In una lettera ad Anna Grigor’evna Dostoevskaja, nel 1875, Fëdor Michajlovič scrive:
«dopo aver ricevuto il tuo telegramma, sono tramortito e mi sono accasciato sulla sedia. Sul telegramma ho scritto: Ich bin ganz gesund ed ora mi maledico perché ho scritto ganz: non metteranno nulla a Berlino a storpiare ganz in nicht gesund. A giudicare da come è stato deformato il tuo telegramma, tutto è possibile. Ora starò tutta la settimana terribilmente in pensiero.»[1]
Ganz, in tedesco, significa del tutto, nicht è negazione. L’ansia di Dostoevskij è generata dalla possibile distorsione di una sua affermazione a proposito dello stato della sua salute. Agli occhi incerti di chi legge le sue parole, queste potrebbero apparire come una testimonianza di ricostituzione del fisico, precedentemente ammalato, o di crollo. Al cominciare di Sonetti Bianchi, Del Sarto si addentra nella medesima tensione. Con le frasi piane di una prosa di appena tre pagine, il poeta apre il volume presentando una circostanza di vita vissuta, dominata dal senso del dover-attendere il riscontro di un accertamento ospedaliero.
«Il risultato tardò molto, giunse oltre i limiti di legge, nell’eventualità. Il test era andato smarrito chissà dove.»[2]
Quando i risultati eventuali sono solo quelli del bianco e del nero, l’irrisoluzione si acuisce come un oggetto appuntito. Se Dostoevskij proietta il disastro, lo visualizza, ne descrive misura e proporzioni con un atteggiamento più avanti caro all’esistenzialismo leviano, Del Sarto si ferma invece sulla soglia. È lo smarrimento il punto dei Sonetti bianchi: la lucida consapevolezza che la risposta esiste, ma è «chissà dove». Tutto ciò sarebbe inconcepibile, filosoficamente parlando, per Dostoevskij – la sua lettera si apre proprio con un tentativo di disinnescare questa dinamica:
«Cosa ti ha fatto venire in mente che fossi malato? Questo significa che hai smesso del tutto di ricevere le mie lettere, cioè una lettera è andata persa. Ma cosa c’è da preoccuparsi per questo?»[3]
Se Anna lo crede ancora ammalato, dev’essere necessariamente perché una sua lettera è andata persa. Preoccuparsi non ha senso alcuno. Sia Dostoevskij che Del Sarto si muovono così sul bordo sottile che guarda all’angoscia come a un abisso in attesa, statico, opprimente. Una qualità del tutto contemporanea, a ben vedere, questa di Sonetti bianchi – opera che affonda pesantemente nel proprio tempo, ma non come ‘figlia’. L’ansia di Del Sarto non è infatti ‘generata’ dalle circostanze, non nasce dalle coordinate di un contesto socioeconomico o culturale. È presentata come il frutto di una disposizione d’animo, indotta da un processo che si muove dall’interno all’esterno – lo stesso orientamento del Malin audeninao di The Age of Anxiety.
Una digressione: aprire il discorso presente all’approfondimento del concetto di ansia come paradigma-del-contemporaneo sarebbe certo operazione troppo vasta. Eppure, ritengo sia sufficiente guardare a opere come la ripresa recente di The Age of Anxiety in WE degli Arcade Fire – segnalata dai dati Spotify a oltre cinque milioni di ascolti – per comprenderne l’aderenza a un modello di dolore, oggi, generazionale.
Un libro sull’ansia, dunque, quello di Del Sarto? No, ma che tematizza la lettura del bianco come dimensione che orienta l’Io nel possibile. Ancora una volta: il punto non è più il risultato dell’esame ospedaliero, ma il suo smarrimento. Il bianco come spazio dell’impreciso. Così scrive il poeta: «Conoscere l’esilio come forma | della verità: una morte priva | di acqua, asciutta come la carne di chi non vede. […]».[4] L’esilio, il superamento dei margini conosciuti, come forma di accesso al vero – al bianco. È ormai esausto il paradigma eliotiano della morte-per-acqua, le sue coordinate culturali, spirituali e corporee sono venute meno: la carne si è asciugata del tutto (da notarsi come, anche qui, risuoni un senso distintivamente contemporaneo nel riferimento all’esaurimento delle acque).
Sonetti bianchi è dunque una raccolta senza punti di fuga – un corpo compatto, in cui il dato meditativo e il primato esperienziale si sovrappongono fino all’indistinto. Il biancore dell’indeterminato, onnipervasivo, non è tuttavia sinonimo di ‘confusione’ nella poetica di Del Sarto. Non conduce, in altre parole, a disorientamenti, apparenti o effettivi, di rosselliana memoria (cosa che invece accade in più di una raccolta di pubblicazione recente, come L’assedio della gioia di Francesco Brancati – Le Lettere, 2022). Nell’unicum della struttura chiusa del sonetto, il bianco è sovradimensione che fagocita il tutto, conferendogli Significato. Un concetto, a ben vedere, simile a quello dell’esperienzialità veterotestamentaria del mostro che inghiotte (nel testo appare non a caso il nome di Giona – figlio del poeta) e del conseguente buio pesto in cui l’Io deve immergersi per cogliervi una minima stilla di Significato. Nella poetica di Del Sarto, per cogliere anche un minimo del senso di un dolore incerto, non ancora attestato
«Niente di quello che è successo nelle ore appena passate, in questo ospedale come nella città che lo circonda, entrambi pulsanti e inquieti, è condannato all’insensatezza. La possibilità del senso del senso. La possibilità di agire, modificare. O anche solo quella di accettare.»[5]
Poco più avanti, nella seconda delle tre sezioni del volume, si legge: «Le preghiere esistono per mutarti | o rapirti». L’atto, scrittorio o dialogico che sia, implica il cambiamento – la nascita. Di questo parla il poeta, in definitiva: del frangente paterno di una nascita progressiva, annunciata, ma irreale ‘fino all’ultimo’. E ciò perché, nello stato del bianco, le opzioni si sfocano, perdono definizione e forma. Già nel breve capolavoro di Clive Staples Lewis, A Grief Observed del 1961, una meditazione recita: «The exact same thing is never taken away and given back».[6] Mutare o rapire sono livelli diversi della stessa incursione, questione presentata dal poeta nei termini fenomenologici di un avvenimento biografico. L’ultima delle poesie si conclude tuttavia con il germogliare della sfera su cui esistiamo-abitiamo.
«Lo stormo, il flusso nelle forme fredde
che ci chiudono, i punti di luce
nel cielo di notte: dovremmo ogni
giorno pensare alle galassie, ai gas
fra le rocce, l’unione delle coppie
dentro la malinconia dei gameti,
umidi in qualche alba. Come arbusti
marini, caro figlio mio, ignoriamo
le silenziose sinfonie stellari
che ci plasmano, grandiose e lontane,
duplicando cromosomi sul niente
del più piccolo autosoma che segna
te e me, che siamo svegli siamo vivi
e verdi, in una sfera che germoglia.»[7]
Ciò che giunge – che giungerà – al termine dell’indeterminato, è la fioritura di una possibilità iscritta nelle stesse categorie che ci hanno resi abitanti, viventi. Quasi un riscatto, in definitiva, quello della bio-ontologia di Del Sarto: un punto di arrivo che restituisce, sì, ciò che si era perso in principio, ma lo restituisce irriconoscibile. È vicino, in questo, al Thomas Bernhard di Unter dem Eisem des Mondes. Gedichte, alla sua visione dell’eventuale come posizionamento errato della connessione tra l’Io e l’atto – scrive Del Sarto nella terza e ultima prosa: «Trascendersi è meglio di niente, ma non è come essere trascesi».[8] In definitiva, il poeta presenta una condizione ineludibile in quanto biologica, eppure produttiva, perché inserita in un contesto esistenziale in cui lo spirito non si è ritratto ma esige, dostoevskijanamente, un’attesa. Ad essere bianco, indeterminato, non è così il solo spazio che il poeta abita, ma l’atto che compie nel suo durante – l’atto dello scrivere.
Stefano Bottero
[1] F. M. Dostoevskij, A. G. Dostoevskaja, Corrispondenza 1866-1880, a cura di L. Salmon, Il melangolo, Genova, 1987, p. 284
[2] G. Del Sarto, Sonetti bianchi, L’arcolaio, Forlimpopoli (FC), 2022, p. 21
[3] Cfr. Nota 1.
[4] G. Del Sarto, Sonetti bianchi, p. 24.
[5] Ivi p. 36.
[6] C. S. Lewis, A grief observed, HarperCollins, New York, [1961] restored 1996, p. 25-26; traduzione di A. Ravano in ID., Diario di un dolore, Adelphi, Milano 1990, p. 32: «Ciò che viene tolto e ciò che viene ridato non sono mai la stessa cosa».
[7] G. Del Sarto, Sonetti bianchi, p. 54.
[8] Ivi p. 45