Uno degli interventi di poetica che Burratti ha scritto mentre metteva insieme questa raccolta si intitola L’autore indifferente e comincia così:
La scrittura di cui vorremmo parlare non ha niente o quasi niente in comune col suo autore, con la sua biografia e i suoi interessi, con la sua capacità di rappresentare il mondo attraverso una voce e uno stile unici, personali. Al contrario, è una scrittura radicalmente appiattita sul suo tempo, in cui l’eccezionale è sempre percepito come ennesimo, e che quindi preferisce al discontinuo l’ampio spazio di vita comune a tutti, libero dalle declinazioni di una personalità, dalla sua mediazione emotiva o intellettuale; spazio di vita inevitabilmente indifferente.
L’indifferenza è una qualità dello stile e del personaggio che dice io. Burratti tende a una forma di scrittura bianca e neutra, dà per scontato che il confine fra poesia e prosa sia fluido (è così da almeno due decenni), evita le escursioni lessicali e figurali troppo vistose, rifiuta le marche di stile comuni, nonché le due famiglie più diffuse e morte di ciò che Sanguineti chiamava “poetese”, sia quello tradizionale, cui Sanguineti si riferiva, sia quello altrettanto morto che proviene dalla tradizione delle avanguardie. Burratti lavora invece sulla sintassi, sullo straniamento e sul ritmo interno della frase. Ha una formazione di metricista: nei suoi versi e nella sua prosa il senso del cursus e la radiazione di fondo della memoria metrica ci sono ma non si vedono troppo, secondo la più tipica delle sprezzature. I suoi maestri lontani e dichiarati sono Stevens e Michaux; gli autori viventi da cui ha imparato di più sono Dal Bianco, Bortolotti e Broggi.
Ma l’indifferenza, oltre che una qualità stilistica, è un tratto morale. Il soggetto di queste poesie è indifferente anche perché non è differente dagli altri. Burratti adotta una postura che la poesia e le scritture autobiografiche hanno adottato spesso negli ultimi decenni, e che oggi sembra un passaggio obbligato per chi voglia parlare di sé restando credibile nell’epoca in cui tutti hanno un io,
molti lo esibiscono in rete e l’eccezionale è sempre percepito come ennesimo (“Mi chiamo Walter Siti, come tutti”, W. Siti, Troppi paradisi, Torino, Einaudi, 2006; “Una faccia fra molte è la faccia che ho, | le mie dita sono fra molte”, M. Benedetti, Pitture nere su carta (2008), in Id. Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 2017, p. 222; “Alla fine torno all’io che finge di esistere, | ma è una busta come quelle usate per la spesa | piena di verdura o pesce surgelato”, A. Anedda, Historiae, Torino, Einaudi, 2018, p. 20). Oltre a non essere diverso, l’io è indifferente perché è apatico, intimamente chiuso al mondo, incapace di amare e lavorare (“Conosco la mia vita e molte altre cose, senza che nessuna mi tocchi”). “La capacità di amare e lavorare” era la formula con cui Freud fissava lo scopo finale dell’analisi, il suo modo di definire la salute.
Questo male di vivere potrebbe non avere età ma nella raccolta prende tratti generazionali, o almeno così sembra a chi è nato in un’altra epoca. Burratti non si data mai esplicitamente, né pretende di parlare a nome di un noi anagrafico, saggiamente; e tuttavia l’etere in cui si muovono l’io, le seconde e le terze persone dei suoi testi è datato, è immerso in un paesaggio mentale e morale che un giorno farà anni dieci (“leggo articoli sull’antispecismo per criticarti meglio domattina”), in mezzo agli oggetti tecnici del presente, al moratorium studentesco e alla cultura avantpop di una generazione precisa e che risulta, per chi è nato prima o dopo, incomprensibile come un gergo, secondo una forma di invecchiamento di cui chiunque sia nato quando la cultura pop già esisteva ha fatto esperienza. L’unica epigrafe della raccolta è tratta da un manga, Berserk; nei testi compaiono riferimenti ai videogiochi e a una canzone dei Tool, insieme peraltro a una citazione di Agostino.
Intorno all’io maschile si muovono delle seconde persone, a volte genitoriali, più spesso femminili, con le quali la prima persona non riesce a stabilire un rapporto duraturo. La continua autopsia che il soggetto pratica su se stesso sembra il corrispettivo di questa incapacità di stare decentemente nella vita, di dirsi “che ne vale la pena”. Il tratto stilistico che ricorre più spesso è la negazione (“Non ho scelto di non essere felice”; “Tutto quello che non posso fare più”; “Non ho avuto la forza per stare meglio entrambi”; “sognerai che una persona non è da un’altra parte, non sfugge al tuo controllo, non ti abbandona; eppure non è lì”); il libro si apre e si chiude, nel primo e nell’ultimo testo, negando (“non volevo scrivere un libro così”; “Nessuna sensazione, nessuna paura umana, soltanto una mancanza fuoricampo”). Del non che aleggia ovunque è responsabile la prima persona, che vive questo stato di cose nella forma della colpa, ma soprattutto della vergogna. In un testo del libro di esordio, Progetto per S., si leggeva “mi faccio schifo molto spesso”; in un altro, Avatar, S. si rappresenta come “una persona bassa e insignificante, il classico personaggio in cui non puoi immedesimarti”. Fra i “modi di uscirne” troviamo le derive tipiche dell’atteggiamento maudit (alcool, pornografia, sesso) che però non significano più niente. Una specie di fondo morale irraggiungibile, una richiesta di trascendenza che non si può dichiarare perché diventerebbe ridicola, impedisce a Burratti di aderire davvero al vitalismo, di trovarci qualcosa di profondo. Poi le cose si fanno lo stesso, ma senza crederci, senza esserne fieri e senza pensare che siano un’esperienza rivelatoria o, peggio, trasgressiva. Manca in Burratti il vice signalling che è il corrispettivo nero e rovesciato del virtue signalling caro al moralismo contemporaneo. Anche in questo caso l’eccezionale è da tempo diventato ennesimo, come succede nelle opere-guida cui questa famiglia letteraria si richiama, a cominciare da Houellebecq.
Una parte della poesia contemporanea continua a tenere in vita le posture liriche di una volta; un’altra parte continua a prendere alla lettera l’anatema di origine neoavanguardistica sull’io e sull’assertività. La prima rischia di sembrare vecchia e poco credibile, regressiva nelle identità che propone; la seconda prosegue senza saperlo il progetto flaubertiano di sottrarsi alla natura limitata, privata, letteralmente idiota di ogni affermazione attraverso la virgolettatura di tutto, e in questo modo porta a casa risultato sicuro ma in fondo poco rischioso, minore. Burratti sta con gli autori che perseguono una terza via, meno garantita e più difficile: costruire un modello di io e dizione credibili, adeguati al Ventunesimo secolo, e continuare a rischiare personalmente, a metterci la faccia. In un altro scritto di poetica Burratti prende le distanze sia dalle sperimentazioni “autoreferenziali e spesso epigoniche”, sia dal minimalismo delle poetiche tradizionali (un “minimalismo ‘di destra’, fatto di scuolette, stili preconfezionati, tematiche feriali”), e si schiera invece per ciò che chiama “massimalismo” (con un riferimento probabile a Il romanzo massimalista di Stefano Ercolino), cioè l’ambizione alla “grande opera”, “intesa come recipiente a prova della modernità liquida e dello Zeitgeist, ma anche come opera complessiva che si scrive nel tempo, tassello per tassello” (S. Burratti, M. Villa, A. Lombardi, Massimalismo, grande opera, autore onnisciente). Un tratto della grande opera è proprio l’assenza di virgolettatura, di quella ironia radicale su ogni presa di parola che contraddistingue gran parte delle autoproclamate “scritture di ricerca”. Burratti riserva l’ironia alla propria postura pubblica e il sarcasmo (o il trollaggio) agli interventi di poetica scritti, o filmati e pubblicati sul suo canale YouTube, mentre i testi rimangono seri. Sulla serietà del tono sembra agire la radiazione di fondo emanata dall’idea di origine romantica che la poesia sia un luogo di verità, uno spazio nel quale ci si denuda, si elimina la maschera delle convenzioni che ci fanno vivere in mezzo agli altri e si dice l’essenziale. In questo senso la grande opera, più che indicare un risultato (troppo presto per dirlo, ovviamente), è innanzitutto un genere, un progetto. Comporta la volontà di durare, il senso della forma (la rivista on line che Burratti ha cofondato si chiama «Formavera») e l’assunzione di un rischio. Per ciò che la poesia moderna è diventata negli ultimi due secoli non c’è vero rischio senza un’esposizione di sé. Quest’ultima non coincide certo con le forme espressivistiche, isteriche, da cui Burratti giustamente si distanzia; coincide con l’accettazione di un pericolo senza il quale la scrittura si condanna alla minorità prima ancora di cominciare.
incipit di Nuovi modi per uscirne, Simone Burratti
Volevo scrivere un libro che finisse bene,
un libro-risalita, o un libro-luce,
qualcosa che potesse dire a chiunque
che ne vale la pena.
Non volevo scrivere un libro così.
SIMONE BURRATTI (Dunwich, 1990) vive a Padova. È stato fondatore del sito formavera. Sue poesie e racconti sono apparsi sui principali blog e riviste, oltre che nelle antologie Poeti per l’infinito (DiFelice, 2019), Abitare la parola (Ladolfi, 2019) e Planetaria (Taut, 2020). Con Progetto per S. (NEM, 2017, prefazione di Stefano Dal Bianco) ha vinto il premio Castello di Villalta Giovani e il premio Camaiore Proposta. Attualmente lavora come editor freelance e gestisce un canale YouTube sulla poesia contemporanea.