Narrativa diffusa, storiografia e immaginazione. Su “Tutte le camere d’albergo del mondo” di Gherardo Bortolotti

Proponiamo una nota critica di Alessandro Farris a "Tutte le camere d'albergo del mondo" (Hopefulmonster, 2022), di Gherardo Bortolotti. Copertina: Escher, Planetoide tetraedrico, 1954.

La questione della linearità del rapporto tra storia e letteratura è da lungo tempo al centro del dibattito critico riguardante lo statuto del testo letterario e la sua capacità di rappresentare in maniera simbolica e duratura le condizioni materiali dell’epoca storica in cui esso è scritto. Una discussione intorno a questi temi, particolarmente sentiti in ambito narrativo, può essere fruttifera e utile anche all’interno dell’ambiente poetico-lirico, che, proprio per via della sua natura fisiologicamente più individualistica, è spesso caratterizzato da un ripiegamento su un approccio che, sotto diversi punti di vista, potremmo definire antistorico.

Ma se si parla di storia, si parla anche del suo opposto, ovvero della fine delle grandi narrazioni o della storia stessa; concetto, quest’ultimo, ormai noto e discusso, suggerito tra anni ’80 e ’90 da filosofi come Baudrillard o Fukuyama, e riecheggiato più recentemente da teorie e riflessioni sempre più mainstream che fanno riferimento a pensatori come Mark Fisher. Si tratta di moniti che, sebbene possano suonare nichilistici, contengono il seme della ricerca di un’alterità o di un modo diverso di immaginare e vivere il “deserto del reale”.

I libri di Gherardo Bortolotti hanno sempre dimostrato un legame fortissimo con la realtà sociopolitica in cui sono stati scritti e con la sensazione della fine di una progressione storica lineare che caratterizza la nostra epoca; ma, pur nel loro concentrarsi su questa dimensione con un’ottica che potremmo definire microstorica, si tratta di testi capaci di suggerire uno slancio speculativo e immaginativo che tenta di andare oltre lo spazio limitato che in essi viene presentato. In Tutte le camere d’albergo del mondo, ultima aggiunta al corpus bortolottiano, ciò trova una nuova conferma.

Nel libro, pubblicato nell’aprile del 2022 all’interno della collana Pennisole della casa editrice Hopefulmonster, Bortolotti presenta, come ormai i suoi lettori possono aspettarsi, una serie numerata di prose che vedono il ripetersi di uno stesso schema narrativo: in ogni prosa un personaggio senza nome viene colto nel mezzo di attività perfettamente ordinarie o infraordinarie. Durante questi momenti la sua immaginazione vaga più o meno liberamente, tanto che egli si trova puntualmente a distrarsi e a immaginare libri o film che talvolta potrebbero avere un protagonista di nome Gherardo. Non è raro che questi brevi attimi di riflessione si interrompano e che il personaggio torni alla sua vita e alla serie di compiti e mansioni apparentemente infinite che la compongono. Altre volte le prose si chiudono con una semplice quanto vaga constatazione sulla struttura della storia immaginata.

Il funzionamento dell’impianto seriale del libro, non privo quindi di una certa ironia nel continuo specchiarsi di racconti nei racconti e di situazioni comicamente banali, è in realtà però sottilmente e coscientemente sabotato dal fatto che le storie che accennano a formarsi e a nascere all’interno di queste brevi prose siano fabulae interrotte, che non si completano o in ogni caso non assumono mai una forma del tutto precisa e compiuta. Si tratta di suggestioni, punti di partenza o traguardi monchi, liberi e perciò vagamente inquietanti, ai quali ci si può agganciare in qualsiasi maniera. Non abbiamo quindi una struttura narrativa progressiva, né tantomeno circolare, ma piuttosto una destrutturazione della stessa logica alla base del narrare.

Risulta certamente difficile collocare Tutte le camere d’albergo del mondo all’interno di categorie letterarie definite, come d’altronde è sempre stato per le pubblicazioni dell’autore, tra cui si ricordano Storie dal pavimento (Tic, 2018), Low. Una trilogia (Tic, 2020) e Romanzetto estivo (Tic, 2021). Non si fa riferimento soltanto al discrimine tra prosa e poesia, da tempo già molto manipolabile, tanto più all’interno di un ambiente come quello di ricerca o post-poesia a cui Bortolotti appartiene; ma è difficile parlare, per questo libro, di opera narrativa, di romanzo o raccolta di racconti, generi che pure riecheggiano tra le varie “camere”. La forma del libro è ibrida, procede per lasse titolate e numerate; i racconti non raccontano né descrivono, o almeno non propriamente; il procedere narrativo, che potrebbe apparire lineare all’interno del singolo testo, viene progressivamente fatto deviare secondo una logica centrifuga. Lo spazio narrativo e concreto, ma verrebbe da dire anche epistemologico, che l’autore sceglie di delineare e di consegnare al lettore, è uno spazio di cui vediamo solo una minima parte, e che, proprio in quanto privo di limiti apparenti, di inizio o fine, si configura come rizoma di punti apparentemente non in contatto, diremmo quasi un non-spazio.

Come detto in apertura, Bortolotti sceglie sempre di collocare i suoi testi, i suoi protagonisti e le sue non-storie in un contesto sociopolitico ben preciso, quello tardocapitalistico, legato per l’appunto, alla fine delle grandi narrazioni; un’epoca di monadi e al tempo stesso di estrema dispersione in un mondo impossibile da comprendere totalmente, regolato da meccanismi che ci sfuggono o che non sono controllabili dal singolo. Leggendo il libro sembra però che all’interpretazione nichilistica che potrebbe emergere da una narrativa “diffusa” (organizzata quindi secondo una logica rizomatica piuttosto che lineare, distribuita in diverse “stanze” connesse in una maniera non tradizionale e mai esplicitata), si contrapponga un continuo ricondurre il lettore a un centro di gravità capace di tenere insieme il mondo-testo. L’innominato protagonista di tutti i testi appare quindi non un semplice vezzo postironico o una funzione letteraria, quanto piuttosto una figura necessaria a portare avanti un discorso che dal piano letterario passa, potremmo dire, a quello etico; l’autore sembra quasi suggerire un ritorno a una forma di singolarità monadica che, per quanto dispersa e problematica, ha comunque il ruolo di filtrare e di riorganizzare la confusione, in modo da fissarla in una forma stabile e precaria al tempo stesso, e tuttavia comunicabile.

In questo senso Bortolotti si distanzia dalla riduzione dell’io che è stata indicata da molti come prerogativa centrale per i gruppi di ricerca a cui è spesso ricondotto, pur mantenendo a proposito un atteggiamento vagamente ironico (anche se in apertura al libro viene detto che “i giorni sono brevi, la notte cade presto e il comico perde i suoi diritti”): ascrivibile a questo atteggiamento di “distacco ironico”, che paradossalmente rafforza quanto detto finora, è la presenza, all’interno dei racconti nei racconti, del personaggio che “potremmo chiamare Gherardo”. Lo iato tra esperienza banale, singola e ordinaria, e la sua frammentazione, dispersione e incompletezza viene così richiuso dall’autore come con una cerniera grazie alla presenza di un elemento unico e costante. Il ragionamento sulla trama e sulla narrativa assume pertanto pari importanza rispetto a quello sul narrato e sul narrante. Verrebbe quasi da pensare che, al fine di comprendere esattamente lo spazio diffuso e falsamente lineare all’interno del quale si collocano queste “camere” sia necessaria una forma di indagine, di autocoscienza o messa in questione del modo di posizionarsi all’interno del campo da gioco che è la realtà tardocapitalistica. Come avrebbe detto qualcuno, nosce te ipsum.

È facile, forse scontato, tracciare un parallelo tra la struttura narrativa del libro (caratterizzata da ripetitività, o più precisamente serialità, e da una non-teleologia) e l’esperienza infraordinaria della persona media nel mondo occidentale contemporaneo. In questo senso (ma è una considerazione che si potrebbe applicare a tutta l’opera di Bortolotti) si può rilevare una sorta di tentativo di mimesi dell’arte nei confronti della struttura sociale da essa descritta; prerogativa, quest’ultima, cara alle avanguardie da un secolo a questa parte, quasi che arte e mondo possano intersecarsi l’una con l’altro, creando una sorta di opera totale che contenga il dicibile, il narrabile, in ultima analisi l’immaginabile (“l’immaginazione è tutto quello che abbiamo nella vita” scrive Bortolotti, chiosando però “anche se ovviamente dobbiamo scontare quella degli altri”). Esempio lampante di questa tendenza è la già citata trilogia Low, uscita per Tic edizioni nel 2020, ma contenente testi che erano già stati pubblicati a partire dal 2009. Nel suo progredire per lasse numerate, ma non in ordine numerico crescente e di fatto non ordinabili, Low offre un resoconto altamente idiosincratico della realtà tardocapitalistica che arriva, nell’ultima parte, ad essere osservata dal punto di vista di un futuro anteriore, che guarda indietro hauntologicamente, da una prospettiva avanti nel tempo di decenni o secoli. La successione di non-narrazioni (questa volta sì, numerate in ordine crescente, ma non consecutivo) di Tutte le camere d’albergo del mondo ha a che vedere, proprio in virtù dell’ottica non prettamente consequenziale ma infinitamente più ampia che la caratterizza, con uno sguardo che ambisce ad essere totale. La non completezza e la prosecuzione numerica senza limite suggeriscono, ma non garantiscono proprio quello spazio di immaginazione che non viene pienamente raggiunto dai protagonisti che pure vi tendono strenuamente; non è nemmeno detto che il futuro e le camere successive siano diverse da quanto visto finora. Anzi, questa possibilità, decisamente presente, conferisce una sfumatura inquietante all’intero libro. La palla viene rimandata quindi al mittente: al lettore l’arduo compito di prendere consapevolezza delle proprie facoltà immaginative or lack thereof, immaginare il libro, la propria narrazione.

Logica conseguenza di ciò sarà lo stile, “tra il colloquiale e l’ironico, probabilmente di poca tenuta”, come ci viene detto nell’incipit, ma che a dire il vero non disdegna talvolta un afflato lirico rintracciabile proprio nei momenti delle “epifanie che solo un esponente del ceto medio impoverito può aver collezionato”. Ancora una scelta che è quindi, programmaticamente, tutt’altro che all’insegna della linearità.

Alla luce di quanto detto finora, non sarà sbagliato parlare di una certa qualità “enciclopedica” a proposito dell’opera di Bortolotti: attraverso lo scampolo, il non completo e finanche il frammento viene tracciata una toponimia tanto più precisa del familiare e dell’infraordinario tardocapitalista; e proprio questa natura incompleta, che di fatto spinge a considerare i libri di Bortolotti come parte di un unico grande testo, intensifica la tensione verso quel quid immaginativo (che può essere rintracciato tanto nell’estremo quotidiano quanto nello slancio fantascientifico) che può dar senso a una mappatura dichiaratamente non esaustiva. Il tutto attraverso tecniche narrative (o anti-narrative) tutt’altro che di basso livello, così da offrire uno sguardo, a peek direbbero gli inglesi, sulla vastità di un mondo e di un tempo che ancora non riusciamo pienamente a comprendere. Che la letteratura tenti di farlo è poi la sfida che la scrittura di Bortolotti sceglie di portare avanti.

***

[…] Dà un’occhiata ai suoi follower e ne scopre uno che ha come profilo la copertina della prima edizione de La mostra delle atrocità. La sua bio dice semplicemente: “Ieri sera ho pianto perché sono un fallito”. Nella sua timeline trova altre frasi dello stesso tenore: “Aspettando l’età in cui, finalmente, saprò quello che dico”, “Locali arredati per farti sentire più ricco”, “tutte le camere d’albergo del mondo”.
Quest’ultima è stata ritwittata da un utente che ha come profilo il disegno astratto di qualche tipo di frattale e ha pubblicato un unico tweet: “Un’avanguardia apparente dello spirito”.
Vuole scrivere un libro intitolato così, pensa, che contenga frasi come queste e che non abbia né trama né personaggi. Sarebbe un centone interminabile di aforismi vuoti, di formulazioni di condizioni di vita correnti ma ignote, di annotazioni irresolute di particolari infraordinari del mondo e dell’umano, come se qualcuno avesse raccolto gli appunti di qualche antropologo del futuro in visita presso i decenni della nostra storia, delle nostre vicende inconcludenti, frante e comunque dolorose. (pp. 130-131)

*

[…] Come al solito l’immaginazione fa un passo in più e si vede anche ciondolare in attesa del treno, fumando una sigaretta e guardando le donne che aspettano con lui. Immagina che sia l’inizio di un romanzo, che intitola Subendo il fascino delle alternative. Inventa le avventure galanti di un impiegato ingenuo ma innamorato delle occasioni e inizia con il personaggio, che potremmo chiamare Gherardo, che aspetta il treno per raggiungere un amico e così conosce una donna, dai capelli lunghi e luminosi, i cui riflessi, complice l’autunno ancora agli inizi, gli danno un senso di conforto e intimità che lo rasserena […].
Il romanzo può andare avanti così per sempre. Per ogni occasione, c’è la potenza di un inizio; per ogni inizio, la proliferazione delle conseguenze; per ogni conseguenza, la germinazione delle occasioni. Gherardo è sempre più ridotto alla meccanica delle sue lusinghe e la trama sempre più ovvia, sempre meno interessante. Lui si stanca di andare avanti e torna agli orari dei treni e conclude che quel romanzo, potesse anche viverlo, comunque non lo scriverebbe. (pp. 81-82-83)

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