Un dolore non filosofico. Così Salar Abdoh ha cercato di mostrare, ad un pubblico occidentale, la tragedia da cui la raccolta di poesie Una barca per Lesbo[1] prende le mosse. Da dieci anni la Siria è inesorabilmente mutilata da una guerra condotta dal regime di Assad contro il suo stesso popolo. Popolo che da quel paese è scomparso. Difficile immaginare cosa significhi per un paese perdere, nella morte o nella fuga, fuori o dentro i suoi confini, più di metà della sua popolazione.
Lesbo è uno dei primi punti di contatto con un’Europa che ha riservato a donne, bambini e uomini, sin troppo spesso, un’accoglienza gelida. Come immaginare la fine di quella rete di salvataggio precaria, ma essenziale, che è la società che ci ospita da quando esistiamo? Come immaginare l’uccisione, la tortura e lo stupro dei nostri famigliari? Come immaginare di dover vendere tutto ciò che ci resta per sbarcare su una spiaggia con solo quello che abbiamo addosso? E con che coraggio potremmo dire che nel dolore di chi vive questo ci sia qualcosa di filosofico?
A tutto questo il poeta siriano Nouri Al Jarrah aggiunge la vita dell’esiliato. Un esilio, il suo, che perdura già da molto prima dell’inizio della guerra civile. Nato a Damasco nel 1956 e ormai una delle voci più importanti della poesia siriana e araba, Al Jarrah ha vissuto fino alla sua giovinezza in questa città, dove ha iniziato a scrivere e a militare politicamente. Dal 1986 si stabilisce a Londra, dove pubblica svariate raccolte di poesia, fonda numerose riviste letterarie e dove dirige un’importante collana di resoconti di viaggio. L’esilio per Al Jarrah aggiunge l’impotenza della distanza:
Non ero a Damasco
Non ero a Damasco quando è stata colpita dall’orrore,
non ero nella montagna e nemmeno nella valle.
Quando la terra tremava, le immagini e l’aria si fendevano
giaceva la mia mano, tremava in un’altra terra.
Sentivo un tremito lungo il corpo,
una larva si è illuminata sulla mia tempia secca;
era forse un messaggio caduto nella cassetta delle lettere?
Oppure la primavera che si rivoltava in una terra lontana?
Non ero a Damasco, non ero in nessuna strada
né in un negozio.
Non ero nella stazione dei treni,
né su un balcone che dava su un treno.
Non andavo di fretta, né andavo piano,
ero più lontano della mia mano
e dai miei occhi affogati nel tempo.
Giacevo nella terra dell’attesa,
la mia mano sanguinava.
لَمْ أكنْ في دمشق عندما جاءَ الزلزل
لَمْ أكنْ في جبلٍ ولَمْ أكنْ في سهلٍ
عندما ترجَّفتِ الأرضُ وتشقّقت صورٌ هي والهواء
كانت يدي الهامدة
تنبضُ
في أرضٍ أُخرى؛
رعدةٌ خفيفةٌ سرتْ في جسدي
وضاءَتْ يرقةٌ في صِدْغي الجاف
أهي الرسالةُ
تسقطُ
في بريدي
أمْ الربيعُ يتقلَّبُ في أرضٍ بعيدة.
***
لَمْ أكنْ في دمشق
لَمْ أكنْ في شارع
ولا في متجرٍ
لَمْ أكنْ في محطةٍ
ولا في شرفةٍ تطلُّ على قطارٍ
لَمْ أكنْ مسرعاً
ولا مبطئاً
أَبْعَدَ من يَدي، كُنْتُ، ومِنْ عيني الغريقةِ في الزمن
راقداً على قلقٍ في ترابِ الموعد،
ويدي تنزفُ.
L’assenza dell’esilio converge in quella generata dalla distruzione. Da qui emerge, luminosa e incandescente, la coscienza del dolore e, quindi, da essa inscindibile, quella della storia. Questo ricorda lo stupore delle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin: “Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo non è filosofico. Non sta all’inizio di alcuna conoscenza se non di questa: che l’idea di storia da cui deriva non è sostenibile”. Così Una Barca per Lesbo è un canto per gli oppressi in cui l’intensità lirica fa collassare tempo e mito. In ogni momento siamo a Lesbo in tutti i momenti che Lesbo ha vissuto e ogni luogo è la Siria o la Grecia, percorso da dei e rifugiati o da poetesse e fantasmi.
Pubblicato dalla casa editrice Al Mutawassit nel 2016 in lingua araba e tradotto, oltre che in italiano, in francese, inglese, turco e, significativamente, in greco, il libro è stato composto a ridosso della crisi dei rifugiati del 2015 a Lesbo, ove Al-Jarrah si recò di persona in quello stesso anno. Come scrive Ruth Padel Lesbo è un’isola che fino al 2015, quando arrivarono quasi 379.000 rifugiati con una media di 3.300 al giorno, era famosa per tre cose: la sua foresta pietrificata, il miglior ouzo della Grecia e la poesia, in quanto, come tutti sanno, è patria della poetessa Saffo.
«Venite al buio di Lesbo, o siriani usciti dalla tavola rotta dell’alfabeto», dice Saffo nel primo poema che occupa la gran parte del libro. I rifugiati sono di oggi e allo stesso tempo antichissimi: escono, appunto, da una “tavola” (lawḥ), il supporto in argilla sulle quali è nata in Mesopotamia la scrittura. Il passato profondo della Siria è anche il nostro passato. Saffo si rivolge a quei siriani che provengono dalla stessa terra da cui, nel mito greco, la bellissima Europa era stata rapita da Zeus che per lei si era trasformato in toro. Cadmo, suo fratello, alla sua ricerca giungerà presso i Greci senza trovarla, ma donerà loro la scrittura e fonderà Tebe, città della tragedia per eccellenza.
Non si farebbe quindi giustizia a questo libro se lo si vedesse come solamente indirizzato da un siriano al popolo siriano. Il respiro della poesia di Nouri Al Jarrah è il mondo, la sua ispirazione è il Mediterraneo. Il Mediterraneo è quella fornace in cui avviene quella fusione del tempo che cambia il senso della storia.
Un Mediterraneo, quello di questo libro, presente negli spazi vuoti della storia, della guerra, della fuga dalla guerra, tra le tombe invisibili degli annegati, tra gli incubi e i sensi di colpa dei sopravvissuti, nei giardini perduti, nel vento profumato di timo, nei rimpianti, sulle soglie di casa infinitamente vicine e distanti, nell’amore mortificato, nelle notti ad aspettare la luce di un sole che tutto illumina ciecamente, nell’intreccio di marinai, navi che non partono e divinità ingannevoli, nella storia che si costituisce in incantesimi che potrebbero essere spezzati, ma che diventano maledizioni incancellabili come i resti umani rigurgitati sulle rive della nostra coscienza.
Ho avuto la fortuna di conoscere Nouri Al Jarrah una primavera di due anni fa per un festival di poesia araba, a Milano. Una città che il Mediterraneo sembra averlo per secoli sentito controvoglia, con il suo fastidio atavico e inconfessato per l’olio d’oliva e i lavoratori immigrati del sud e che ora si trova ad accogliere questo mare come se invece fosse un sogno da sempre inseguito. Una volta in Kyrgyzstan, parlando delle difficoltà per noi italiani nell’abituarsi al kumis (latte fermentato di cavalla in otri ricavati dallo stomaco dell’animale) un locale mi spiegò che la difficoltà è forse la stessa che si ha con il familiarizzarsi all’olio d’oliva. Milano invece voleva immaginarsi un tempo abituata al burro dell’Europa che conta. Un’Europa che fa i suoi calcoli politici appoggiandosi al suo elettorato più razzista e reazionario, un’Europa che ha abbandonato in mare un numero spaventoso di esseri umani. Quella stessa Europa che ha deluso il mondo è l’Europa che non sopportava l’olio d’oliva e che ora lo ama così tanto, perché fa così bene alla salute, perché ricorda le vacanze estive e la vita chiassosa dei popoli mediterranei.
Tavola V
Ringrazio la felice Europa
con i suoi braccialetti
splendenti dei denti di schiavi,
le sue mani incatenate dalle idee
sanguinano
oro e argento.
شُكْراً لِأُورُوبَا السَّعِيدَةِ
بِأَسَاوِرِهَا
لَمَعَتْ لِأسْنَانِ الْعَبِيدِ
وَيَداهَا المُغَلَّلَتِانِ بالْأَفْكَارِ
تَنْزِفَانِ
ذَهَبَاً وَفِضَّةْ.
Qualche mese prima dell’inizio della pandemia Nouri Al Jarrah era tornato in visita a Milano. A cena oramai inoltrata eravamo arrivati a parlare di rivoluzione. «A differenza dell’Europa, in molte altre parti del mondo si parla ancora di rivoluzione», dicevo. Che cosa secondo lui era successo, gli chiesi, a partire dagli anni ’80, quando la rivoluzione divenne, negli anni, qualcosa che stava tra il dimenticato, il ridicolo e il tabù? La parola rivoluzione divenne… e cercavo la parola, ma non la trovavo. Lui mi venne in aiuto e mi disse: «poi arrivò il tempo dei corpi».
Rimasi folgorato da questa immagine. Il tempo dei corpi, cioè quando gli europei ritorsero la rivoluzione contro sé stessi e si impuntarono nella cura del proprio corpo. Più la rivoluzione scompariva dai discorsi e più si diffondeva quella tetra lotta interiore che si riassume nel motto della ricerca della propria forma fisica ideale: la sfida contro sé stessi. Uno sforzo che è solo superficialmente estetico, ma che invece è cupamente ideologico, nonché votato per definizione alla sconfitta, in cui anche vincere è perdere; perdere contro ciò che si era.
Di corpi che sono invece stretti in un abbraccio, di corpi belli perché pieni di una grazia che sfida il dolore, di corpi che non si consumano a lottare contro sé stessi, ma si dibattono per vivere contro la morte è pieno questo libro:
Tavola greca
Siriani sofferenti, bei siriani, fratelli siriani fuggiti dalla morte, voi non arrivate con le barche, ma nascete sulle spiagge insieme alla schiuma.
Siete oro puro e trapassato, oro fuso e intenso profumo.
أيُّهَا السُّورِيِّوُنَ الَألِيمُونَ، السُّورِيِّوُنَ الوَسِيمُونَ، السُّورِيِّوُنَ الَاشِقْاءُ الهَارِبُونَ مِنَ المَوتِ، أَنْتُم لَا تَصِلُوَن بالقَواربِ، ولَكِنَّكُمْ تُولَدُونَ عَلَى الشَّواطِئِ مَعَ الزَّبَدِ.
تِبْرٌ هَالِكٌ أنتم، تِبْرٌ مَصْهُورٌ وَضَوعٌ مُصَوَّحْ.
Quando si tratta del corpo delle vittime è il corpo stesso che prende voce. Così, nella coralità epica che permea l’intero libro, vi è anche la voce dell’ucciso in guerra, che canta del suo corpo, ma non chiama “corpi” quelli dei suoi figli uccisi sotto le bombe, coperti dalle macerie, velo di Maya che nasconde la verità della loro orribile morte:
L’assassinato
I
Non ho una casa per mettermi alla porta e invitarti
né ho una finestra che mi orienterebbe,
se tornassi dal regno della morte.
Nessuna luce nella finestra
né una luna notturna sopra l’albero.
L’aria che con l’odore dei campi mi ha riempito i polmoni,
ora gonfia il mio corpo con l’odore della morte.
Le immagini sono punteruoli che mi arrivano agli occhi.
Non ho casa, né tende e né letto,
e nemmeno un cuscino per dormire.
II
Non ho una casa, per avere un vicino di casa,
né madre, o sorella e nemmeno figli.
Nessuna voce – anche la più sottile – nella vicinanza,
tutto ciò che da lontano raggiunge il mio orecchio
è il rumore delle ruspe che sollevano il velo della verità
dai miei bambini accatastati dalla morte sotto le macerie.
I
لا بيتَ لي لأقفَ بالبابِ وأدعوكَ إلى البيت
لا نافذةَ لأهتدي
لو رجعتُ من الموت
لا ضوءَ
في
نافذةٍ
ولا قمرَ ليلٍ في شجرة.
الهواءُ الذي ملأ رئتي برائحةِ الحقول
أفعمَ جسدي برائحةِ الموتْ.
الصور تحمل المخارز وتهجم على عينيَّ
لا بيت
ولا ستائر
لا سرير، ولا وسادة نائمٍ في سرير.
II
لا بيتَ لي، ليكونَ لي جارٌ
لا أمَّ ولا أُختَ ولا أَطفالْ
لا أصواتَ
-مهما كانتْ خفيفةً- في جوار
كل ما أسمعه الآن من بعيد
ضجة جرافات وهي ترفع الحقائق
عن أطفالي المكدسين هم والموت
تحت الانقاض.
Oppure il corpo è il corpo della Siria intera; un corpo scritto, un corpo che diventa una tavoletta d’argilla, un corpo tradito dalle nazioni, dagli speculatori e dal cielo stesso che è di questi giorni e, insieme, antichissimo:
Sotto un cielo ingannevole
Le nazioni hanno pugnalato la tua schiena e il tuo fianco,
il collo e le spalle. Le nazioni, con pugnali sorridenti,
hanno scritto i loro nomi sul tuo corpo convulso.
Sotto un cielo ingannevole
i mercati delle nazioni sono pieni delle tue perle,
dei tuoi nomi rubati e dei sopravvissuti al diluvio.
الأممُ طعنتْ ظهركِ وخاصرتكِ،
نحركِ وكتفكِ
الأممُ، بخناجرَ باسمةٍ،
كتبتْ أسماءَها في جسدكِ المختلج تحت
سماء غادرة.
أسواقُ الأممِ تغص بلآلئكِ وأسمائكِ المسروقة، وبالذين نجوا من الطوفان.
Lo stupore di Al Jarrah non è filosofico, è lo stupore del corpo; è attraverso questo stupore che la voce poetante fa vibrare l’enigma della violenza. Subire violenza significa essere abbandonati ad un’esistenza che è, da quel momento in poi, mutilata. La mutilazione è ciò che chi vive teme, forse, ancora più della morte:
Lamento funebre per Banat al Nash, Tavoletta Greca
Ho mandato le mie vicine a prendere l’acqua, sono andate alla spiaggia con l’acqua limpida, sono tornate con un bimbo e hanno detto che era addormentato, quando lo hanno steso sul lenzuolo, lo abbiamo trovato senza viso.
أَرْسَلْتُ شَقِيقَاتِيَ الْجَارَاتِ يَحْمِلْنَ المَاءَ، ذَهَبْنَ بِالْمَاءِ الْعَذْبِ إِلَى الشَّاطِئِ، وَرَجَعْنَ بِصَبِيٍّ قُلْنَ إِنَّهُ نَائِمٌ، وَلَمَّا مَدَدْنَهُ فِي المِلَاءَةِ، رَأَيْنَاهُ بِلَا وَجْهٍ.
Quel volto assente ci chiama a prenderci cura dello stupore che certe cose nel nostro secolo siano ancora possibili. Più di una volta, parlando con lui, è tornata la questione adorniana sulla possibilità della poesia dopo Auschwitz. Per quanto consapevole che Adorno stesso ritrattò questa sua posizione, Al Jarrah si è sempre mostrato sinceramente sconvolto dall’idea che qualcuno abbia anche soltanto immaginato che la poesia potesse essere vista come barbarie. Siamo chiamati alla poesia invece per compensare una mutilazione, come fa chi affina l’udito quando perde la vista.
Perciò, non si farebbe giustizia a questo libro se ci rifiutasse di coglierne la dimensione filosofica. Non cogliere questa dimensione ci impedirebbe proprio di vedere questo aspetto compensativo della sua poesia. Certo non parliamo di filosofia qui come una pratica analitica del pensiero, ma di un filosofar poetando che dal corpo, dal mare e dalla storia guarda al cosmo e in questo modo estende la possibilità dell’esperienza contro la mutilazione della violenza.
Il cosmo è presente sin dal sottotitolo di questo libro: Elogio funebre per Banat Na’sh. Banat Na’ash è una costellazione o, più precisamente, un asterismo, cioè un raggruppamento di stelle che è a sua volta parte di una costellazione. In italiano è conosciuto come Grande Carro e fa parte della costellazione di Ad-Dubb Al-Akbar, cioè dell’Orsa Maggiore.
Come scrive Mohammed Gassid nell’introduzione all’edizione italiana del libro, nella cultura popolare araba si racconta la leggenda di un uomo, chiamato Na’sh, che viene assassinato da Suhail, nome arabo della stella meridionale Canopo. Le sette figlie (banat significa “figlie”) dell’ucciso decidono di non seppellire loro padre finché non sarà vendicato. Quattro di loro portano la bara (na’sh è anche un sostantivo che significa bara o lettiga mortuaria) e le altre tre sono al seguito. In questo inseguimento le “Figlie della Bara” e l’assassino si trasformano tutti in stelle e il poema che leggiamo ne è l’elegia. Vi è qualcosa di sottile e straniante e di inevitabilmente filosofico nel cantare della guerra e dell’esodo dedicando il proprio poema ad una costellazione.
Tavola II
Ho atteso nel moto di Aldebaran il mio destino
Ho atteso che l’arco scoccasse la freccia, superasse l’indeterminato e colpisse il tallone dell’inevitabile,
e sul bordo del precipizio,
presso il grido del suicida,
ho atteso il mostrarsi delle Figlie della Bara,
ma ho visto solo stelle cadenti,
e ho creduto che i loro messaggi fossero per me.
تَرَقَّبْتُ فِي فَلَكِ الدَّبْرَانِ طَالِعي،
تَرَقَّبْتُ القَوسَ الَّتِي أَطْلَقَتِ السَّهْمَ، جَازَ الغَامِضَ، وأَصَابَ كَاحلَ القَدَرِ..
وَفِي حَافَّةِ الْجُرْفِ،
عِنْدَ صَرْخَةِ المُنْتَحِر
تَرَقَّبْتُ ظُهُورَ بَنَاتِ نَعْشٍ..
رَأَيتُ شُهُباً
تَسَّاقَطُ،
وَظَنَنْتُ البَرِيدَ بَرِيدِي.
Aldebaran, la gigante rossa che è “l’occhio” della costellazione del Toro, è anch’essa inseguitrice (ad-dabarān), ma l’inseguimento è qui invece per amore delle Pleiadi (ath-Thurayyā), che compongono la spalla del Toro celeste e che sorgono prima di questa stella. La voce poetante, in attesa mentre guarda il cielo dal suo esilio, aspetta qualcosa che riguarda il suo futuro (ṭālaʿa è anche la levata degli astri e quindi il destino che si legge nelle stelle).
Se è vero che la poesia francese non ha avuto grande influenza su Al Jarrah, è vero però che Mallarmé è di certo un’eccezione. L’attesa si volge quindi ad un un colpo di dadi, è l’attesa della freccia che superi l’oscura confusione (ḡāmiḍ) e ferisca il tallone dell’inevitabile (qadar), come nel mito dell’invincibile Achille. Il ḡāmiḍ è ciò che è incomprensibile, vago, indeterminato perché oscuro, la radice ḡ-m-ḍ ha a che fare con il chiudere gli occhi. La radice di qadar invece, q-d-r, è legata al potere, all’essere in grado di fare qualcosa, ma anche al misurare e al decretare divino. Qadar si oppone quindi all’oscura indeterminatezza del ḡāmiḍ, il fato preordinato che è quindi, in quanto tale, inesorabile.
L’attesa di cui si parla è quindi di un colpo degli astri che abolisca sia il caso che l’inesorabile, qualcosa che esca dai confini tragici e contradditori di cui la guerra si alimenta. A tutto questo segue il baratro dell’autodistruzione e in questo sbilanciamento si giunge all’attesa delle Figlie della Bara. Ma l’attesa sembra vana, quella distanza tra il mondo da cui queste storie di stelle provengono e la terra dell’esilio è reale e ineliminabile: davanti agli occhi della voce poetante ci sono solo meteore, messaggi forse ingannevoli.
Le vaghe stelle dell’Orsa ci mostrano come le schegge del presente trapassino la coscienza di chi vive la tragedia e si conficchino in un passato incancellabile. Il passato ripete incessante: cosa fare di questa violenza? Riflettere su questo è urgente: ciò che accade in Siria e ai rifugiati non è né qualcosa di storicamente obsoleto, né un presente che riguarda altri, è invece il nostro futuro. Abbiamo creduto per troppo tempo di essere protetti dalla guerra e dalla violenza. Siamo in ritardo di almeno dieci anni. Molte Sirie rischiano di esploderci in faccia. Che fare? Per affrontare questa domanda bisogna immergersi nel mare e guardare da sotto la sua superficie: esplorare una filosofia che finisca con la poesia, sembra dirci Nouri Al Jarrah.
[1] Nouri Al Jarrah, Una barca per Lesbo, L’Arcolaio, Bologna, 2018 traduzione di Gassid Mohammed