Nella poesia di Margherita Guidacci la parola è più comunicativa che evocativa. Tanto che la stessa comunicazione quando non sa più pronunciarsi tace.
Poiché non mi veniva nessuna parola
(la parola era “addio”, ma non riuscivo a dirla)
ti ho dato il mio silenzio
ed ho ascoltato il tuo. [1]
È in questo modo che la poetessa mostra il suo rifiuto netto, elegante, e quasi dovuto, verso quell’ermetismo delle “parole che non sono affatto felici”. [2] Infatti, mentre Montale sceglie parole che sono eterne solo in chi le ha pronunciate, o ancora più, in chi le ha prima possedute (salvaguardando in questo senso la funzione ermetica), per la Guidacci al contrario le parole sono un filo teso tra due amanti, che strappano la memoria dall’oblio, che proteggono, che accarezzano e che, anzi, addirittura, ricordano. In altri termini le parole scelte dalla poetessa fiorentina mai permetteranno che si finisca in quel “morto viluppo di memorie” – e quindi di parole? – che non è “orto” ma “reliquiario”. [3] Perché nel loro tendere continuo, le parole, corrono sempre verso l’altro, per cercare di recuperare quei legami perduti forse troppo presto, per interrompere cioè, quella serie di lutti che hanno segnato diverse volte la vita della poetessa. E così scopriamo che il soggetto della sua poesia è quasi sempre l’altro, il tu, il tuo che sovrasta e ricopre il mio.
Il tuo ricordo, sul fondo
della mia solitudine,
ne rivela l’ampiezza
e tuttavia la limita. [4]
È “il ricordo di te” che sembra essere anche il tuo ricordare a segnare quel conflitto tra l’io e l’altro. A delimitare l’abisso profondo; eppure, limitato, della memoria. Ma limitato da cosa? Probabilmente proprio da quella visione che, essendo dell’altro, non può mai aprirsi completamente sull’infinito. Non potendo permettere ai nostri occhi di riconoscervi ogni cosa.
Tu stessa sei la neve che ti cade d’intorno. [5]
Il tu prende tutto lo spazio della narrazione, ricopre un vuoto che altrimenti resterebbe troppo grande, quel vuoto che si ha paura di guardare e che mostra i confini di una ‘’Terra Desolata’’, forse quella stessa Waste Land tanto amata dalla Guidacci in cui la tragicità erompe – e si compie! – nell’ordinario: April is the crullest month. [6]
L’amore di Margherita Guidacci nasce “in te”, nell’altro, e tende – “tendendo a tutto le braccia”[7] – alla ricerca di un proprio equilibrio, di una “porta d’amore” che non imprigioni più nulla dei suoi desideri. È infatti ancora una volta la libertà dell’Altro “a liberare le gabbie degli uccelli” [8], ad aprire lo spazio sull’infinito.
Che ne sarebbe stato di me, amore mio,
se il tuo sole non fosse mai sorto [9]
È il “tuo sole”, una luce che ha origine “nell’altro”, a illuminare gli occhi della poetessa, a farli più chiari, ad asciugarne le lacrime, persino, a definirla nei suoi contorni, togliendole di dosso l’ombra scura dell’erebo. Il sole dell’altro, il Tu, principio dialogico buberiano senza il quale “si resterebbe immobili, paralizzati nell’angoscia” [10], è forse la chiave della poetica di Margherita Guidacci. E attraverso il tu le parole evidenziano il tema dell’incontro. È infatti proprio l’incontro a nascere ogni volta in queste liriche. Un incontro divenuto necessario tra gli uomini e la natura, tra il mare e “una singola vela”. [11] Un incontro in cui la Guidacci vuole rivolgersi “all’intelletto e ai sensi”, a un’immaginazione che diviene plastica [12], a “una poesia naturale” [13]. E nello stesso modo in cui si dà rapporto tra Io e Tu [14] si cerca l’umanità nell’incontro con l’altro. Un incontro capace di mantenere l’indipendenza tra i diversi soggetti che sono però capaci di fondere e sovrapporsi in un’iconica rappresentazione. “E quindi toccandosi nasce l’amore”. Un amore che diventa il segno di tutta l’umanità.
Il mio amore che nasce
In te, non finisce
In te. [15]
Il rapporto con l’altro è un rapporto dunque di progressiva formazione. Come per Freud [16], nella poesia della Guidacci, il presupposto è sempre individualistico, la pulsione sociale non è originaria, la società non è data ma è l’individuo che la ottiene progressivamente.
L’amore della Guidacci nasce guardando all’infinito [17] e l’infinito diviene allora la traccia – la memoria? – dell’altro. Ed ecco che nel secondo verso veniamo a conoscenza dell’origine dell’amore, che nasce “in te” e che sembra non finire, salvo poi andare a capo e dire al lettore che non “finisce in te”, che è altro, che si trasforma, che è forse limitato. Infinito e finito si scambiano offerte nelle contingenze più varie della vita, vittime di un amore che prende pure la forma del vento. “Quale amore? L’amore per l’altro, l’amore per ciò che è altro e quindi non ha fine”. Un “amore parentale”, l’amore di quei genitori che riconoscono nei figli la speranza di una sopravvivenza. Ma è anche l’altro dell’incontro “cristiano” che non ha morte in questo mondo, che non può concludersi “in te” ma che, anzi, attraverso l’altro apprende “le buone maniere” [18], la memoria, le parole. È l’amore per Dio che l’uomo sceglie di provare sfiorando le dita del Creatore. Un amore che non si ha per natura ma che proviene dalla ‘Scelta’, dalla volontà di amare del singolo individuo.
E così, come una forza della natura che può solo trasformarsi, quell’amore descritto dalla poetessa non si consuma nell’altro – né deve farlo! – Per questo motivo la Guidacci scrive che “il mio amore non finisce in te” ma nasce “in te”. Perché l’amore dell’io attraversa l’altro, lo ricopre, lo abbraccia, sapendo di percorrere uno spazio che è solo apparentemente infinito. Ma la “porta d’amore” non deve essere attraversata completamente perché l’amore rischierebbe altrimenti di saturarsi. Ecco perché la Guidacci preferisce tracciarne i contorni, come accennando il tema di un discorso più complesso, lasciando aperto il suo cuore e le sue parole a qualcosa di indefinibile, eppure, ogni volta ridefinito. Come se l’autrice cercasse di non idealizzare un amore incompleto per natura, l’amore di Dio, per esempio, l’amore per l’Altro.
Muoio di sete
e non incontro una fontana.
La tua terra è un deserto,
il tuo cielo una lastra ardente.
Dimmi, è così perché mi ami
e ti nascondi per mettermi alla
prova? [20]
L’amore di Dio non è nel fuoco [21] ma nel sibilo di vento, nel roveto ardente. Il tu è oscuro, è “buio fuoco” [22], e brucia e si nasconde come il soffio di Dio. Ma Dio, diremmo noi, non si è nascosto. Ha soltanto cercato di essere guardato, di essere scelto. E allora potremmo rileggere le parole di amore della Guidacci come parole che nascono e “scelgono” e scelgono quando vivono “in te”. È la storia di un amore che non può essere idealizzato, che “mette alla prova, che si nasconde”.
L’amore nasce in te come specchio dell’io, di un uomo che deve ricercare oltre se stesso e che se pretendesse di ritrovare nello specchio la propria immagine morirebbe affogato come Narciso. L’Io che non deve ritrovare se stesso ma un Io sempre diverso, perché è nella diversità, sembra dire Guidacci, dialogica e comunicativa, che noi tendiamo verso la realtà, verso la purezza, la verità, la vita. È il cammino dell’uomo, il tendere di cui abbiamo parlato. [23] Quando tendiamo verso l’altro viviamo, quando andiamo verso noi stessi moriamo.
La Guidacci, come il poeta Salinas, cerca allora se stessa negli occhi dell’altro che è sempre al di là, quasi oltre, quasi altro. Un altro che non nasce tale ma lo diventa e che proprio in questo senso permette di unirsi con l’io poetico.
Por detrás de ti te busco.
No en tu espejo, no en tu letra,
ni en tu alma.
Detrás, más allá. [24]
Quando l’Altro si rivolge all’Io ne abbiamo noi coscienza, ne proviamo piacere, ne conserviamo il ricordo. Quando dunque un gesto diviene un’immagine della realtà, noi tocchiamo quel pensiero, lo facciamo nostro, ritroviamo la forma dell’altro: i suoi profumi, i suoi pensieri, le sue parole, i suoi sensi. E i sensi del tu divengono i sensi dell’io.
Quando tu pensi a me, lo sento.
e… ti incontro. [25]
Così un canto d’uccello
addolcisce l’immensità del cielo
e una singola vela
rende umano il mare. [26]
È “l’incontro” a rendere naturale il cielo, ad addolcire la violenza dell’infinito, a fare tutto in qualche modo più umano. Sono gli incontri che si compiono con naturalezza, gli incontri tra il canto di un uccello e l’immensità della volta celeste, tra una vela e l’infinito del mare, che umanizzano la nostra storia e ci dispiegano l’infinito dolcemente. [27] E in quel mare in cui ci sentiamo impotenti ritroviamo all’orizzonte i confini di una terra amica. E con forza migriamo/tendiamo verso quell’Altro. Sembra il nostro tempo, il “mediterraneo”, il mare di sangue e la violenza oscena delle nostre “parole”, la forza spaventosa di una “comunicazione” che lotta ogni giorno contro quella demagogia che non fa domande ma impone risposte.
Che cos’ha d’inferiore la peonia
perché purpurea, il croco perché giallo?
Perché lo scuro velluto dell’iris
dovrebbe valer meno dell’avorio
della magnolia? Quel che per i fiori
comprende senza sforzo, per se stesso
possa imparare, finalmente, l’uomo! [28]
La vita è un “versante della morte” ma in questa terra abbiamo la possibilità di non vivere soli, di scegliere con forza, di amare.
Anche stasera il gabbiano è venuto dal livido mare di Howth.
Lancia il suo rotto strido. Che vuoi dirmi, triste uccello?
«Siamo soli su questo versante della morte,
E sull’altro, forse, saremo ancora più soli». [29]
Anche senza dover cercare Dio nel vento ritroviamo la nostra felicità e uniamo il corpo all’anima, meglio, respiriamo “l’anima” della felicità accogliendola con il nostro “corpo”. E allora vediamo la luce e conosciamo la Pace.
Non fu la mente, infatti, ma il nostro corpo stesso che per primo l’accolse
in larghi sorsi di vita: felicità respirabile. [30]
Troviamo così la nostra dimensione, la nostra umanità, il nostro Altro. E allora “abitiamo l’amore”. [31] Un amore “che perdona la colpa, che incontra, che non finisce, che è ignoto, che è Patria”. [32]
Amore è questo senso d’ali: averle, aprirle,
fendere con il petto un elemento ignoto
finora – e a un tratto divenuto la patria. [33]
Un amore che ci fa scrivere fintanto che la marea sarà alta e la terra bagnata.
… Poi, quando si ritirino le acque
sarò di nuovo una spiaggia deserta.
Ora invece esse vengono! Ed io sono
Il letto della loro crescente gioia. [34]
Ma ora “Facciamo silenzio”. Il silenzio che fa la poesia. [35] Le nostre parole non hanno bisogno di aggiungere altro. Facciamoci allora muti, “noi che ormai siamo due”. Lasciando “il vento a completar le parole”.
Lascia sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo entrambi il medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d’ogni immagine,
che l’uno all’altro rendono
un semplice raggio. E ci basta. [36]
Note con riferimenti bibliografici
[1] Margherita Guidacci, Inno alla gioia, Nardini, Firenze, 1983.
[2] Le parole/dopo un’eterna attesa/rinunziano alla speranza/di essere pronunziate/una volta per tutte/e poi morire/con chi le ha possedute. E. Montale, Le parole, Satura, Mondadori, 1971.
[3] E. Montale, Ossi di seppia, Piero Gobetti Editore, 1925.
[4] M. Guidacci, Il vuoto e le forme, Rebellato, 1977.
[5] M. Guidacci, Perdita di memoria, Le poesie, Le Lettere, 2020.
[6] Thomas Stearns Eliot, Collected Poems, 1909–1962, Harcourt, Brace & World, 1967.
[7] M. Guidacci, Porta d’amore, Le poesie, Le Lettere, 2020.
[8] Ibidem.
[9] M. Guidacci, Che ne sarebbe stato di me?, Le poesie, Le Lettere, 2020.
[10] Ibidem.
[11] M. Guidacci, Il vuoto e le forme, Rebellato, 1977.
[12] M. Guidacci, Le poesie, Le Lettere, 2020, p. 18.
[13] “Per me la poesia è qualcosa di molto naturale’”, in L’opera di Margherita Guidacci, in Margherita Pieracci Harwell, Un cristiano senza chiesa e altri saggi, Studium, 1991.
[14] Buber M., L’io e il tu, in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, 2014.
[15] M. Guidacci, Porta d’amore, Le poesie, Le Lettere, 2020.
[16] S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io, 1921.
[17] Lo si può capire anche dall’uso dell’enjambement nel primo verso in cui non è ancora definito il luogo d’origine dell’amore, poi subito chiarito.
[18] Antico Testamento, Libri Sapienziali, Siracide, 32, 2.
[20] M. Guidacci, Muoio di sete, Poesia come un albero, a cura di G. Fozzer, Marietti 1820, 2010.
[21] “Ma il signore non era nel fuoco”, Libro dei Re, 1, 19.
[22] “Tu buio, buio fuoco! / Senza scintilla né fiamma”, in M. Guidacci, Paglia e polvere, Le poesie, Rebellato, 1961.
[23] Giovanni 14: 6.
[24] “Al di là di te ti cerco / Non nel tuo specchio / e nella tua scrittura / nella tua anima nemmeno / Di là, più oltre” in P. Salinas, La voz a ti debida, Signo, 1933.
[25] M. Guidacci, Quando tu pensi a me, Le poesie, Le Lettere, 2020.
[26] M. Guidacci, Il vuoto e le forme, Le poesie, Le Lettere, 2020.
[27] Quanto sia importante la poetica leopardiana per la Guidacci lo dice la stessa autrice: […il mio Leopardi, il poeta italiano che amo di più: una delle poche stelle fisse in quella costellazione dei veramente ed assolutamente necessari…].
[28] M. Guidacci, Razzismo, Le poesie, Le Lettere, 2020.
[29] M. Guidacci, Il Gabbiano, Le poesie, Le Lettere, 2020.
[30] M. Guidacci, Felicità respirabile, Le poesie, Le Lettere, 2020.
[31] M. Guidacci, Siamo noi che abitiamo l’amore, Le poesie, Le Lettere, 2020.
[32] Esodo 34,7.
[33] M. Guidacci, Senso d’ali, a cura di Maura Del Serra, Le Lettere, 1999.
[34] M. Guidacci, Alta marea (o del fare poesia), Le poesie, Le Lettere, 2020.
[35] M. Guidacci, In silenzio, Le poesie, Le Lettere, 2020.
[36] M. Guidacci, Lascia sia il vento, Le poesie, Le Lettere, 2020.