Un «monodramma senza personaggio»: così l’autore, Emanuele Franceschetti, premonisce i lettori e le lettrici di Diabàllo (Edizioni Volatili, 2023), un’opera in tredici prose in cui dialogano tra loro una voce narrante immaginaria e un destinatario altrettanto aleatorio. Nel clima sinistro e infernale con cui il libro si apre sin dal titolo (diabàllo [διαβάλλω] è il verbo greco che indica “separare”, “ingannare”, da cui il diavolo e i suoi derivati), Franceschetti orchestra una serie di espedienti retorici che puntano l’attenzione sull’assenza, fil rouge di tutta l’opera. Barcamenandosi in un gioco tra il machiavellico e il piranesiano, l’autore fa un uso massiccio della litote attraverso cui fa apparire, come in un bassorilievo, le forme dell’interlocutore; a questa soluzione retorica alterna poi descrizioni “in positivo” che, in maniera uguale e contraria, pongono l’accento su connotati negativi.
«Non c’è più nulla. C’è un universo di parole che non riconosci. […] Tu stai nella fulminazione, nel trapasso, nel segreto. Non hai durata né sviluppo. Sei forma breve. Non hai il coraggio di Giuda: il tuo nodo è intonso, in bella vista. Sei memoria del non accaduto».
[…]
«Tu la vita invece non la ami nemmeno la conosci, tu la vita la puntelli la perimetri, e mentre lo scrivo al tuo posto tu odi la tua pelle malata e l’allegria degli altri».
[…]
«ripeti il mantra che ti ha condannato. Soltanto una parola. Gioca col ritmo interno delle frasi. Cerca un corpo, riempilo, costringilo. Resta mammifero senza speranza. La sua parola non ti ha mai salvato».
[…]
«Tu sei assenza, torace sfondato, sei altrove. Sei nella prigione. Sei i tuoi fluidi dispersi. Sei gola tagliata per favorire nessun vento nessuna nave».
[…]
«Non puoi più scriverlo perché sarebbe per consolazione, per essere altrove, fuoriuscito, libero senza organi. Non vuoi più scriverlo perché sarebbe tutto ciò che vuoi, l’apnea e la morte, restare intero dentro un altro corpo. Ed essere quel corpo, e non avere corpo».
Nel gioco antitetico e straniante di identificazioni e disidentificazioni, e ancor più nelle formule «sei memoria del non accaduto», «l’allegria degli altri», «la sua parola non ti ha mai salvato», la mia mente attracca al ‘porto’ della poetica ungarettiana, in cui l’autore-sommozzatore affonda negli abissi della lingua per portare alla luce la parola ultima, estrema, necessaria, definitiva, che nomina la vita e la riassume. Nella poesia In memoria, dapprima pubblicata in rivista su «Lacerba» (1915) e poi posta in overture nella prima edizione del Porto sepolto (1916), Ungaretti descrive, in negativo, Moammed Sceab, suo alterego di non-poeta, conosciuto a Parigi nell’albergo di rue des Carmes. Sceab morì suicida poiché rimase imprigionato nella sua contingenza, in un hic et nunc che non riuscì a trascendere: fu un non-francese e non parlante il francese pur essendo nato in Francia (emigrato in Egitto, cambiò il suo nome, Marcel, in Moammed); non fu in grado di recuperare il suo passato («e non sapeva più | vivere | nella tenda dei suoi») e non seppe aprirsi al mondo, «sciogliere | il canto | del suo abbandono» per entrare in armonia con se stesso e l’universo. Dunque, il destino che avrebbe atteso Ungaretti se nell’aura mortifera del fermento bellico non avesse scavato nelle profondità della lingua e della parola per riconoscersi «una docile fibra || dell’universo»[1]. Franceschetti, a differenza di Ungaretti, si serve della stessa strategia retorica ma negando ogni possibile finale positivo, ogni possibile ricongiungimento tra l’io (o il tu) e l’universo. Diabàllo è, e rimane, un «monodramma senza personaggio». Ancora più interessante è il fatto che il risvolto positivo venga tanto più negato quando affidato alla parola, qui intesa (e anche in questo diverso da Ungaretti) come divina, religiosamente connotata, ma privata di salvezza. Non c’è traccia di parola necessaria, e rigenerativa, né tantomeno di un logos erchomenos, sempre “a venire”, inesauribile[2]. Non è un caso che le due citazioni in latino («Ecce vexilla regis» e «flammis acribus addictis») provengano rispettivamente da un inno e una sequentia sacre[3], l’uno commemorante la Santa Croce[4], l’altra tratta dal Dies Irae, il giorno del Giudizio Universale. Si tratta dei momenti più salienti, e a tempo stesso apocalittici, della liturgia cristiana. Inoltre, la citazione di Prospero (protagonista della commedia shakespeariana La tempesta) nella prosa conclusiva di Diabàllo suggella in extremis la vacuità e la sterilità della parola divina. Senza scendere troppo nei dettagli della trama, Prospero incarna il ruolo di mago e legittimo duca di Milano che, per proseguire gli studi di magia e filosofia, affidò il trono al fratello Antonio. Quest’ultimo, spinto dalla brama di potere, lo usurpò con l’aiuto del re di Napoli Alonso, relegando il fratello (insieme a Miranda, sua figlia) in un’isola ignota del Mar Mediterraneo. Trattandosi di una commedia l’orizzonte di attesa è inscritto nel segno del lieto fine, con tanto di ritorno all’ordine di fatti e personaggi. Ed effettivamente, nella Tempesta il lieto fine si realizza: nel soliloquio finale, Prospero invoca una preghiera salvifica che lo liberi da ogni peccato e lo risparmi da una fine disperata («And my ending is despair, | Unless I be relieved by prayer, | Which pierces so that it assaults | Mercy itself and frees all faults»). Ma in Diabàllo «Prospero si è impiccato»: nessuna preghiera può redimere l’uomo, e come se ciò non bastasse, ogni qual volta “preghiera” e “benedizione” vengono nominate, Franceschetti sceglie sempre accostamenti altamente connotati per la portata atroce, cupa:
«Le piazze esplodono di benedizioni battaglie traffici».
[…]
«Chissà quale preghiera, quali intossicazioni. Con altra lingua cantando gloria al padre, proteggete i figli, la guerra era davvero necessaria».
Diabàllo è il racconto di un mondo stremato dal dolore e dal morbo, in cui la voce narrante riflette sulla tragicità escatologica a cui essa stessa e il suo interlocutore stanno andando incontro. Con fare stoico e rassegnato, Franceschetti dà voce ai proteiformi aspetti che il maligno assume nel mondo contemporaneo, sempre travalicando e trasbordando il contenuto fattuale degli eventi. Viene evocata la guerra, dapprima «solo immaginata», poi allusa col riferimento alla città ucraina di Odessa – richiamando il conflitto attualmente in atto tra la potenza russa e il corpo NATO – e infine universalizzata nella sua ineluttabilità storica e ontologica («la guerra era davvero necessaria»). Si chiama in causa il problema dei femminicidi attraverso la descrizione dello stupro, con annesso mattatoio, di «un’altra donna penetrata contro il muro con una mano al collo. E poi la corda stretta, la vergogna, la mandibola. La corsa in sala operatoria, i gas la carne marcia, i resti da occultare». C’è poi il richiamo alla crisi climatica («Haiti grida e affonda», «Venezia affonda un millimetro all’anno», «La California brucia»), ai traffici illeciti di sostanze stupefacenti («Un sudamericano e un negro, c’era solo la fabbrica e la puzza di stabbio, sì ma giravano i soldi veri, invece adesso»).
Quello che si offre davanti agli occhi di lettori e lettrici è un’panorama «di morte e persecuzione»[5], ancor più enfatizzato dalle «partiture visive» di Giuditta Chiaraluce che fanno da sotto(s)fondo al ritmo incalzante e battente della prosa di Franceschetti. Non c’è passaggio del testimone tra passato e presente, non c’è dialogo, non c’è contatto tra temporalità ed eternità, ma solo «quello che è stato e quello che resta. […] L’origine, la fine». Ogni possibilità di futuro è negata. Non c’è «congedo», salvazione, prospettiva che guardi e si muova al di là della soglia se non per annientare e combattere ancora («La soglia. Oltrepassare. […] la guerra era davvero necessaria». Un solo futuro (o uno dei pochi) è usato per descrivere il “tu” immaginario: «Sarai mano costretta all’arcolaio», ovvero mano che dipana le matasse di filo. Nel lessico tessile, però, c’è una distinzione tra arcolaio e aspo: quest’ultimo è lo strumento che dipana i fili per formare le matasse; l’arcolaio, invece, separa per disfarle.
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Testi da Diabàllo di Emanuele Franceschetti
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La California brucia, come il travertino e come le lucertole che bruciano al sole. Nessuna somiglianza tra le immagini. Le forme ti oltrepassano. Conserva la vergogna della faccia che ti guarda. La bocca che maciulla un peccatore che non c’è. La furia dei proiettili, la peste nel deserto. Il cane testimone, quattro pietre. Ecce vexilla regis nelle fosse, tra i palazzi, nel veleno degli uomini, flammis acribus addictis. Sei quello che hai tradito. Scomparirai in anticipo, prima della partenza. Sarai mano costretta all’arcolaio.
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La soglia. Oltrepassare. Anche la mosca esiste, ruba, uccide. Scrivi come una lettera a nessuno e poi ritorna. Alla puntualità delle ossessioni, alle finzioni naturali, ai morti alle scritture. E poi colpisci. L’immagine è violenta, ma non conta. Dopo diranno che era inevitabile, saranno forti come un animale gigantesco. Nel duemilatrecento saranno ancora in tempo per la fine. Chissà quale preghiera, quali intossicazioni. Con altra lingua cantando gloria al padre, proteggete i figli, la guerra era davvero necessaria.
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Prospero si è impiccato. Brucia restando immobile la foresta di Birnam. Crollano le fortezze. Madrigali dalle carceri. Neonati fuoriusciti dalla tana, e già l’orrore, e già corrono mostri tra i palazzi, e già gli uomini corrono al capestro. Nessuna profezia. Siete iene che trattengono il seme. E poi la meraviglia che scolora, l’esplosione, la scomparsa, il sonno nel minuscolo universo. L’origine, la fine. Si sono accorti della bestia che ti corre dietro. Sei solo nel congedo che aspettavi.
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[1] G. Ungaretti, In memoria, in Il porto sepolto, Udine, Stamperia tipografica friulana, 1916. La raccolta fu poi rieditata dall’autore col titolo Allegria di naufragi (Firenze, Vallecchi, 1919) e nuovamente col titolo L’Allegria (Milano, Preda, 1931). Ora in C. Ossola (a cura di), Ungaretti. Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2009.
[2] A. Zanzotto, Filò [1976], in S. Dal Bianco, G.M. Villalta (a cura di), Andrea Zanzotto. Le poesie e prose scelte, Milano, Mondadori, 1999, pp. 542-543.
[3] Non dimentichiamo che Emanuele Franceschetti è un esperto di musica: oltre ad essere dottore di ricerca in Musicologia presso l’Università La Sapienza di Roma, è anche insegnante di Storia della Musica al conservatorio “L. Marenzio” di Brescia.
[4] L’autore, Venanzio Fortunato (530-607), compose questo inno a Poitiers in occasione dell’arrivo della reliquia della vera Croce.
[5] Così recita la citazione di C. Nooteboom scelta come esergo.