- Tra i libri usciti negli anni Duemila puoi indicarne 5 fondamentali per il tuo percorso?
Sovrimpressioni di Andrea Zanzotto (2001), Ritorno a Planaval di Stefano Dal Bianco (2001), Dart di Alice Oswald (2002), Umana gloria di Mario Benedetti (2005), Decreation di Anne Carson (2005), Dal balcone del corpo di Antonella Anedda (2008).
- Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana? Per chi scrivi poesia?
Qualche tempo fa mi è stato chiesto se si scriva poesia solo per se stessi. Il tono di voce della domanda faceva intuire un messaggio implicito, una specie di doppiofondo, un pensiero del mio interlocutore, che a me sembrava quasi inamovibile: scrivere poesia è un atto esclusivamente privato, appartiene alla sfera intima di ciascuno. Ma la poesia si tiene in equilibrio in una zona franca. Se fa parte solo della nostra intimità, essa non ha un valore d’uso o di scambio, né sociale, secondo il significato che comunemente attribuiamo alle pratiche sociali; però, non è nella nostra intimità che nascono e si sviluppano le cose che davvero contano? Con intimità non intendo la sfera dell’ego e non credo che la poesia sia banalmente il risultato di un bisogno espressivistico ed egocentrico. Essa ha a che fare, sicuramente, con il sentimento della nostra individualità e con una forza che la persona deve avere per riconoscere l’esistenza “formale” delle proprie parole: occorre strappare le parole “da sé” e farle esistere “di per sé”. Questo processo sarebbe impossibile se chi scrive non “si dedicasse” alla propria intimità: lo spazio dove si trovano i “fondamentali” di quanto viviamo e di ciò che siamo, le cose che contano, quelle autentiche. “Dedicarsi” viene dal latino dedicare, forma intensiva di dicĕre: etimologicamente, indica un uso totale delle parole, come se attraverso di esse potesse esserci una fusione tra chi parla e l’oggetto della sua attenzione. La poesia, allora, non nascerebbe in modo eccentrico? Concentrarci su noi stessi e dedicarsi alla propria intimità – dove si comprendono le cose che davvero contano – per poi strappare la scrittura da quello che siamo, come staccare noi stessi da noi stessi, e così liberarla da noi e farla esistere. Si tratta di un sottile equilibrio tra noi e gli altri; anzi, nelle reti multi-mediatiche e dei big data che stanno influenzando il modo in cui ci pensiamo e ci relazioniamo, tra l’io e il tu, che si propagano nell’etere come infinite matrici numeriche delle nostre celle-cellule singolari. La poesia sta in equilibrio tra “gli io” e “i tu”. L’equilibrio non è mai una condizione statica, ma presuppone l’oscillazione tra poli. Stare in equilibrio è un’armonia fra i contrari, una resistenza. L’armonia come resistenza è una strategia della vita quotidiana.
- Senti di fare parte di una comunità poetica a cui aderisci? Com’è il tuo rapporto con altri poeti viventi e con chi ti legge?
Affinché ci sia una comunità devono esserci rapporti autentici. Ci sentiamo di appartenere a una comunità quando in essa siamo “esposti” e “nudi”. Ma c’è una differenza tra l’essere “esposti” e l’essere “nudi”. L’esposizione è una condizione contemporanea, non priva di inganni e falsità. I social network ci hanno – quasi – assuefatti ad essere esposti, e così molte dinamiche sociali. Le comunità letterarie hanno le loro forme di esposizione. Per l’affermazione del nostro sé, essere esposti risulta perfino necessario: trovare il nostro posto nel mondo, sentirsi gratificati, ascoltati e capiti, non richiedono un processo di esposizione? Esporci, spesso, rientra in un gioco di convenzioni e si manifesta secondo retoriche dell’apparire. Non è raro esporsi nella misura in cui sappiamo che gli altri ci vedranno solo per la nostra apparenza. Certo, l’atto di esporsi comporta una volontà, mentre l’essere esposti è anche una condizione passiva, non voluta, che ci accade e ci coglie come esseri fragili, inermi. Ma le dinamiche dell’apparire portano esperienze in cui non è sempre immediato distinguere se ci esponiamo consapevolmente o se ci troviamo esposti, in balia dell’influenza dei comportamenti. Paradossalmente, quando ci esponiamo, credendo di essere sicuri di ciò che stiamo facendo, siamo condizionati dai comportamenti diffusi, ci adeguiamo ad essi, non siamo autentici, e siamo più fragili di quando ci ritroviamo esposti, siamo presi alla sprovvista e siamo davvero noi stessi, nudi. Ecco, la poesia può cogliere, secondo me, questo aspetto della vita contemporanea: essere esposti, nudi, essere autentici, inevitabilmente fedeli a noi stessi e per questo più forti – perché non possiamo mentire e mentirci. La poesia rappresenta uno stato di fragilità e forza: in un modo o nell’altro, le persone nella loro autenticità.
- Senti di inserirti all’interno di una tradizione poetica italiana? Avverti una particolare vicinanza con tradizioni poetiche in altra lingua?
Forse, sono più vicina alla tradizione occidentale della poesia, in senso ampio, rispetto alla tradizione italiana, soprattutto quella orientata alle avanguardie. Mi piace la poesia che va ai “fondamentali” e che – come quella anglosassone, ad esempio – ci mette davanti a una buona dose di concreta verità delle cose.
- Sapresti indicare una forma artistica e una disciplina scientifica, se ci sono, che influenzano più di altre il tuo processo di scrittura? In che modo entrano in poesia?
Penso che la poesia debba suscitare la comprensione di una prospettiva pluridimensionale, come se attivasse dei centri di contatto. Ogni parola è un centro gravitazionale che attrae le altre. Il significato di una poesia si compone come una catena di riflessi, o di onde, da un centro gravitazionale all’altro. La poesia attiva la percezione di una dimensione diversa rispetto a quella in cui ci troviamo fisicamente o a quella che ci fanno percepire le nostre abitudini. Per me la poesia assomiglia al cinema o alla video-arte piuttosto che alle arti figurative tradizionali, alla matematica pura piuttosto che agli algoritmi e alla tecnologia. Come le suggestioni video, che aprono spazi immaginativi dinamici, e le ipotesi matematiche, che possono rendere possibile l’impossibile, la poesia è un linguaggio che ci fa interrogare: non dà soluzioni definitive, non è un campo con dei limiti configurati. È esatta nelle sue figure, ma libera nelle configurazioni. Per questo, può fare paura, o quanto meno destare sospetto: è mobile e scivolosa, sguscia tra le mani, ma al tempo stesso alimenta la curiosità, l’inventiva, la predisposizione al cambiamento e alla trasformazione. Un punto di domanda, in una poesia, non ha una vera e propria risposta, ma corrisponde al gesto del chiedere e del cercare. La domanda di una poesia è umile e unisce un atto di forza – il prendere parola – e di fragilità – la coscienza dei nostri limiti. Un punto di domanda è fragile e forte: questo paradosso lo salva dall’estinguersi nell’insignificante.
- Che rapporto hai con la metrica e la rima?
Penso che il tentativo di dare forma all’esperienza corrisponda a uno dei nostri bisogni elementari: trovare un senso per quello che facciamo, sentiamo, per la nostra identità. Non credo che la forma sia qualcosa di diverso dal modo in cui cerchiamo di comprendere l’esperienza. Anche la natura ha dei ritmi, che danno forma alle sue manifestazioni: i movimenti delle maree, i cicli lunari, quelli delle stagioni. In questo momento di trasformazioni globali e climatiche, assistiamo al riassetto di nuovi ritmi e, quindi, di nuove forme. Essere capaci di pensare alle cose in modo letterario significa riuscire a “sentire” e “vedere” delle forme, ed esprimerle. La letteratura può essere considerata un modo trasversale di leggere la realtà: interrogandola, si mettono delle idee in un corpo formale, che non è mai astratto. Questo corpo è un’entità intelligente, di cui capiamo di fare parte, tanto per la nostra capacità di provare molte emozioni quanto per la nostra capacità di chiederci il perché di quello che ci capita, che facciamo, che sentiamo. Ci siamo abituati a pensare all’intelligenza come a qualcosa di freddo, numerico, algoritmico, da molti punti di vista artificiale. Ma la letteratura ci dice che l’intelligenza è molto più naturale – a noi connaturata – di quanto la tecnica ci può aver abituato a credere. Per me è fondamentale una ricerca sulle immagini e sul ritmo, che va oltre la distinzione tra verso e prosa, e si lega a un’idea di scrittura come spazio o ambiente, non a una re-codificazione di modi letterari. Il letterario in sé non basta: cerco una risonanza fluida tra campi diversi – arti visive, suono, dati tecnologici – che possano essere rielaborati attraverso una dimensione formale trans-prospettica.
- Tra le nuove generazioni ci sono 3 poeti che ritieni particolarmente preminenti o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?
Posso solo dire che sto iniziando a imparare molto dalle scritture di chi è più giovane di me rispetto a quelle di chi consideravo “i maestri”: riescono a far sì che metta in dubbio me stessa, come posso esprimermi, e la realtà che ho davanti. Mi fanno davvero interrogare.
0. Acer in fundo, se non vuoi dirci 3 poeti contemporanei che proprio non ti piacciono, puoi indicare uno o più testi del tutto distanti dal tuo modo di ‘sentire’ e ‘pensare’ la poesia?
Ci trasformiamo. Magari tra qualche anno scopriremo di amare un’autrice o un autore che prima trovavamo insignificante. Ci vergogneremo per la nostra ingenuità. Invecchiamo. Cresciamo. Una poetessa o un poeta potrebbero sempre pubblicare un libro che ci sorprende, una virata, un colpo di coda. Ho imparato a non fidarmi troppo della linguetta dell’istinto. Però, oltre al lavoro sulla forma, sullo stile, non dovremmo mai scordarci quanto sia importante un immaginario. Credo che l’innovazione più profonda che un testo possa raggiungere sia quella di aprire un immaginario diverso: farci “vedere” e “sentire” dentro la vita ordinaria una dimensione creativa che la intensifica. Può capitare di scrivere testi in cui lo stile e la lingua siano estremamente sperimentali, ma in cui resta una specie di retrogusto superficiale, di fatti scontati. Non è facile trovare la giusta combinazione tra forma e immaginario. Le immagini e i movimenti ritmici devono essere percepiti con intensità, come se possano stamparsi sulla retina e sulla membrana dei timpani, diventare parte di chi legge o ascolta. L’intensità non significa sentimentalismo o forti emozioni: è una ricerca di lucidità, un’esperienza piena, nel male e nel bene. La poesia – almeno questa – non dovrebbe eludere, lasciarci in sospeso, disimpegnati.
Ti chiediamo di proporci alcuni tuoi testi poetici
Testi inediti
NON PRENDERSI SUL SERIO
I.
Mi manca qualche anno
per non prendermi sul serio…
L’ultima casa nuova di legno e vetro
sta in piedi dentro la neve,
la luce scende tra le finestre mai usate e le pietre
nel pomeriggio come in un altro mondo.
Non dovrei essere qui, per dire: essere me?
Dove e come – e un po’ meno di me stessa –
o sempre un altro e un’altra: un’altra cosa?
Ma se smettessi di pensarmi non potrei sapere
che queste pietre sono state incise nel Settecento
in memoriam, congelarmi all’idea di quello che c’è –
l’alone senza più respiro quando cerchi
la sensazione esatta della mano sull’epitaffio.
Sono vecchia sulla riva del lago Champlain –
il midollo si propaga in fondo. Ma se fossi una radice
mi allungherei tra le fondamenta della casa e la base di pietra
dell’altra – sotto la strada i motori elettrici sempre più silenziosi.
Una radice lega – seme sempre nuovo e terreno sempre vecchio.
Una radice è elementare. Una radice – un sismografo
se la superficie trema. Ma il terreno non è nostro:
terra – che non sarà mai più giovane.
La neve se ne sta pacifica – intensamente.
È più semplice non prendersi sul serio?
Nell’aria, alte meno di due metri,
radici portano la loro specie – a casa.
II
Pensati noi –
dividi te stesso come con la lama di un coltello,
abbandona la vocale più acuta di quello che sei.
Pensati un’ala –
l’altra vibra accanto: per volare
dovete andare su e giù con lo stesso ritmo.
Lo stesso respiro fa passi impercettibili,
sorretto dall’altro che sostieni.
Pensati – ti pensa:
chiude un occhio e sei l’altro,
lo stringi dentro e si apre.
La paura era non conoscersi.
Una mano non sarà mai identica all’altra
ma – insieme – fanno:
pensarsi è materiale.
Adesso leghiamoci sopra le radici tagliate
e le nostre ex-vocali:
guardando a est e a ovest a volte sembra che non ci sia
una fine ma dallo stesso punto allontanandoci
intorno alla terra torneremo allo stesso
e forse dopo trecentosessantacinque giorni
l’anno sarà evanescente
insieme alla prima vocale
– tu – casa –
su e giù in mezzo al vento.
*
VICEVERSA
La mano ha cinque dita e ciascuna la sua parte.
È bello aderire alla propria – il tuo vero, quando si trova.
Per tenere una penna servono tutte – questo è l’equilibrio.
Ma può essere anche un copia-e-incolla – le parti si scambiano
si dimenticano – il tuo vero se ne sta come un vaso
di terracotta che raccoglie la pioggia frastornato –
un tic dopo l’altro – elementare – e ha più senso
l’ultrasuono delle piante, quando hanno sete –
la voce senza alfabeto nel suo significato.
Un tic dopo l’altro – l’ombra delle nuvole si stampa.
Se una cosa è se stessa – non c’è viceversa.
Si chiama fedeltà – semplicemente. È bello tenerla
addosso – scrivere per scriversi. Dietro la mano
adesso la pioggia fa macchie iridescenti –
sapersi per sapere – così noi apparteniamo.
Burlington – New York – Roma
*
DOPPIOFONDO
Le facce a volte non riescono a mentire –
ma il mare di sera sembra un doppiofondo.
Le cose che contano iniziano a sciogliersi.
Lentamente entriamo nell’acqua, scacciamo
la sabbia se una nuvola si alza, andiamo al sicuro –
impronte nell’acqua – cose che contano?
Il colore è indelebile per chi viene a quest’ora:
il mare azzurro e rosa, il sole dietro la spiaggia –
l’acqua e la luce sembrano due specchi – per chi
non ha pretese, non vuole la festa, cammina sul bagnasciuga
quasi fosse appena nato – o scaraventato dall’Eden
a occhi aperti – sopra le onde che lo spogliano.
Le facce a volte non riescono a mentire –
ma perdono di vista le cose che contano,
un retino di plastica trascinato distrattamente
che non si vede più e i piedi che non si vedono più
eppure si muovono nell’acqua – sopra cosa?
Ma qualcuno – che mai si farebbe queste domande –
slaccia la bandana, sfila il costume e se li porta
in mare – potesse camminare fino al fondo –
mentre a riva non sappiamo più distinguere
nella massa di onde di cose – pezzetti brillanti –
mentre il sole è alle spalle – finché anche gli occhi
non saranno assorbiti nel terreno. Silenzio – alle spalle.
Non ti voltare – la schiuma scioglie il sale,
le alghe si slacciano, l’acqua livella la sabbia
come il cielo – del doppiofondo.
Non farlo – bandana e costume puoi perderli
dolcemente – quasi fossi stato cacciato dall’Eden
ma da vecchio, dopo averlo davvero esplorato…
… e tutte le cose se ne stanno riflesse in te –
puoi guardati senza uno specchio che ti rifletta,
tu stesso una cosa che non conta…
Poi il rosa nell’azzurro non c’è più, la luce non è
come l’avevamo immaginata, la bandana galleggia
avvinghiata al costume – fossili di lava –
supera la linea del nuoto – porta con sé i ricordi
per confidarli – a nessuno.
***
Maria Borio è poetessa e saggista. In poesia ha pubblicato L’altro limite (2017), tradotto in Argentina, Trasparenza (2019), tradotto negli USA, Dal deserto rosso (2021), tradotto in Brasile e in traduzione in Germania, Prisma (2022), ed è uscita nel XII Quaderno italiano di poesia contemporanea a cura di Franco Buffoni (2015). Il suo ultimo libro di saggistica è Poetiche e individui (2018). Dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea, cura la sezione poesia di “Nuovi Argomenti”. È ideatrice del progetto “Poesiæuropa”. Sta lavorando a uno studio su letteratura e autenticità.