MENTI SOMMERSE 3: SE AMARE È ANCORA TOGLIERE MORTE: IL GRANDE INNOCENTE DI GABRIEL DEL SARTO

Si propone la lettura critica di Massimo Del Prete a "Il grande innocente" (Aragno, 2017) di Gabriel Del Sarto, da una serie di articoli soppressi usciti originariamente su Menti Sommerse. [L'immagine è un MEME generato dal nostro AI di fiducia Fractor Ignotus (intelligenza artificiale)].

«[…] Scaccia | da me questo spino molesto, | la memoria: | non si sfama mai». Così scriveva Vittorio Sereni nella sua celebre poesia La malattia dell’olmo.
E forse dello stesso spino molesto parliamo, addentrandoci con lentezza e stupore nei versi di Gabriel Del Sarto e confrontandoci con la sua più recente raccolta poetica: Il grande innocente esce per l’editore Aragno nel 2017 e, per ammissione dello stesso autore, costituisce l’ideale chiusura di una trilogia sul tempo.
Tempo e memoria, dunque, come i poli necessari di una visione del mondo: ciò che siamo, il percorso che qui ci ha condotti, la profezia del futuro che nei versi di Del Sarto assume sempre i contorni allucinatori (o biblici?) di un’apocalisse profana. La raccolta ha un andamento poematico e alterna sezioni più compatte ad altre più frammentate, ma l’unità sta tutta nel ragionamento e in una medietà espressiva che riesce con parole quotidiane ad esprimere certe vertigini, certe altezze che davvero fanno pensare al poetare sereniano.
Ma i confronti qui non servono: come su un’altalena seguiamo i passi di Del Sarto nella sua dura odissea, che dal passato irrintracciabile ritrae l’uomo nella resistenza della vita, nel suo sforzo per servire la Parola.

PORTE/SFERE

«[…] Sembrano quello che sei tu per me:
cose al limite del vento,
scie bianche che attraversano
il vetro del soggiorno.»

Le prime due sezioni del libro di Del Sarto contengono poco meno di dieci testi, eppure in questi si è come all’anticamera di un percorso che si rivelerà molto più frastagliato. La vita in questo avvio è ovunque e in nessun luogo, i riferimenti precisi alla realtà scarseggiano: la generalità ci porta alla paradigmaticità, come se questa parola fosse davvero la parola di tutti e non solo dell’io (d’altronde questo sarebbe il compito di ogni buona poesia).
«Esiste quasi | da sempre anche l’Anticlinale […] | dove gli strati sono convessi | verso l’alto e puoi trovar, dicono, | dal basso a salire, l’acqua»: i significati già si addensando in questa poesia proemiale in cui l’anticlinale sembra proprio essere metafora di una memoria che si sottrae al flusso perenne verso il futuro e, contro le leggi della fisica, si getta all’indietro, dal basso verso l’alto.
Ci conduce a un’esistenza mnestica, fatta di ricordo e non meno valida di questa, fatta di cose rintracciabili, palpabili. Tutto ci induce al ricordo, alla porta verso il passato che eravamo noi («Le porte sono queste che non vedo | fin quando non chiudo gli occhi») o erano gli altri ormai scomparsi perché morte e passato costituiscono le due forme più alte di separazione. La vita allora è «l’attesa | impossibile eppure costante», una resistenza contro il meccanismo del mondo ma anche verso ciò che il mondo ha fatto di noi.
La sfera, nel dettato di Del Sarto, sembra assumere i contorni di una bolla, e dunque di un confinamento che separa uno dall’altro: tutto ci riporta allora al nostro tempo e alla nostra società in cui siamo rapiti dalle «forze del desiderio, percepito ad una quota superiore di possibilità». Ma forse sono piuttosto le forze del bisogno, indotto dall’esterno quindi falso, astraente, dannoso. Tolto questo bisogno che non è il nostro, cosa resta delle nostre singolarità? Possiamo davvero ancora tentare il contatto con il prossimo? Riusciamo a provare ancora «l’impaccio dolce di sostenerla | col braccio» come succede a una coppia in metropolitana o «il tempo è un battito | acquoso, dentro l’universo» e noi non ne abbiamo potere? Avere coscienza del meccanismo che ci regola non basta a salvarci e anche la domanda giusta forse già in sé contiene l’impossibilità di una risposta: «[…] Le porte, domani, e un mattino in cui chiedersi se amare è ancora togliere morte se il cosmo non ci ignora – se non fossimo soli.»

GLI UFFICI

«[…] in un tempo o solco tracciato da altri, non qui,
e per nessuno di noi, che non sappiamo perché
sostiamo in questa veglia, aspettando cosa.»

Il primo dei poemetti di Del Sarto (Gli uffici, appunto) rappresenta una specificazione di questi temi declinati nel concetto della company, dell’azienda rivolta all’efficienza, alla produzione, al fatturato. È un’azienda che lavora marmo e, nella lettura, avvolge come un pulviscolo l’idea delle sfere, delle bolle attraverso le quali pretendiamo di essere vivi: le rendono manifeste come il laser col fumo. Del Sarto parla di «denaro come corresponsione necessaria per accettare le nostre viltà», come premio per tenere in vita giorno dopo giorno un capitalismo corrotto, che siamo indotti a ritenere un fatto, uno stato di natura.
Piccoli uomini, giovani che si piegano alla necessità come fosse la massima vetta a cui aspirare («Lui, nei suoi ventinove anni | più cresciuti se oggi | se oggi può dire del contratto – lo specchio | della corresponsione») ma forse solo un preludio di vuoto («[…] la firma doppia: una | sul contratto di apprendista, l’altra | nella seconda metà, quadrante | di destra, di un foglio insensatamente | bianco»).
La logica dell’azienda e la modernità della tecnologia ci tengono costantemente fuori di noi («quando sfiorare lo schermo | del telefono cellulare è l’unica forma | di contatto con se stessi»), ci tengono svegli ma come drogati, a controllare «il dormiveglia | dei dati che domani avranno | una vita insensibile e netta», diversa dalla nostra, già liquefatta in questi ingranaggi. Non si può uscire dall’azienda, non si può uscire dall’idea dell’azienda se ogni uomo «deposita ancora la sua vita nelle organizzazioni», non sappiamo più cosa amare se non «quella cronologia | che ci inventa malgrado la tela | della nostra assenza».
Inventa, qui latinamente, come ciò che ci trova, che ci rinviene sotto i cumuli dell’assenza, con il cuore sempre più spento «che persiste | in un destino, calligrafie minute, libri contabili». Il poema allora sembra fare avanti e indietro, dentro e fuori le mura dell’azienda, dell’ufficio dove sempre ci riporta la catena della necessità se la memoria non la intacca di quando in quando («penso altro, | vedo altro, sono | altro, dimentico di quello | che è l’uomo»), o il dubbio. Avere coscienza dell’errore, di questa diffusa estraniazione, della separazione, ci rende migliori? Ci pone più avanti rispetto a chi non lo vede? Così nei versi «[…] massimizzare. «Lo fanno tutti. | Noi chi siamo? | A segnare il tempo, le storie, sono uomini senza nome | e senza nostalgie, simili a noi | che ci crediamo migliori. Abbiamo tutti | vicino cose fredde, le amiamo». || Come tutti ci facciamo lontani».
Non c’è per nessuno un passaggio privilegiato: ci vuole freddezza per far brillare il capitale, ma c’è la stessa freddezza anche nei piccoli dipendenti che non vedono la cima, che per la vita amano anche la gabbia, l’annullamento del senso di sé. La necessità sembra più forte dei nostri desideri e, come ogni altro animale privo di coscienza, viviamo per il solo meccanismo della vita. Anche in fondo allora, aleggia sempre questo pulviscolo che manifesta la nostra viltà e ci abbaglia, ci allontana dalla nostra umanità.
Se qualcosa lo contrasta è la tensione al transito, al momento di oltrepassare il tempo e di superare sé stessi, la propria condizione: desiderio di profezia, millenarismo forse, ma d’altronde non molto ci resta: chiudere gli occhi, respirare, pensare di toccare «come ci stringe questa attesa, e come | si tramuti ancora la speranza | nella disperazione di un avvento infinito».

IL GRANDE INNOCENTE

«[…] quell’ora dopo il tramonto in cui potrebbe esserci,
una veranda sul fiume, un frutteto rigonfio
e benedetto da Dio, un silenzio eterno.»

Il secondo movimento poematico del libro di Del Sarto è anche il cuore tematico della raccolta e probabilmente il suo momento più alto: è il racconto del ricordo del nonno dell’io, ucciso nel ’44 durante la Seconda guerra mondiale. Non memoriale, tuttavia, ma ancora una volta discorso sul dubbio: se cioè le storie tramandate dai testimoni non siano altro che verità individuali, nonostante la portata storica dell’evento, incapaci di ergersi a verità assolute. E la lotta dell’io, la «ribellione a questo sospetto». D’altronde, non si tratta solo di ricordare ma di mettere in fila la catena del ricordo attraverso una serie di persone: il bisnonno, il nonno, il padre dell’io. Una catena che ha reso possibili certe vite, che ha condotto ai molti.
Il primo contrasto, in questa lunga serie di 17 testi, si ha tra il mondo del nonno, il grande innocente, in cui la morte era ancora la possibilità di opporre qualcosa al male, e il nostro oggi, in cui possiamo solo implorare, perché tutto in noi si è eroso e non abbiamo più nulla da opporre come scudo («nulla abbiamo da opporre | nemmeno la forza dell’istinto»). Viviamo distrutti in questo incubo dell’individuazione e non sappiamo uscire da un circolo di verità che sono solo opinioni, che non hanno niente dell’universalità («ed io che non ho mai saputo né potuto, di fronte a loro, raccontare di te come fosse naturale lasciare che tutto si perda nel vuoto delle verità individuali»). La morte un tempo era la vera «separazione radicale» («una morta accettata spontaneamente») mentre per noi la vita è già divisione («è la divisione, quando sui divani | al terrore affianchiamo non qui | non ai miei figli»).
Ma allora, come può esserci una verità assoluta, per tutti valida se l’unica verità è la solitudine di ognuno («[…] la superficialità del mondo. | La semplice verità della solitudine di tutti | nella vita di questa città»)?
Forse davvero non possiamo dire nulla che non sia privato e dunque invalido nella narrazione («oltre la salvezza individuale e privata | e per questo indicibile»): un desiderio che si contraddice di continuo e chiede una ribellione. Per riuscirci serve rinunciare al totale nel totale, tenere il totale (il mondo) nel singolo (il grande innocente) per poi sublimarlo.
Il mezzo? La memoria e la pietà non detta ma diffusa e respirabile che abbraccia i corpi «nella loro evidenza che svanisce» e li trattiene; la memoria che sente sé dentro altri e così perde e acquista identità, si fa forza nella possibilità che apre il conservare («[…] la cura | che solleva le tessere di una vita da quel vuoto»), il credere che il seme trattenuto del passato possa far germogliare il futuro.
La memoria dei vivi e dei morti (dell’io e del nonno) si sovrappone, chi ricorda diventa il ricordato, i contorni si disciolgono, si perde precisione, qualcosa si confonde: si perde esattezza per far scoppiare le bolle, per eccepire le sfere. Ne nasce una memoria delebile, fallibile eppure nostra («la memoria è non ricordare tutto quello che vorrei. Accade | anche per le cose che più amiamo. Lo so. Non importa»).
E davvero non importa, lo sforzo vale «i nostri versi sulla morte», qualunque cosa cerchiamo di salvare. D’altronde non è che la «quota di desiderio / che abbiamo dissotterrato» per rispondere all’ «unica decisiva | sentenza domestica: a chi siamo mancati?».

I CARDINI

«[…] Saremo
una scommessa, punti che si cercano, come
lontani pianeti imprudenti, soli
e persi nel desiderio di solcare i cieli.»

Questa sezione raccoglie una serie di testi incentrata sulla figura di una figlia piccola, in un discorso di grande ambivalenza. Da subito si avverte una forte astrazione simbolica: la nascita e la vita della figlia sono la vita stessa del mondo, sono il concetto generale di Vita che tuttavia non sembra potersi cogliere nella sua natura ma solo nella sua raffigurazione.
L’io, qui più che altrove, insiste sul linguaggio come un codice usato per rendere comprensibile l’esistenza umana: l’io dice «mi sento pensato in linguaggio» che è anche forma di mistificazione o almeno di traduzione scorretta («la lingua è […] un’illusione del pieno […] caduta | del linguaggio dentro il linguaggio»), inadatta a descrivere o a iniziare qualcuno.
La figura del padre sembra quindi appena più cosciente rispetto alla figlia bambina, cosciente di un inganno e allora anche la nascita o l’esistenza della figlia non apre tanto alla possibilità della vita quando alla prefigurazione della morte insita nella vita (che si avverte come un’eco in versi come «gli attimi di cui non saremo | memori’ o ‘il mio terrore quando la fine | può arrivare»).
Il padre non sembra poter proteggere, ma piuttosto rinnovare con la nascita uno stesso destino che nessuno dei due protagonisti può contrastare, l’ombra di un moto ineluttabile («sostengo il senso che ci sarebbe anche | senza di me»). La morte allora, sembra il modo di consegnarsi a questo destino, insieme («quando la fine | può arrivare, e vuole essere con te, estesa e adesso») o distinti («[…] quando | mi vedrai morire sarai unica | separata dagli altri […]. Ci allontaneremo | anche per questo, in quel momento»).
Ma anche qui una luce brilla alla fine, prima della resa, per noi che siamo «occasioni potenti | di memoria che resiste». L’ultimo testo si apre infatti con un esergo da Eliot in cui si evidenzia la parola “salvation”, cara a chi crede nella Parola: l’io cede a una preghiera che diventa fattiva per la millenaria antichità della fede degli uomini, condensata laicamente nell’Altro «che ti guarda | da lontano, a figura piena». In una visione dall’alto il tempo è tutto presente a sé stesso, le solitudini divergenti arrivano a coincidere e la salvezza dei due e di tutti sembra possibile, come in una fiaba in cui «quel nome | sentito è il tuo, il mio, senza fine musica | per il mondo che comincia».
Arrivare in fondo a questo libro significa tentare di scorporare dall’intrico dei versi il tempo, la memoria, la morte, la vita, il passato, il futuro e non riuscirci. È una scrittura troppo grande, troppo vasta, slanciata in ogni dove con una forza silenziosa e inarrestabile che prova a dire tutto e, io credo, ci riesce.
A questo può portare, nelle giuste mani, «la fatica della parola» per cui «serve del sacrificio». La poesia, nei versi che chiudono il viaggio, è come un albero: può crescere, fiorire, indicare una via. Ma occorre «del tempo e dell’acqua per lui» e se un libro così esiste forse allora possiamo convincerci che la poesia sia una forma di Conoscenza.

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