si trasforma in un telecomando per lo spettatore, non costituisce solo uno dei metodi per organizzare una sequenza di immagini, quanto il fondamento stesso della diffusione radiotelevisiva, la modalità principale con cui agisce sulla coscienza la sfera informativo-pubblicitaria. Perciò d’ora in avanti il soggetto di secondo tipo verrà indicato come Homo Zapiens o HZ.

 

Note:


[1] Sophia Khagi, Pelevin and Unfreedom. Poetics, Politics, Metaphysics, Northwestern University Press, Evanston (Illinois) 2021, p. 182  

[2] Mikhail Mikhailovich Bachtin, Speech Genres and Other Late Essays, edited by Caryl Emerson e Michael Holquist, translation by Vern W. McGee, University of Texas Press, Austin 1990, p. 149.

[3] Irina Rodnianskaia, Somel’e Pelevin. I sogliadatai, «Novyi mir», n. 10, 2012. Link da inserire => https://magazines.gorky.media/novyi_mi/2012/10/somele-pelevin-i-soglyadatai.html

[4] Marie Chamonard, Michel Butor et ses artistes: livres manuscrits,tesi di laurea, Sorbonne Université 2000.  Link da inserire => http://theses.enc.sorbonne.fr/2000/chamonard

[5] Nikolaj Aleksandrovič Berdajev, Filosofija neravenstva, AST-Chranitel’, Moskva 2006, p. 61 (I ed., Berlin 1923). Cfr. Giacomo Foni, Filosofia dell’ineguaglianza di Nikolaj Berdjaev, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Bologna 2011/2012.

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