1. Tra i libri usciti nel primo ventennio degli anni 2000, ne trovi 5 che per te siano fondamentali?
Ci sto riflettendo. Non è facile. Sono un lettore infedele che si innamora sempre dell’ultimo libro letto. Tuttavia, dalla mia libreria ammiccano in particolare questi libri: “Le residenze invernali” di Antonella Anedda, “Umana gloria” di Mario Benedetti, “Macello” di Ivano Ferrari, “Poesia dal silenzio” di Tomas Tranströmer e un libro che sembrerebbe non doverci stare all’interno del perimetro della poesia, e che invece, a mio parere, c’è per la poetica del linguaggio: “Il tempo materiale” di Giorgio Vasta.
2. Se io incontro un poeta, possibilmente, non lo riconosco subito. C’è un modo per riconoscere un poeta? Nella tua esperienza, il fatto di scrivere poesia si riflette nella vita quotidiana?
Un poeta si distingue dall’amore assoluto che ha per la scrittura. Dall’importanza dei suoi silenzi rispetto a un mondo che vuole dire sempre e su tutto, dalla distanza che riesce a creare tra sé e l’opera scritta. Dal tenersi sempre in guardia dai tranelli narcisistici: è la poesia che viene prima del poeta, non il contrario.
Scrivere poesia non interferisce nella mia ordinaria vita quotidiana. Interferisce invece, significativamente, con i miei momenti di solitudine: in tale senso il tempo diviene creativo, produttivo in termini di scrittura.
3. Come è il tuo rapporto, in quanto autore, con i lettori e con i colleghi? Senti di fare parte di una comunità, a cui aderisci?
Non credo in una comunità della poesia. Credo invece nelle comunità autentiche dove la relazione si basa su corrispondenze di valori umani, affinità o legami di prossimità territoriale (chi mi conosce sa delle mie iniziative di poesia nel quartiere Corvetto a Milano). Questo non significa che non abbia amici poeti. Le amicizie più profonde, di “fratellanza”, le ho con altri autori con i quali condivido esperienze di scrittura e vita. Ma queste relazioni sono speciali, non banalizzabili in una comunità più ampia e spesso conflittuale, quella dei poeti, che non permette la distinzione di valore e sensibilità delle persone.
4. Ci sono delle tradizioni poetiche in altra lingua, che conosci o ti affascinano particolarmente?
Mi affascina la poesia sapienziale e mistica mediorientale. La declinazione moderna di questa tradizione poetica in parte s’incarna in Adonis, ma i grandi poeti mistici persiani e turchi, ad esempio, mi attirano in particolar modo.
5. Nel tuo processo di scrittura, ti capita di raccogliere stimoli da altre forme artistiche o da discipline scientifiche?
Assolutamente si. Anche perché non amo la poesia che attinge esclusivamente al proprio bagaglio letterario. Il rischio è di produrre una scrittura che diviene così una “ruminazione” settoriale colta, senza autenticità, dove spesso si scivola nell’epigonismo. Per questo la contaminazione, l’intersezione tra le arti, la connessione forte con la propria esperienza e il proprio sguardo sulla realtà a mio avviso sono indispensabili. Amo la pittura e la fotografia. La componente dell’immagine, nella mia scrittura, è fondativa del verso. Più del suono.
6. Che rapporto hai con la rima?
Conflittuale. Ritengo la rima un arcaismo. Cerco sempre di evitarla. Ma questo non significa che io rinunci alla ricerca del suono delle parole. La mia poesia non è prosastica. Rimane fortemente legata all’insegnamento poundiano che indica nella compresenza della logopea, fanopea e melopea (significato, immagine e suono) l’insieme degli elementi costitutivi della poesia.
7. Ci sono 3 poeti delle nuove generazioni che ritieni particolarmente preminenti e/o a cui pensi sarebbe interessante porre queste domande?
Ci sono diversi giovani bravi poeti. Identificarne una terna farebbe torto alla validità della poesia di altri giovani autori esclusi. Lasciamoli lavorare piuttosto che fare graduatorie. Sperando che maturino sempre più le loro voci rimanendo fedeli all’unica stella polare di chi scrive in versi: la poesia.
da “La parte arida della pianura” inediti
Il bianco della pagina
Un albero al centro dell’inverno,
una pagina vuota tra la frattura dei rami
Chiama la nebbia uno stormo di pensieri
come la carta i segni di una parola
Scrivere l’onda sul mare, gettare l’ancora sul foglio,
arrivare sino al fondale di una preghiera
*
Madre della Violenza
La donna del lago
La testa snodata, infinita del sogno
che nuota nell’acqua scura del lago
Ci si desta sempre quando lo scenario non coincide,
ma adesso non ci sono risvegli ad attendere
ed è un abisso il fondale delle notti
“L’amore è bello solo se è vero amore” scriveva Gabriella
come se le parole riemergessero a galla,
un colpo di pistola, la testa bucata nel sonno
un corpo alleggerito dalla morte che risale
con il pigiama, le mani legate, i piedi senza scarpe
Il sogno non distingue appieno la natura degli ostacoli
se tronco, pietra, corpi, come un pesce nuota
con occhi divisi e contrapposti
per guardare l’intero spazio, profondo
degli uomini che vanno a morire
Il sogno guarda, sgrana la catena che oscilla
come un’alga sul fondale, un cordone ombelicale
che arriva sino alla donna affiorata sul limbo dell’acqua,
Il corpo di lei era avvolto con un telone di plastica bianca,
legato in tre punti con cinghie da tapparella
appesantito da tre blocchi di cemento armato
ai quali il suo uomo l’aveva incatenata
Dicono che i circuiti neurali durante le notti
s’illuminano, arabeschi di luce, fuochi d’artificio
in un giorno di festa,
e qui la pietà è un filo che non si spezza
dalla nuca come un sogno che entra nel sogno,
il proiettile cambia sembianze, non è più un cuneo di piombo,
ma la macchia nera che vediamo quando si guarda in faccia il sole
ed è un attimo, quell’attimo di grazia
che oscura l’esplosione del colpo
e le nasconde l’arrivo della morte
*
Lande
Guardiamo il cielo aprirsi sul nostro tremore,
la nudità del paesaggio che chiama in rassegna
uccelli disorientati in uno spazio vuoto
Nel freddo siamo la carne che rimpolpa
le mascelle della terra
L’acqua del fiume in cerca della foce
scivola nell’ordine della natura,
l’unica direzione che la pianura sa dare
***
da “La linea Gustav”, Il Leggio Editore, 2019
Vorrei cambiare nome agli inverni
tenendo più stretto il ricordo del freddo
il gelo nelle dita dei soldati
Veder sparare ancora i tedeschi
a denti serrati dall’alto del muraglione
con occhi che spezzano a vivo
la coda inerme degli sfollati
E cercarvi lì, tra i vecchi a coprire le madri,
le madri come rifugi per sagome minute
(tra il seno e la spalla, insenature
come porti per piccole teste
spaurite nella burrasca)
Sul paese come un’ombra la linea Gustav,
tracciato d’inchiostro sulle rovine,
il confine tra chi si butta a terra
prima o dopo lo sparo
***
Con l’alito delle bestie e il tepore
della paura, la guerra respira ancora
in quel ricovero, non si è spostata
di un giorno da quelle catene,
le mani chiuse dal freddo,
i muri ceduti delle case
Per questo tornerò a leccare la parte
vuota del bicchiere, unico superstite
di un tempo rovesciato sul tavolo,
che saprà di quel vino che macchia a fondo
e mostra il rosso dall’interno della giacca
Riconosco ancora i ganci del soffitto:
erano sempre stati lì per seccare la carne
o le altre cose buone da mangiare
Ma tu chiami
come se non ci fosse voce ad avvicinarsi,
fai poggiare un passo in più nel vuoto
sino a toccarmi
Rimango solo ad ascoltarti
e si chiude il cerchio attorno al buio:
la parte ruvida della corda che ti veste
mi sfiora, e ti sento quasi cadere dal soffitto
prima del silenzio definitivo
monocorde del cappio
Nino Iacovella