dall’Introduzione di Vincenzo Salerno
[…] Adesso diventa palesemente leggibile quanto Pier Paolo Pasolini aveva prefigurato nelle pagine de “La confusione degli stili”. Un ulteriore superamento concettuale della traccia ‘binaria’ – linguistica e letteraria – costruita sul doppio transito della lingua ufficiale e del dialetto, nella direzione di un consapevole “trilinguismo”, ripartito nella stratificata compresenza dei “[…] dialetti negli strati popolari, koinè nella borghesia di recente formazione, gergo letterario nelle élites culturali”(1). A seconda delle circostanze – nelle difficoltà sociali del momento storico, per i problemi di natura economica, a causa delle tensioni politiche o dei “malanni di stagione” – la poesia riesce a ‘tradurre’ qualsiasi genere di pretesto occasionale e rappresentare – in maniera sempre nuova e differente – i personaggi recitanti sul palcoscenico di Napoli. […]
“In due modi, quando si è uomini di qualche cultura, si può essere dialettali: o traducendo dalla lingua, giocando sull’effetto di novità che il trasporto può imprimere anche un luogo comune, o ricorrendo al dialetto come ad una lingua vera e propria, quando la lingua sia considerata insufficiente o impropria a una ispirazione. Il secondo caso è il più valido e il più interessante; ma i due modi possono essere presenti nell’interno dello stesso poeta, anzi, lo sono quasi sempre. E non è detto che il primo caso non possa dare risultati poetici perché tradurre poesia è uno dei possibili modi di far poesia originale”(2).
Rispetto alla doppia modalità di resa proposta da Eugenio Montale i testi poetici antologizzati in Napolis – tra i quali si contempla la duplice opzione montaliana, più marcatamente traduttivo-linguistica – chiamano pure in causa un analogo tertium comparationis, altrettanto significativo nel processo di ‘caratterizzazione’ letteraria di Napoli nella poesia contemporanea. Le traduzioni contemporanee della città – ‘traduzioni’ qui da intendersi nell’accezione semantica più ampia di ‘metafore’, aggiungendo al novero anche le poesie composte in lingua italiana – così si innestano inequivocabilmente sul variegato repertorio di temi, di allegorie, di tropi e topoi stratificatisi nel corso dei secoli, per il tramite di figure stilistico-retoriche e di modalità espressive ben diverse. In un processo di continuità e di contiguità spazio-temporale, ‘resistono’ nello stare simbioticamente insieme testi editi e quelli scritti ad hoc per questo volume; in dialetto napoletano e in “lingua nazionale”, con traduzioni ‘di servizio’ o con testi a fronte d’autore; la prosa poetica (o poesia prosastica) – insieme con altri contenitori di genere, quali ottave, sonetti, versi liberi, ballate e canzoni – per raccontare e per descrivere, con minuzioso scrupolo, il “levigato geode” partenopeo; la scrittura verbo-visiva che, come ossimoro, si rende leggibile attraverso la cancellatura; la poésie engagée o del dissenso, che al contempo si manifesta come silenzioso disagio intellettuale oppure dando voce alla chiassosa protesta politica; la poesia di viaggio dei ‘grandtouristi’ contemporanei – dall’antichità al presente, in una Napoli-cronotopo estesa dal “ventre” tufaceo dei decumani fino alle periferie d’acciaio e di cemento – che appuntano versi nelle note di diario, a piè di pagina delle guide storiche, su foglietti sciolti nei quali segretamente si scrivono i ricordi più evocativi, le impressioni più stranianti; il pretestuoso esercizio di stile contro le coloriture a tinte forti delle ormai abusate prospettive paesaggistiche e urbane; la ragionata operazione di smontaggio dei tanti “quadretti di genere” della città disegnata con la pizza tricolore, il Vesuvio fumante e il mandolino strimpellato in sottofondo; la riproposizione di testi-spartito che interpretano, attualizzandola, una tradizione di composizioni poetico-musicali tipicamente napoletana. Infine, il medium della poesia che riesce a garantire (o forse serve per giustificare) la più recente identificazione iconica di Napoli – sulle facciate dei palazzi o tra i ‘santini’ degli altarini nei vicoli, con l’abbigliamento casual-sportivo tinto d’azzurro e nei rumorosissimi scoppi dei fuochi d’artificio – che prende oggi forma nelle molteplici rappresentazioni del suo ultimo (in ordine cronologico).
(1) Pier Paolo Pasolini, “La confusione degli stili”, in Passione e Ideologia, Torino, Einaudi, 1985, p. 293.
(2) Eugenio Montale, Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1976, p. 176.
Mariano Baino, da Ônne ’e terra, Napoli, Pironti, 1994 (2 ed., Arezzo, Zona, 2003)
Ll’amaje sempe ’stu pizzo ’e muntagnella
Addó ’e ccose a vvota a vvota scrésceno
o pareno aggrannì (che sfizio antico
’e pierdetiémpo): bella vista
’o ’nchippo cecagnuólo d’’a città
Sempre amai questa sommità di collina / dove le
cose di volta in volta rimpiccioliscono / o sembrano
ingrandirsi (che gioco antico / da perditempo):
bella vista / l’intrico strabico della città
Franco Buffoni, da Oscar Poesie 1975-2012, Milano, Mondadori, 2012
Profezia
Da qui, tra luci fragili
Che orientano il profilo verso il golfo,
Si vede bene che la città è fondata
Su cunicoli e cunicoli, e cantine profondissime
E canali, acque morte in transito acquitrini
Ciechi sbocchi di sabbia e ghiaia, ossa pietrificate
Di necropoli a strati su carcasse di orse
Alte tre metri e di altri animali avariati.
Si sa che è lavata da acque di giro
Costantemente dal porto e da ponente,
Che è divaricata e biforcuta tangenzialmente
Verso la collina di macerie putrefatte.
Che è nata e rinata su fondamenta mobili
E che questa non sarà l’ultima volta.
Roberto Deidier, da Calascionate nella lingua del padre (inediti)
I’ me penzava fusse n’ata lengua,
’Na mass’e suone stritte, senza peso
Ca saglie e saglie e ’n goppa s’arrevuogghia
Comm’ a nu riturnello ’ndispettito
Chella parola attesa, chella sula.
Io pensavo che fosse un’altra lingua,
Massa di suoni stretti, senza peso
Che sale, sale e in cima s’aggroviglia
Come un ritornello indispettito
Quella parola attesa, quella sola.
Stelvio di Spigno, da Fermata del tempo, Milano, Marcos y Marcos, 2015.
Pibe de oro
Assisteremo ancora in mondovisione
alle bravure mitiche di Diego
ma non diranno che avevo nove anni quando
sbarcò a Napoli
e che tutto allora sapeva di speranza anche per me
protetto dal mondo e dalla mondovisione,
senza scale da salire né niente da promettere,
solo una tavola apparecchiata con povertà e
grandezza
di chi vive senza sapere come né perché
contento di aver visto la luce un altro giorno
e che un altro giorno la luce si sia accesa anche
di sera,
forse non pensando che il bello sarebbe finito
come finisce un calciatore o un matrimonio
e che senza badare a me non avrei fatto molto,
solo ricordare che c’era qualcuno in
mondovisione
che potevo diventare come lui,
quelle cose che si pensano a nove anni,
sotto la carezza di chi ti ama proprio adesso
e ti darebbe il mondo vero se potesse
ma non lo dice come si dovrebbe
perché niente in fondo si sa dire
e ancora meno, ancora meno, si conosce.
Carmen Gallo, poesia inedita
Il sarto morto due strade più in là. I funerali
nella chiesa troppo grande per chiunque.
La figlia prende la parola, dice, il miracolo
il miracolo di averlo avuto con noi,
con gli occhi aperti e tutto il resto. Usciamo.
La piazza controluce è un autobus di turisti
cinesi. Torniamo a casa, saliamo le scale,
e con noi tornano le panche di legno
sotto l’enorme altare barocco
la conversazione banale, l’odore dei fiori forte.
Spesso guardo l’altalena nel parco sotto casa
la spinta che la mano imprime all’oscillazione
di corpi minuscoli, vulnerabili. A volte
esco sul balcone chiedo alle madri di smettere,
ai bambini di tenersi forte
perché tutto questo è assurdo, e non vale la pena.
Credo di dire ma non accade. Non è reale.
Resto a fissare quei corpi capaci di restare
nel movimento dell’aria e della forza.
Alcuni ridono o piangono, ma nessuno
ha davvero paura.
Marilena Renda, da Fuoco degli occhi, Torino, Nino Aragno Editore, 2022
Shelley non avrebbe mai osato infilare nella
Grotta del Cane
un essere vivo, per provare quanto potesse
sopravvivere ai fumi.
I biografi sono discordi su quello che accadde a
Napoli:
era più sensibile alle sofferenze degli animali
che degli uomini
o davvero gli faceva pietà la donna per cui
aveva perso tutto,
che aveva perso tutto, su cui era in disaccordo
su tutto?
Mary Shelley decise di vedere ogni cosa,
malgrado i figli morti,
malgrado il negativo, malgrado il genio con lei
fosse depresso.
Shelley le comprò una bambina, per consolarla
della perdita;
Mary, presumibilmente, non l’accettò. Vide il
futuro aprirsi
nella pietra, tra le foglie di Cuma, e decise di
dirlo tutto,
anche se non credo che sperasse di salvarci. Dei
suoi figli
sopravvisse il più noioso, gli altri morirono
troppo presto,
e anche lei, morì troppo presto per venirsi a
noia.
Indice
7 Introduzione
di Vincenzo Salerno
NAPOLIS
33 Franco Arminio
34 Carlo Avvisati
39 Mariano Bàino
43 Ambrogio Borsani
45 Franco Buffoni
48 Floriana Coppola
55 Maurizio Cucchi
56 Roberto Deidier
59 Gennaro Della Volpe (Raiz)
61 Giambattista Basile – Roberto De Simone
70 Bruno Di Pietro
74 Stelvio Di Spigno
78 Gabriele Frasca
86 Mario Fresa
89 Carmen Gallo
90 Bruno Galluccio
94 Mimmo Grasso
96 Costanzo Ioni
99 Emilio Isgrò
100 Peppe Lanzetta
104 Valerio Magrelli
105 Andrea Manzi
109 Rino Mele
110 Tommaso Ottonieri
116 Melania Panico
117 Claudio Pennino
126 Silvio Perrella
131 Angelo Petrella
136 Antonio Pietropaoli
139 Gilda Policastro
142 Marilena Renda
144 Eleonora Rimolo
146 Elisa Ruotolo
149 Federico Sanguineti
150 Giulia Scuro
152 Giorgio Sica
155 Enza Silvestrini
159 Gianni Solla
161 Luigia Sorrentino
165 Mattia Tarantino
166 Ferdinando Tricarico
174 Luigi Trucillo
179 NOTE BIO-BIBLIOGRAFICHE DEGLI AUTORI
197 RINGRAZIAMENTI