Su Libretto di transito di Franca Mancinelli – nota di lettura di Luigi Fasciana
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L’annuncio di una partenza e la dimensione del proseguire dominano le poesie con le quali si concludono rispettivamente Mala Kruna (2007) e Pasta Madre (2013). La prima delle brevi prose di Libretto di transito (Amos Edizioni, 2018) – uscito nella collana «A27», diretta da Sebastiano Gatto e Giovanni Turra – comincia così: «Non è solo preparare una valigia. È confezionarsi, vestirsi bene. Entrare nella taglia esatta della pena.» Ritroviamo sin da subito l’incombenza del viaggio, l’attesa – il primo, splendido passo del percorso poetico di Mancinelli: quel «cattivo tempo che non faceva / partire le barche». Eppure questa breve prosa d’esordio parte da una negazione, o meglio, da una precisazione. La dimensione o il momento del transito è l’assottigliarsi e il confondersi della più o meno serena linearità del viaggio. La via che percorriamo si restringe, costringe a rallentare. E per un tempo più o meno breve, il luogo che si attraversa scalza la destinazione, il passaggio assorbe il tragitto. Entrare nella taglia esatta della pena. Indossare, entrare, calzare, forzare, sono questi i verbi di un attraversamento sospeso. Un attraversare tra movimento e stasi. Da qui il “perdere la scorza”, “sbriciolare”, “sgretolarsi”, “grattare”: queste prose sono in regime di attrito. Ma è un attrito che solo in parte diventa stridore.
È già stato detto che Libretto di transito racconta l’elaborazione (il lavoro, il lavorio) del lutto e della perdita. Eccola l’ambivalenza di questo attrito – di questo stile – che allo stesso tempo stride e sfiora: «grido» e «tonfo sordo». Il venire a mancare diventa materia da attraversare, materia abrasiva. E il franare e il ferirsi hanno l’evanescenza tagliente della fitta. Il luogo immateriale che fa del percorso un transito è proprio il Gap in epigrafe, è un movimento attraverso il vuoto e la perdita, la faglia. Attraverso le cose che, tra concretezza ed evanescenza, «ti raggiungono premendo l’angolo duro della loro assenza».
Questo transito – che è la quotidianità, il proseguire – viene meno a una direzione lineare e si incrina, si avvolge su se stesso. É il tema, carissimo alla poetessa, dell’immaturità dei tempi, dell’attesa:
«A volte un breve annuncio ricorda la linea gialla, a volte è soltanto un rumore che si avvicina. La fenditura che si apre dev’essere arginata subito con le mani che si aggrappano a qualcosa, gli occhi chiusi. Ci si stringe alla panca, agli oggetti che si hanno con sé, fino a che il treno trascorre al nostro fianco. Con il tremore di qualcosa di enorme, per cui dobbiamo ancora aspettare.» da Libretto di transito (Amos Edizioni, 2018).
Quindi il moto circolare, il ritorno al punto di partenza: «è sempre qui che ci incontriamo», «Torno sempre all’inizio», «è un tragitto compiuto tante volte». Con lo sguardo del passeggero, in bilico com’è nell’intermittenza del sonno, la profondità del sogno segue, si intreccia e spesso prepara lo sguardo della veglia rivolto al paesaggio. Un paesaggio nitidamente interiore. Una casa dalle pareti «sottili, come di membrana» dove, riemerse dalla «nebbia», possono «fare ritorno, trovare luogo le cose».
Il transito, nella sua natura intima e retrospettiva, è anche (e soprattutto) il momento del ricordo. Ricordo d’infanzia: da lì, infatti, sembra provenire una macchina posteggiata – di nuovo un rimanere sul posto – dentro la quale vediamo riflessi i piccoli occhi dei «cocoriti» al volante; oppure il ricordo come eco della frattura, «ritorno compulsivo alla ferita» (Lorenzo Mari, qui); e la sua medicazione, le «mani grandi» di una madre, a reggere un viso.
Il passaggio attraverso la materialità di questa perdita è anche un «movimento verso la guarigione e il rinnovamento», come nota qui John Taylor, che ha tradotto in inglese il Libretto. Ma è bene sottolineare che questa tensione, che alterna progredire lento e riti di passaggio, non significa certo un superamento del lutto ottenuto in virtù del dominio di sé; o dovuto all’indurirsi e compattarsi dell’Io. Come scrive Antonella Anedda in quelle poche, illuminanti righe che introducono Tasche finte, raccolto nel tredicesimo Quaderno italiano di Marcos y Marcos, a cura di Franco Buffoni, il «punto di forza» di questa terza tappa della poesia di Franca Mancinelli è la «riflessione sulla disappartenenza». La forza di questo soggetto poetico è la permeabilità. Non la ritroviamo soltanto in questo sfumare, armonico ed emblematico, dei soggetti (manca soltanto il “voi”); la parola poetica di Libretto di transito è una parola tra lucidità e sonnolenza (o sogno). Stanchezza. Uno sguardo paziente, una mano che molla la presa e aspetta i tempi della crescita: «Cresco ancora nel buio, come una pianta che beve dal nero della terra».
La stanchezza e il sonno sono, appunto, stati della permeabilità. Sono fertili: momenti della nutrizione e della visita. Del sogno e del ricordo. Tra la forza di proseguire e il bisogno di fermarsi, l’attraversare – e sta qui, forse, il vero transito – cede alla necessità salvifica dell’essere attraversati.
Lo sforzo allora sarà nell’immersione, oppure nell’aderenza della pianta. Sono questi alcuni degli elementi che spiegano l’indole acquatica e soprattutto vegetale del libro. Se la terra produce piante dal frutto velenoso, sono le stesse piante a resistere al vuoto e ad «avvolgersi dentro il franare dei muri». «Cadendo si abbandona, perde ogni appartenenza. Inizia a crescere radici, sottili come capelli». È un soggetto che non si riconosce come difesa estrema e arroccamento, né, esclusivamente, come quanto dell’io resiste alla potatura. È nel lasciare cadere la scorza; ma è anche ciò che è caduto: «Si spoglia di ciò che è troppo suo», si potrebbe commentare con un verso di un altro lettore d’eccezione di Mancinelli, Milo De Angelis. Soltanto così è possibile la rinascita – crudele, estenuante: «Per vestirsi bisogna perdere i rami allungati nel sonno, le foglie più tenere aperte». E quindi, con grande sforzo, oltre la stasi, oltre la chiusura, annunciare la gemmazione: «Sei stanca. Stai facendo spuntare le gemme». Non è un caso che persino l’immagine luminosa, ancora una volta arborea, che conclude la raccolta, sia una frase che, attesa in uno stato di febbrile spossatezza, sta per pronunciare qualcun altro.
Il passaggio alla prosa, o forse, azzardando, attraverso la prosa, segna la distanza – come ha notato ancora Antonella Anedda – tra «gli scatti fotografici» delle raccolte precedenti e l’effetto di rallentamento del Libretto. È come se adesso riuscissimo a seguire la traccia che porta da un fotogramma all’altro. Come se, in alcune di queste prose, per effetto della bassa marea, fosse possibile intravedere parte della roccia che, per ogni singolo testo, sosteneva le terre emerse. Ma questo “di più” della prosa non porta certo a una maggiore verbosità (o frondosità, per riprendere il lessico vegetale della raccolta). Queste poesie in prosa sembrano al contrario ingrandire l’immagine per ripulirne ancora di più i contorni. La scrittura di Libretto di transito è ancora «un sottrarre e un levigare» (sono sempre parole di De Angelis, su Pasta Madre). Il lavoro di politura (potatura) sui testi di Tasche finte sta lì a dimostrarlo. Basti citare, per concludere, uno fra i testi più belli della raccolta, che ritroviamo adesso più scorciato ed essenziale, partendo sin da subito con questo padre fra due terre: una reale, l’altra metaforica:
«La sera, con una sigaretta tra le dita, guardando il cielo scurirsi come terra bagnata, mio padre annaffia. Quando è laggiù, nascosto dalle piante dei pomodori, nell’angolo più lontano del giardino, posso sentire dal pozzo l’acqua versarsi e scendere tra i granuli, fino alle radici dove è attesa. Qui, dove il flusso si perde, crescono erbe dure dal piccolo fiore, piante dal frutto velenoso. Ma non riesco a zapparle via, non riesco a riparare la falda.» da Libretto di transito (Amos Edizioni, 2018).
Luigi Fasciana
Franca Mancinelli (Fano, 1981) ha pubblicato i due libri di poesie Mala kruna (Manni, 2007) e Pasta madre (Nino Aragno editore, 2013). L’autrice è presente nel XIII Quaderno di poesia contemporanea edito da Marcos Y Marcos, con Tasche finte – con una prefazione di Antonella Anedda. È inclusa in diverse antologie come La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta (Ladolfi editore, 2011) e Nuovi poeti italiani 6, a cura di Giovanna Rosadini (Einaudi, 2012). Collabora con riviste e periodici letterari tra cui «Poesia». I suoi ultimi libri sono Libretto di Transito (Amos edizioni, 2018), A un’ora di sonno da qui (Italic & Pequod, 2018) e il libro collettivo Come tradurre la neve. Tre sentieri nei Balcani (Anima Mundi edizioni, 2019, insieme a M.G. Calandrone e A. Anil)
Si ringrazia l’associazione culturale Lampioni Aerei per la concessione dei materiali. Per approfondimenti sulle inziative visitare il sito www.lampioniaerei.it