Dumbo, Centro di Poesia Contemporanea, Università di Bologna, 06.07.23
Diceva Le Corbusier che «La casa è una macchina per abitare» [1].
«Ricerche e studi provenienti dai due campi disciplinari dell’architettura e delle scienze umane hanno ampiamente analizzato le corrispondenze tra testo letterario e immaginario architettonico in esso contenuto o, viceversa, tra testo architettonico e immaginario letterario che lo ha ispirato.
Ma al di là della reciproca influenza o dell’analogia strutturale che può derivarne, è interessante verificare la possibile coincidenza di due azioni, il costruire e il raccontare, che sono anche due forme di interpretazione della realtà» [2].
Ecco dunque il racconto della realtà che dovrebbe dimostrarsi scontato, lineare, ma che in poesia assume in realtà una sorta di duplice ipotesi: quale verità cerchiamo di descrivere con la poesia ? La nostra? E perché essa dovrebbe essere talmente valida da diventare realtà di tutti? In sostanza cosa stiamo cercando di abitare?
Uno dei primi progetti che ho fatto in poesia si chiamava appunto oltre un quarto di secolo fa “Abitare gli spazi”. Nel centro storico del mio piccolo paese il tentativo era quello di inserire all’interno di luoghi-altri la poesia italiana contemporanea. Nella pratica dentro alle vetrine dei negozi erano stati posti grandi cartelloni, paragonabili agli attuali manifesti pubblicitari, con una selezione di poeti contemporanei. La provincia italiana permette questa sorta di decontestualizzazione. Quello che mi interessava però era l’ingresso della poesia in contesti non sufficientemente preparati, la soglia di attenzione per un potenziale fruitore magari portato al sentire artistico, ma mai totalmente spronato a conoscere. Se usassimo l’assioma di Le Corbusier il tentativo è stato di infilare la macchina dentro al salotto di casa per farne apprezzare l’infinito potenziale.
«Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana subito si scopre (sarà una dimenticanza del cartografo, una negligenza del politico?) una quantità di spazi indecisi, privi di funzione sui quali è difficile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio dell’ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. Dove i boschi si sfrangiano, lungo le strade e i fiumi, nei recessi dimenticati dalle coltivazioni, là dove le macchine non passano. Copre superfici di dimensioni modeste, disperse, come gli angoli perduti di un campo; vaste e unitarie, come le torbiere, le lande e certe aree abbandonate in seguito a una dismissione recente. Tra questi frammenti di paesaggio, nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, questa è scacciata» [3].
Dunque è vero che già in questo senso, e come individuato ad esempio in Italia da Laura Pugno [4] o Italo Testa [5], la poesia può veramente inserirsi all’interno di questo terzo paesaggio, quello più fragile e meno legato alle macchine, ma nel quale la fragilità può diventare velocemente propensione all’ascolto.
Ricostruire la città partendo
dai cantieri, coprire con le mani
polvere e sudore, tirare via l’amianto.
Dare una stanza ai figli che di là
ti guardano come se non esistesse
altro a questo mondo. Nel cuore
della notte gli stabilimenti
industriali continuano a rimuovere
le macchine. Se ne va un tempo
e già si aspetta che ne nasca un altro.
Così indifeso, fragile si affaccia al vetro,
dice due parole appena, respira piano
eppure cresce. Cresce ancora. [6]
Questa poesia non abita un territorio specifico ma un luogo prossimo a tutti, infatti è stata più volte indicata dal crollo del Ponte Morandi a Genova fino alle più recenti alluvioni in Romagna. Nonostante questo testo sia stato scritto attorno al 2015 esso indica in realtà una serie di casistiche e possibilità che si intersecano perfettamente nell’idea del terzo passaggio ma anche in tutti i limiti che una narrazione postumana e neoliberista sta dimostrando. Abitare i luoghi anche in poesia significa innanzitutto costruirli (o ricostruirli), definirli secondo gli schemi contemporanei, renderli ancora una volta abitabili. A questo punto va introdotto il concetto di Non luogo in Marc Augé:
«I nonluoghi sono incentrati solamente sull’idea del presente e sono altamente rappresentativi delle epoche contemporanee caratterizzate dalla precarietà assoluta (non solo in campo lavorativo, ma anche ad esempio dei sentimenti umani), dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un individualismo solitario» [7].
Su questi parametri è stato pensato e risolto Kobarid, la mia opera prima del 2008. Kobarid, Caporetto, segno di sconfitta totale senza possibilità di risalita. Una disfatta senza resurrezione che ha visto nella battaglia il sacrificio di nuove generazioni andate in contro al proprio destino (fallimentare in partenza) per le indicazioni di generali senza scrupoli.
In questo senso è ancora una volta il racconto della comunità a muovere il libro, non tanto la mia vicenda quanto piuttosto ogni storia che ho conosciuto e con cui ho interagito in un’epoca ancora molto reale e solo in minima parte virtuale, nella quale il fallimento vedeva davanti a noi il proprio interlocutore. E’ questo mancato filtro a rendere ancora una volta vero, tangibile, misurabile il racconto riportato anche nella sua spietata crudezza.
Ma tu credi veramente d’essere
un fallito ? E io invece cosa sono ?
Io che ho sofferto certamente molto più
di chiunque altro, se davvero credi
che ti ceda questo scettro puoi sbagliarti caro,
mi hai capito ? Tu ti sbagli e neanche poco.
L’ho ottenuto con fatica questo posto,
rintuzzandone gli attacchi, ho sacrificato tutto.
Questo è stato il mio lavoro di una vita,
il fallito sì: ma il migliore.
Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. O meglio nessuno può abitarli.
I luoghi e i nonluoghi sono sempre altamente legati tra loro e spesso nella modernità è difficile distinguerli come se fossero a un certo punto saltati i confini che li delineavano. Raramente esistono in “forma pura”: non sono semplicemente uno l’opposto dell’altro, ma fra di essi vi è tutta una serie di sfumature. In generale però sono gli spazi standardizzati in cui nulla è lasciato al caso e in cui tutto è calcolato con precisione. Sono l’esempio esistente di un luogo in cui si concretizza il sogno della “macchina per abitare”, quello di Le Corbusier, spazi ergonomici efficienti e con un altissimo livello di comodità tecnologica (porte, illuminazione, tecnologie automatiche). Ne identificano lo schema formale, ma ne impediscono l’esito.
E questo vale anche per la poesia: la stessa comodità riconducibile alla versificazione certa e riprodotta secondo schemi del novecento, la ripetizione del racconto d’occasione, l’utilizzo delle immagini e delle citazioni classiche, tutto rende possibile uno schema idilliaco, abitabile ma non abitato. Gli utenti dell’identità commerciale allo stesso modo poco si preoccupano del fatto che i centri commerciali siano tutti uguali, godendo della sicurezza prodotta dal poter trovare in qualsiasi angolo o scaffale la propria identità preferita o la medesima disposizione degli spazi. Librerie come supermercati, poesie come oggetti del duty free di un aeroporto. [8]
Riportare strettamente la poesia alla propria realtà, escludendo l’accezione civile che troppe volte viene mescolata alla questione sociale, significa riconsegnare gli spazi all’interno di una precisa coscienza collettiva. Ci viene in aiuto in questo senso la poesia che si interseca con l’architettura.
«Architetto poeta è John Hejduk le cui poesie sono pubblicate nelle due raccolte Such places as memory: poems 1953-1996 e Lines no fire could burn. Anche per le poesie di Hejduk è possibile rintracciare delle analogie con le composizioni architettoniche, in particolare riguardo alla ripetizione e alla serialità che caratterizzano le serie di sperimentazioni geometriche e compositive delle Texas Houses, Diamond houses e Wall houses, come le infinite variazioni zoomorfe delle sue piccole architetture “vagabonde”.
Nell’ultima delle poesie contenute nella raccolta Such places as memory, intitolata Sentences on the House and Other Sentences ritroviamo, in una lunga serie di personificazioni della casa, (le Sentences on the House sono 150) il continuo riferimento alla dimora come luogo della vita e della morte (le rimanenti 82 Other Sentences hanno come protagonista la morte) definite dalla verticalità o orizzontalità di un passaggio sulla soglia della casa: “L’altezza di una porta di una casa è per l’entrata dell’uomo/la larghezza di una porta di una casa è per l’uscita dell’uomo:/una dimensione per la vita/l’altra dimensione per la morte” Tutto ciò che si svolge nella casa è un rituale liminale ha un significato sospeso tra la vita e la morte. Analogamente all’angolo retto lecorbuseriano, la verticalità e orizzontalità definiscono in estrema sintesi il rapporto tra l’uomo e sua presenza sulla terra» [9].
Che nel mio caso porta a questo:
Aspetto davanti alla stazione di Bologna
un mio amico residente nel bresciano
e che non vedo ormai da tempo.
Non tutti i viaggiatori sanno che lì
c’è un orologio rotto: alcuni modificano
il proprio, mentre altri si rivolgono
agli addetti chiedendo spiegazioni,
lamentando il disservizio.
E per certuni quella lapide è patetica,
porta tristezza alla mattina presto a questi
che si recano al lavoro. Gradirebbero piuttosto
un cartellone che la sostituisca,
qualcosa d’esplosivo, una pubblicità di sconti
eccezionali, di prezzi bomba, qualcosa
d’inimmaginabile, che colpisca le coscienze,
che sui passanti abbia un effetto devastante. [10]
«In Writing Culture James Clifford e George Marcus [11] definirono per la prima volta i concetti di “poetiche e politiche” in riferimento alla ricerca antropologica, mutando per sempre la concezione del rapporto tra forma e contenuto nell’ambito delle scienze sociali. Applicati in questo contesto, i due concetti rimandano al fatto che nessuna scelta formale, anche nell’ambito dei processi commemorativi, può mai essere considerata neutrale dal punto di vista epistemologico. Parlare di poetiche e politiche della commemorazione significa di fatto sottolineare che oggetti, artefatti, forme culturali non rappresentano soltanto asettici involucri di pezzi consistenti del nostro passato, più o meno apprezzabili dal punto di vista estetico, ma piuttosto influenzano i contenuti stessi della memoria a cui danno letteralmente forma e, pertanto, costituiscono sempre punti di vista specifici e ben delineati sulla realtà che intendono rappresentare» [12].
In questo senso non era e non è possibile evitare di sottolineare un evento cardine come quello della Strage della Stazione di Bologna senza definire un territorio che non è delimitato solo dai contorni della città ma che è soprattutto una presa di coscienza dei luoghi nella loro essenza e del significato anche simbolico che caricano su di loro nel momento in cui vengono a contatto con uno dei momenti più tragici della recente storia italiana, in un rapporto vittime/carnefici nei quali la parte dei boia ha ben altra possibilità rispetto alle vite comuni portate via o ferite per sempre dalla bomba esplosa il 2 Agosto 1980.
scoppia una bomba
nel cuore di Bologna.
due agosto ottanta.
Se dalla Piazza ti incammini e prendi i portici
del centro e riesci a superare in un sol colpo
quella folla, i saldi, le vetrine, i tavolini delle firme,
se riesci a non fermarti davanti a quel barbone
inginocchiato a mo’ di Cristo che chiede
le monete e prega tutti per i soldi, se a un tratto
ti fai forza e inizi a correre smettendo di vedere
altrove ti troverai d’un tratto alla sinistra
il luogo steso a gambe aperte e in mezzo la ferita
che ancora accenna, che ricorda il giorno
in cui la gente è stata tutta uguale per una volta,
e solo quella.
Tutti comunisti, preti. Tutti bolognesi. [13]
***
[1] Vers une architecture 1923.
[2] Giuseppina Scavuzzo in Rooms and verses, nothing but architecture, in G. Corbellini (a cura di) Telling spaces, Letteraventidue 2018.
[3] Gilles Clement, Manifesto del terzo paesaggio, 2004 ora in Quodlibet 2016.
[4] Si veda in questo senso In territorio selvaggio, Nottetempo 2018.
[5] Di recente uscita, Autorizzare la speranza, Interlinea 2023.
[6] In La stazione di Bologna, Feltrinelli 2017.
[7] Marc Augé, Nonluoghi, Eleuthera 2018.
[8] Sul tema in Kobarid avevo immaginato (o per lo meno ricordato come percepito) l’incontro con una dei protagonisti delle efferate vicende delle Bestie di Satana che per l’appunto lavorava in uno dei Duty Free dell’aeroporto Malpensa. Malpensa. // Non è per dire, io ti ricordo al duty free / della Malpensa, con il vestito, come tutte / perché uno sguardo come quello non si scorda: / di chi da terra ha sollevato un corpo / ancora caldo e l’ha piantato, l’ha ricoperto, / ha omesso, ha tolto. Senza parlare, nulla. // E’ un mondo a parte la Malpensa, coi tabelloni bianchi / coi profumi, le sigarette a stecche da 50, / il brandy che ti guarda e sembra un viso / che conosci, sparato in volto, decapitato / chiuso dai capelli, misto alla polvere , / che implora di riemergere.
[9] G. Scavuzzo, Architettura e narrazione. L’architetto come storyteller? (DOI: 10.1283/fam/issn2039-0491/n45-2018/226).
[10] Testo di chiusura di Kobarid e di apertura de La stazione di Bologna.
[11] Clifford, Marcus. Scrivere le culture, Poetiche e politiche in etnografia, Meltemi 1997.
[12] Anna Lisa Tota, La città ferita, Il Mulino, 2003.
[13] La stazione di Bologna, Feltrinelli 2017.
***
Matteo Fantuzzi (1979). Ha pubblicato Kobarid, Premio Camaiore Opera Prima e nel 2017 La stazione di Bologna per la casa editrice Feltrinelli, Premio Matteotti della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha curato La linea del Sillaro, La generazione entrante e, assieme a Isabella Leardini, Post ’900. Lirici e narrativi. Ha scritto per l’Unità. Oggi coordina per Strisciarossa le pagine di UniversoPoesia legando i temi dell’attualità alla poesia contemporanea.