Il mio rapporto con la poesia di Michele Bordoni si è realizzato casualmente, attraverso versi slegati dal loro macrotesto, lacerti, strofe sbranate.
Eppure, tanto è bastato: come quando si ascoltano poche note di una partitura e se ne riconosce comunque il valore, la fatica dell’esercizio e se ne conserva il piacere brevissimo.
Oggi, dopo quasi un anno, ho potuto godere dello spartito completo e l’esperienza ha ripagato alla grande le aspettative dei vecchi ricordi.
Gymnopedie (Italic, 2018) rappresenta l’esordio di Bordoni ma, probabilmente, solo perché il suo autore ha voluto serbarsi a lungo, raccogliersi, elaborare la sua “eleganza”, e poi venir fuori.
LENT ET DOULOUREUX
La prima sezione di Gymnopedie realizza anche il primo movimento della suite di Bordoni (è praticamente ovvio il primo riferimento del titolo al componimento per pianoforte di Erik Satie, diviso in tre movimenti): lento e doloroso. Com’è in effetti l’atmosfera che restituisce la tessitura dei testi, giocando attraverso una compattezza concettuale di temi che, in un insieme di rimandi, si sciolgono e si richiamano attraverso la lettura.
Il cardine centrale di questa sezione è allora l’assenza («l’impossibilità della distanza», si scrive in apertura, che io leggerei come le cose che la distanza rende impossibili), rappresentata attraverso il mot-clèf del congedo. Questa parola che si ripete più volte (talvolta associata all’addio, come in «[…] nella traccia breve del tuo congedo. || Si origina lo spazio dell’addio», in un esempio di significativa capfinidad tra strofe) appare per la prima volta in questi versi: «[…] permaniamo | nel perenne congedo senza quiete».
Se a primo impatto il congedo sembra equivalere alla vita stessa, occorre subito ricredersi: è piuttosto la condizione fondante della vita, quella di doversi sempre separare da qualcosa o da qualcuno, quella di essere, inesorabilmente, sistemi isolati.
Il primo congedo si realizza dalla figura-immagine del padre, tratteggiata tutta nel passato e attualizzata per mezzo dei vuoti lasciati («su arida erba corri | senza rumore ch’io possa ripetere’, ‘Ma quanto manca di questo scomparire | di te dietro la voce | è disperso e ineffabile ci resta»).
Ma lo stesso può dirsi per altre figure, forse non condannate alla perdita ineluttabile ma, di certo, lontane («bisogna separarsi, richiamarsi a distanza’, ‘Già allora sapevamo […] | che era importante | ferirsi, e mancarsi | che era importante rimanere in due»).
Già dopo pochi testi sono stato colpito dalla precisione di Bordoni e dalla sua pazienza nel descrivere e introdurre le situazioni dei suoi testi, provando spesso a dare anche un riferimento vicino al reale, nel tempo e nello spazio. Mi appare come un’abilità classica, antica, una sorta di “tèchne”, di chi avverte la propria poesia come oggetto di dedizione e di perizia.
Un esempio, fra i molti, in questi versi: «Misuravo il tormento delle ore | pregando la tua fretta d’annunciarti | precoce». E qui l’accento prosodico che scavalca l’articolazione metrica supera l’impostazione classica e va oltre, nel prosieguo del verso che fa«[…](precoce). Eravamo bravissimi […]», con un cambio repentino di registro, di ritmo, in questa apparente precessione degli accenti, come quando in musica il tempo cambia da una battuta all’altra: un tempo dispari.
È a questo punto che si affaccia una figura fantasmatica, quella di una donna amata (a cui l’io si riferisce con pendant classici come Euridice, Penelope, Amarilli), attraverso la quale il “tema dell’addio” viene condotto più avanti ancora, verso l’insufficienza del ricordo e l’incapacità della parola di lasciare tracce contro la ferocia del tempo e della distanza.
Le cose che si muovono sono destinate sempre ad allontanarsi («respiro buio del mutamento») in una rilettura tragica del pantha rei eracliteo («Noi non abiteremo mai più questa terra | con queste stesse ossa»), non come constatazione del prodigio, ma come terrore dell’impermanenza.
Anche il tempo vive «nel ritmo irredimibile dei giorni», in questa circolarità che sembra opposizione al mutamento-allontanamento, ma è solo sterilità, impossibilità di apportare cambiamenti a un meccanismo che non può cambiare. Per l’io «svanisce pure il solco del ricordo», dal momento che sogno e memoria sono solo scorie dell’irrevocabile («[…] libertà | di te dalla catena del pensiero | di te dalla tua immagine sospesa»: bisogno di presenza).
Questo si riverbera direttamente sul dire poetico, sulla sua possibilità di farsi traccia duratura («Mi piacerebbe lasciare una traccia | nella misericordia della morte», qui come fosse un’estrema concessione). In apertura, infatti, si diceva, riferendosi alla parola: «Di parlare | quasi a doverla masticare a vita, | dimenticando di doverla dire».
Questa donna e questo amore sono impantanati in questa impasse ma l’io non si arrende nella sua parola, non dimentica di doverla dire. E nel farlo sfoggia un repertorio di estreme preziosità comparabile, io credo, al Montale della Bufera. Stupendo il dettaglio del «tocco delle labbra che s’immola | ghiotto sul ciglio del bicchiere», ma ancora di più versi come «mentre lontana sempre più dilegui | dalla palpebra che segue il tuo profilo», pendant perfetto di Montale («mi salutasti – per entrar nel buio»), o ancora «mentre l’ossidiana | verde degli occhi già s’infrange a terra, | si fa futuro. E il canto è del passato», che è puramente Clizia divenuto angelo in un’atmosfera profetica, oltreumana, dispersa.
Qui, però, a disperdersi è solo la poesia: «non spero più che queste undici sillabe» dice l’io, per poi concludere il suo testo con «l’impossibilità del dire e del restare». Verso stupendo nel suo ritmo ma che, con le sue 13 sillabe, rompe un andamento di endecasillabi ben più che tendenziale segnando, sul piano formale, una rottura già avvenuta sul piano dei contenuti, e direi sul piano morale.
È così che l’io cerca la soluzione correndo tanto da arrivare in certi non-luoghi, come il punto di congiunzione di rette parallele, dove «la tua bocca pronuncia il mio nome». Tutti i testi conducono qui, in questo oltre, «qui nel sole che trasecola | dove finiscono le tracce» e anche i disperati tentativi di lasciarne di nuove. Qui il ricordo «diventa voce senza più parole», è silenzio ma dice («nel silenzio che nomina»): è un assurdo significante, come un paradiso dantesco.
In fondo però, quale poeta rinuncia al suo dire? È come «il lascito dolciastro d’una muta | resistenza», un atteggiamento antichissimo eppure moderno che ritorna in tanti giovani autori oggi, come se tutti avessero una visione lucidissima dei vuoti del nostro tempo ma non dimenticassero mai la guida di Fortini e il suo «nulla è sicuro ma scrivi», che qui Bordoni ripropone attraverso Rilke: «Forse dico questo, che non c’è luogo | alcuno per stare | se non l’esilità della parola, | il suo fuoco mite.»
LENT ET TRISTE
La seconda sezione prosegue l’andamento della raccolta ponendosi come una sorta di interludio rispetto ai movimenti principali. Intermezzo tematico oltre che formale, tutto centrato sul discorso della resistenza, attraverso due testi lunghi e ripartiti internamente.
Il primo declina il tema dal punto di vista umano, personale, di una vita vissuta, toccata e forse per questo comprensiva di ogni possibilità. «La voce sterminata del non detto» apre evidentemente uno squarcio rispetto a tutto ciò che una persona potrebbe essere nel suo percorso.
Due versi lo svelano: «combacia la storia col presente | […] e il futuro rientra nel suo simbolo». È come se, da individui, fossimo oggetto di una tradizione dinamica in cui storia e movimento presente si slanciano verso il futuro. In questa compenetrazione attiva e vitale dei tempi «si folgorano inizio e fine», si esce dalla cronologia. Storia, e vita personale di ciascuno, nella libertà di scelta e di espressione («L’essere autentici, unici […]») in cui il futuro è simbolo, cioè astrazione riassorbita di ogni possibile esistenza.
Tuttavia «non c’è libertà nella variazione | non si hanno più risposte ma rinvii» e l’autenticità è spezzata: il passato, o la tradizione, non sono trampolini ma gabbie. Chi non si rifà al tema già scritto (attraverso i rimandi, i “rinvii” appunto) non trova posto nel mondo-società. Ma è qui, dentro questo giogo, che emerge la parola “esercizio”: «non è cosa da poco l’esercizio», che attraverso la ripetizione, anche ossessiva, consumante (lo sa bene chi ha studiato uno strumento musicale) «scava fino in fondo nella forma» fino a quando «distilla un varco», che dal significante generico conduce al significato.
L’esercizio è quello ginnico delle Gimnopedìe, come ricorda Franceschetti nell’introduzione, una fatica ma anche un perfezionamento del gesto che hanno un significato superiore, e cioè rituale.
Nel secondo brano (Gymnopedie) il discorso si apre ancora sull’umano, in cui il dolore è ora «figura pari alla tua vita», eguagliato alla vita e unica forza in grado di dire. Ma è in questo vuoto che «si fa urgente e necessaria | la parola, quand’è la sua impotenza | a farsi indispensabile | ed il gesto».
Il gesto, da muscolare o fisico, diventa movimento di creazione, poiesis per eccellenza, tanto più urgente più è squilibrato verso il nulla.
«Resistere ed avere un’eleganza» diventano atteggiamenti infine espliciti che occorre assumere: è solo grazie a questo che la poesia si perpetua, fuori da discorsi razionali e tutta dentro una sfera etica che prova di continuo a risignificarsi. Meravigliosa la chiusa che riporto per intero:
«Resistere ed avere un’eleganza
che sia preghiera e perimetro di voce,
la fioritura nell’apnea del canto.
Resistere com’è giusto
rituale
del crepuscolo
com’è tutta Venezia nelle strette
se si apre una finestra, ne esce il sole
l’acqua ne ride un poco e lo sprofonda
nel fondale di pietra e non dimenticanza.»
Con la bellezza eterna e indecifrabile di Venezia e il ritorno sulla memoria, il riscatto di una traccia possibile, la negazione della miseria: la dimenticanza.
LENT ET GRAVE
Questa sezione, l’ultima, sembra partire con morbidezza, forse sulla scia luminosa del movimento centrale, e il secondo aggettivo del titolo quasi suggerisce una diluizione, un allargamento degli intervalli tra istante e istante («C’è una pace oltre la quiete della sera’ | […] dove non si è o forse si era interi»).
Si continua, cioè, coi discorsi sul fare poetico ma declinati in senso positivo: la poesia sembra fissarsi come un ritrovamento dentro tutto il resto della vita («l’imprevisto stupore di una traccia | dimenticata dentro la giornata») ma non più forte del «rovello irrisolto della sera» (e qui un richiamo al Sereni de I versi: «Si fanno versi per scrollare un peso | e passare al seguente. Ma c’è sempre | qualche peso di troppo, non c’è mai | alcun verso che basti | se domani tu stesso te ne scordi»).
Forse anche per questo la letteratura si trasforma in un’ostinazione, in un tentativo di rispecchiarsi e di ritrovarsi. È il caso dei due testi “gemelli” a pp, 55-56, che in effetti si riflettono in eco:
«La tentazione di non appartenersi.
La pioggia scava solchi nella sera […]
contro
Una cicala a intermittenza vibra
il suo lamento d’inappartenenza,
traccia segni, apre solchi nella calma […]»
L’io che legge e l’insetto che canta, la pagina e l’aria. La cicala che suona per affermarsi, per appartenere a un luogo e l’io che, quasi per necessità, continua a cercarsi «fra le pagine degli altri», continua a cercare un’atmosfera e una cultura.
Questo non significa trovare un rapporto sereno con la letteratura, esercizio attivo e passivo. In questa sezione anzi, si scivola ancora di più nell’antico dilemma che la oppone alla vita: «io non so affatto la sincerità | dei gesti antichi», la vita vera, vissuta che l’io ha in qualche modo sacrificato all’apprendistato poetico («colare l’esistenza in una forma | elegante – lo ammetto – più vicina | al cuore che si nega che all’abbraccio»).
Scrivere allora è una forma sofisticata di silenzio, di estraneità, dove l’equilibrio manca e qualcosa deve essere sacrificato:«perché in realtà parlare veramente | con tutto il corpo dentro un puro suono | è un’altra cosa […]». Col corpo si può dire davvero, significare colori visibili, tangibili («[…] parla con l’immagine del corpo | […]. Sia quell’intreccio morbido una traccia, | sia disegno, | filigrana del mondo». Come, stando a Giudici: «in ogni caso l’essere è più del dire»). Diversamente la parola, anche se cercata lungamente, lascia soli dentro l’abisso, non ha posto per l’altro.
C’è la musica, però, sullo sfondo di questo quadro, il sottotesto (o il contrappunto) di tutta la raccolta. Prima solo sussurrata ora chiara ed evidente, a partire dai titoli (Concerto BWV 974, Bouree, Arabesque) e poi nelle rappresentazioni, letterali (delle esecuzioni) e metaforiche. Con questo intendo quelle sensazioni incomunicabili della musica (non linguistiche in senso stretto) che rendono così bello il suo parlare («C’è in ogni nota la disperazione | della radice»).
Quando la musica si appropria del testo lo porta in un altrove che si può solo intuire: questo paio di versi ne ridanno la cifra («[…] e la frequenza grave e inascoltata | che tutti ci contiene e ci nutrisce»), con quel suffisso incoativo -isc che esorbita la ragione attuale della lingua perché lo vogliono misura e suono, la musica, e proprio per questo sfuggendo all’esercizio di stile gratuito. Chi suona, spesso ripreso nell’atto, come si diceva, gode di uno status ulteriore («Elena nuda su quello sgabello | sacrificata alla bellezza ermafrodita | di te e della tua musica»), ben più che sensuale/sessuale e goduto da chi ascolta come un dono («Ricordati di noi»).
Ma è solo in fondo a queste pagine che tutto trova fusione e direzione. A partire dal testo dedicato alla madre, che fa di una situazione comune e reale («quella fotografia di te da giovane») uno dei nuclei centrali del libro. «Non era un gioco o un semplice esercizio. | Era il tuo modo estremo di resistere | al richiamo opprimente della terra»: esercizio fisico (qui plastico e ancora di più fictor, creatore) come modo della resistenza nelle proporzioni terra : peso / aria : leggerezza. E l’io che in questo, nel suo essere non ginnasta ma poeta, trova un legame ben più che genetico («confermarmi figlio | del tuo affidarti al vuoto che ti libera»).
E infine il testo Arabesque, bellissimo, in cui tutto ritorna all’origine e si mostra senza mediazioni. Un’altra sala da concerto, un altro pianista nell’esecuzione estetica e morale del suo brano, e un dialogo mentale ma chiarissimo: «C’è ancora tanto da imparare – dicono | le mie dita esili – | è ancora molto lungo l’esercizio». Gymnopedie di Satie e gimnopedie spartane, i due modi in cui l’esercizio si mostra più imponente: l’ossessiva ricerca dell’abilità e della perfezione che c’è nella musica e negli esercizi ginnici, riuniti.
La prospettiva dell’esercizio («Ancora tanto, ancora molto») non causa prostrazione ma tempra la volontà di chi è pronto e permette di mantenere la stessa prospettiva nella vita, come di un desiderio da realizzare sempre meglio, una promessa che dobbiamo sempre ancora mantenere. Nell’esercizio, dunque, prospettiva della vita non come appassimento di un fiore giovane, ma come realizzazione indefinita, sempre perfettibile in cui, se si riesce ad amare «l’aspra pena del corpo», il tempo che avanza non è più nemico.
Il libro si chiude con una prosa struggente, di cruda sincerità e forse per questo così bella. Nei suoi ultimi righi l’io rimarca il verso centrale di questa raccolta «Resistere ed avere un’eleganza», raccontandone la genesi. È un programma, un obiettivo ma soprattutto una preghiera laica che non vuole superare la vita in un anelito oltremondano ma vuole proprio questa vita, terrestre, fatta di cose, gesti, ben prima dei più distruttivi e logici pungoli “intellettuali”.
Fatta di persone, di amori, ira, autodistruzione ma anche rispetto per i cuori altrui, sempre frangibili. La parola allora non sia l’ennesima vanità, un vuoto che implode: sia esercizio lento, ricerca, studio, sia oggetto di amore, sia plasmato nella forma della persona che meritiamo di essere:
«Vorrei che la parola avesse un cuore, che amasse queste donne come me, e avesse un’eleganza che ci manca. Gymnopedie, esercizi per resistere al dolore.»
Massimo Del Prete