a cura di Fabrizio Miliucci
F.M. Di Sogni e risvegli – la tua quarta raccolta di versi – è soprattutto apprezzabile per me la prima metà delle poesie. Si ritrova qui la forza espressiva di una scrittura che come al solito coniuga una sintassi fluidissima (forse il tuo strumento retorico più affilato) a immagini e clausole fulminanti. Le prime tre sezioni (Spettri, Nascita e contemplazione, Cronache di un’infanzia rurale) si inanellano dunque in modo coerente e piacevole. Ma qualcosa si incrina nella quarta (Quaderno messicano). Come se si sfilacciasse una rappresentazione del paese che forse volevi troppo approfondita, basandola però su impressioni turistiche. La quinta e la sesta parte (Poema della fame e Un’altra via) mi sembrano più problematiche. Nel poema politico la situazione è complessa, ma credo che la difficoltà sia nel suo afflato epico (difficile da raggiungere) che tu stesso provi a liricizzare, dividendo in più sezioni il movimento. Non ho nessun problema con l’idea di riversare azione e sentimento politico nei versi. E anzi, credo che sia opportuno, e tu ci sei riuscito in altri passaggi (penso a La collaborazione, Marcos y Marcos, 2018). Semplicemente, Poema della fame non raggiunge lo scopo di rappresentare quei giorni di passione, che non posso dire di conoscere anche dopo aver letto queste pagine, né di esserne in qualche modo coinvolto. Anche l’ultima sezione (Un’altra via) mi pare un po’ sospesa. La rabbia e la frustrazione non colpiscono fino in fondo, si stemperano troppo presto in una sorta di rarefazione.
F.B. Sei sufficientemente onesto e ti ringrazio per gli spunti di riflessione. La cosa più interessante è la tua critica del Poema della fame. La prima, a dire il vero, così frontale, che sembra deplorare l’esistenza stessa di questo testo. All’origine era pensato proprio come un movimento spezzato in cinque parti, poi ridotto a tre. Pur avendo vissuto le manifestazioni dall’interno, sebbene non in prima linea, ho voluto guardare tutta la vicenda anche dall’esterno, con i commenti degli spettatori della domenica e dei media ufficiali. Quindi è venuto fuori qualcosa di ambiguo, a tratti, dove l’io poetico si toglie di mezzo (cosa che nel mio caso è abbastanza raro!). Ma accetto senz’altro la critica, se dici che stavolta l’epica non funziona. Non lo so. Non volevo rappresentare degli eroi. Per me non lo sono. C’era molta disperazione tra i Gilets gialli, ma anche un orgoglio di classe che non s’era mai visto in anni recenti, e per questo nel testo alcuni passaggi danno l’aria di uscire un po’ col megafono. Che dire poi del Quaderno messicano e della sesta sezione? Quest’ultima la sento più vicina. È la piega che sto prendendo, la misura breve in cui mi sento meglio in questo momento. La contemplazione, del resto, non può che prendersi un tempo di sospensione, che è anche sospensione dal giudizio, e dunque disimpegnata. Le altre a cui ti riferisci sono poesie di viaggio e mi servivano come transizione prima del Poema della fame. Ma non sono semplici cartoline. I definitiva, dalla tua lettura si evince che la raccolta ti è parsa meno convincente e compiuta rispetto a La collaborazione. Quello è un libro importante per me, forse il più importante dei quattro. Dovevo tuttavia andare avanti e non potevo certo ripetermi.
F.M. Infatti nel libro si sente il desiderio di un cambiamento, ma questo crea una specie di vuoto nella seconda metà. La solidità de La collaborazione è messa in dubbio, ma questo avviene nel mezzo di un cammino che parte dagli stessi presupposti, senza riuscire a compiere un deciso passo in avanti. Nella poesia che chiude il libro, ad esempio, si vede una cosa inusuale per i tuoi versi: un gioco di segni fra 0 (numero) e O (lettera). Ma l’aspetto ludico non è gioioso, sembra anzi un po’ sconsolato e tutta la sezione mi pare che esprime una certa stanchezza. Mi dicevi però che consideri questa sezione come un primo punto di approdo della tua ricerca.
F.B. Non riesco a mettere a fuoco la critica che muovi nelle prime righe della tua seconda riflessione. Come potrebbe – se ho ben capito – il cambiamento che hai constatato nella seconda metà di Sogni e risvegli mettere in dubbio la solidità de La collaborazione, che è un altro libro? Io non credo che le due raccolte partano dagli stessi presupposti. La collaborazione si occupava della vita come sistema, come organizzazione sociale, e terminava con uno spaccato di vita famigliare, corrispondente alla nascita di mia figlia. L’ultima sezione marcava infatti una presa di distanza o una pausa dall’attività politica, senza però rinnegare la logica dell’analisi e la conseguente denuncia della collaborazione collettiva per il buon mantenimento del sistema. In Sogni e risvegli la vita esce da quel sistema. Si respira di più, mi sembra, non c’è un universo chiuso. Si parte dalle illusioni e dalle aspirazioni, per arrivare a un’altra forma di presa di distanza dal “fare società”, un cammino di contemplazione che conduce a un risveglio, a una seconda e diversa presa di coscienza rispetto al libro precedente. L’ambivalenza del risveglio sta tutta qui. Ora tu percepisci questa sospensione, queste osservazioni, come una ritirata di ordine quasi pensionistico, in ogni caso prematura e dettata da una certa stanchezza (di vivere, o di scrivere), motivo per cui mi sarei abbandonato a un gioco non tanto leggero come quello della poesia finale, che è sì sperimentale, ma non in senso avanguardistico. Interroga forse una certa maniera di stare al mondo, come era già stato il caso, sia pure con forme diverse, nel mio primo libro, Entrare nel vuoto (2011). Non considero la sezione finale di cui parli come un “primo punto di approdo della mia ricerca”, ma forse una seconda tappa di questa ricerca, dopo quella de La collaborazione, opera che infatti si staccava molto dalle precedenti. Però mi è difficile stabile se il passaggio sia realmente avvenuto o meno. Ho l’impressione, del tutto nebulosa, che Sogni e risvegli sia un libro più complesso, ma meno corazzato degli altri, paradossalmente più nudo. Forse, nell’ipotesi di pubblicare la versione francese, oggi sostituirei il Poema della fame con altre poesie dello stesso segno, ma non epiche, come un’ideale coda de La collaborazione. In fondo, parlandone, mi rendo conto che al di là delle apparenze, Sogni e risvegli è un libro molto più pluralista del precedente! Nel senso che c’è una pluralità di dimensioni che credo assente nell’altro. Non sto parlando ovviamente di voci o persone rappresentate, né di riuscita estetica.
F.M. La mia non era una critica ma piuttosto una constatazione. A me sembra che nei primi tre paragrafi il dettato, il modo di fare poesia (lo stile, la tecnica) sia ancora vicino a La collaborazione (questi i presupposti). Nel quinto e nel sesto paragrafo non più. Da una parte c’è un tentativo di “epica dall’interno” o “cronaca epica” (Poema della fame), dall’altra una specie di esame di coscienza (Un’altra via). In quest’ultimo caso il cambiamento è più di tono, un ripiegamento intimo-mistico attraverso cui – lo dice il titolo stesso – si cerca un modo di vivere e di esprimersi diverso (dato che ci siamo, onoriamo anche noi Battiato: Un’altra vita è una sua canzone che un po’ mi fa venire in mente questo libro: “ho la testa piena di feci […] / non dormo sussulto mi torco fra le coltri / come un grosso bruco una larva stressata”). Probabilmente, è nel quarto paragrafo (Quaderno messicano) che si comincia ad avvertire il “vuoto d’aria” a cui mi riferisco. Nelle diapositive di questo viaggio in Messico mi sembra che tutto conflagri. Nell’occhio del turista che sa di vivere un’esperienza inautentica (e prova a farne bandiera, con un gesto un po’ sfiduciato) mi pare che ci sia l’immagine più netta e costante della raccolta, e in un certo senso il suo limite auto-percepito.
F.B. Per risponderti parto da un dubbio. Non sono per niente sicuro che nelle prime tre parti del libro io mi rifaccia alla Collaborazione, anche stilisticamente parlando. In apparenza la forma sembra essere la stessa, ma il tono è diverso, credo. Comunque, non è così importante, perché in sostanza, dici, qualcosa si incrina davvero con la sezione incentrata sul Messico. Io però non userei il termine “epica” per le prime tre, anche su questo dissento. Perché? Per il semplice motivo che siamo fin dall’inizio su un terreno di sogni, visioni, ricordi, e non in una dimensione di conflitto tra chi vince e chi soccombe (sto parlando dunque di contenuti) e non cerco di riscattare nessuno, tanto meno me stesso o chi scrive di me (!) Ma prendo atto che la transizione verso qualcos’altro non avviene, o non riesce pienamente (è quello che dici). Mi rendo conto che dovrei sentirmi onorato del parallelismo con Battiato, eppure non riesco a rendergli omaggio perché, nonostante abbia amato delle canzoni, confesso che sul puro piano testuale l’ho spesso trovato debole, sgangherato, kitsch, e nella seconda metà della sua carriera anche qualunquista. Allora, di sicuro le sue risorse spirituali servono meglio il genere canzone, che nel suo caso è sorretto da melodie di indiscutibile valore, molto trascinanti. Ma l’altra via che cerco è assai diversa dalla sua. Infatti parlo di via e non di vita. Non penso che io possa cambiare vita e meno che mai ispirato da qualcosa di scritto, ancor meno scritto di mio pugno (come cercava di farlo Rimbaud). Vorrei tornare invece sulle “poesie messicane”, dove spero che nel vivere l’inautentico l’esperienza sia autentica! E’ quello che intendevo dicendo che non si tratta di una semplice collezione di cartoline postali. Vivere autenticamente l’inautentico è l’unica condizione affinché io possa produrre quei versi. C’è insieme tutta la distanza presente nella sezione sull’infanzia e quindi una certa ironia, ma anche una spudorata voglia di abitare poeticamente quel mondo, cioè contemplandolo dall’interno di quel momento privilegiato, con tutti i dati culturali, storici e letterari (per le sue lontane ascendenze). E vorrei concludere questa mia risposta fermandomi sul termine che usi per scomporre la raccolta. E’ curioso, perché “paragrafo” fa pensare alla suddivisione di una pagina di prosa, e davvero lontano dalla poesia. Non ti piace sezione, parte. Tento un affondo: non sarà un segno del fatto che non trovi molta poesia in questo libro o quasi per niente? Ho un amico che negli ultimi tempi, leggendo varie novità uscite, ha preso a dire: “qui non c’è poesia, in questa raccolta manca la poesia”. Tu che dici?
F.M. La questione della “poesia” non me la pongo. Paragrafo direi che è sinonimo di sezione o parte, lo dimostra il fatto stesso di usare una parola o l’altra con disinvoltura. Quindi possiamo benissimo passare a “sezione” se vuoi. Volevo però specificare che il tono epico, per me, è da attribuire solo al solo Poema della fame, non al resto. Però insisterei sullo sguardo del turista, perché “vivere autenticamente l’inautentico” è un punto importante, su cui ti chiederei qualcosa di più. Quando parlo dello “sguardo del turista” alludo anche alle poesie sull’infanzia e dello stesso Poema della fame. La questione è essere “artificialmente” dentro qualcosa – la propria memoria, un paese, un corteo – e quindi in definitiva porsi la questione del rapporto con l’altro e forse, ancora di più, la questione della presenza dell’altro in noi (nelle ragioni dell’io, che pure resta saldamente definito). Le sezioni e le presenze “fantasmatiche” sono il correlato di questo schema, mi pare, lo stesso titolo della raccolta è binario (O/0?) e la prima parte si chiama appunto Spettri. (Su Battiato no, non era un vero paragone, solo un’associazione en passant, ma non apriamo il capitolo dell’“intellettualoide”: è la cosa peggiore che si possa fare).
F.B. Senza scomodare Camus, direi che qui metti il dito su un aspetto delicato che è senz’altro un elemento ricorrente nella mia produzione, cioè quello dell’estraneità, del sentimento di sentirsi estranei alle dimensioni a cui si dovrebbe pur appartenere: una cittadina, una collettività, un gruppo, una categoria (il turista), un mestiere ecc. Al di là delle apparenze, a un livello più alto, tra l’io e l’Altro non c’è più differenza, sono indistinti. Non vorrei fare una cosa tanto poco elegante come quella di citarmi nell’ultima parte del libro, ma dico proprio questo. E in assoluto, io e l’altro non esistono. Quindi valgono i fantasmi della prima sezione. E la O dell’ultima poesia della raccolta è una bocca aperta che equivale allo zero del vuoto che inghiotte tutto. A un livello più primario è inquietante quanto un incubo (di nuovo gli spettri). Vedo che siamo anche d’accordo sulla poca importanza attribuita alla poesia come genere codificato. Infatti, sempre nella parte conclusiva del libro uso la parola scrittura (e nella sezione sul Messico interrogo proprio la nozione di poesia, troppo vaga).
(da Sogni e risvegli, Amos, collana A27, 2021)
Puerto Vallarta
rotola oceano i tuoi flutti si fracassano
sulle nostre coste impure vieni a raschiare
queste rocce e a sommergere le spiagge
gli alberghi dai nomi poetici
sulle loro bianche pareti gli impresari hanno iscritto
versi di Gelman Paz e Coral Bracho
cosicché il piacere dei clienti sarà prolungato
in riva al mare sul bordo di un fiume due poveri diavoli
inzuppano il sedere in un’acqua verde
e la osservano muoversi all’infinito
mentre sul ponte si vendono a caro prezzo
falsi ragni come a Cancùn o Mazatlàn
colpisci oceano i nostri stabilimenti privati
culla le nostre notti o scuotile con forza
restituisci ciò che la luna ti ha dato
Palazzo di ferro (Querètaro)
patatine fritte cosparse di formaggio
servite in un carrello in miniatura
giochi infantili pagati trentacinque pesos
una mezz’ora ottanta per il trenino
che fa il giro delle vetrine
fontane specchi d’acqua giardini di pietra
circondati dalle insegne del mondo intero
vivremo felici tutti e tre nel palazzo
dei desideri come un migliaio di api
di ritorno ai loro alveoli primigeni
2.
perché la poesia è solo quella degli antichi
per una lettrice affamata e sotto giuramento
gli antichi sono vivi e i vivi nati morti
d’accordo ogni tentativo sarà vano per noi poveretti
non sprovvisti di mezzi ma quale spirito ci guida
signora la prego gentilmente di spiegarmi
quali sono le possibilità della musica moderna
bisogna forse cantare scomporre costruire o tritare
« dia uno sguardo a Quévedo Borges e Juan Ramón
si allineano per mezzo di un misterioso movimento
davanti alla torre del castello che Lorca ha descritto
e uguali ai corvi prendono il volo in quella direzione
per circoscriverla gettando uno sguardo al suo interno »
Poema della fame [estratto]
1.
solerti restarono in piedi
nella loro miseria belavano
contro la nebbia avvelenata
che il governo faceva piovere
sulle teste calde e canute
dei suoi sudditi ora insorti
dalle campagne e periferie
lungo le autostrade e rotatorie
riuniti intorno a un fuoco la notte
e il giorno sotto la neve
raccolti dentro una baracca
le capanne del loro Natale
ma che le ruspe dei gendarmi
spazzano insieme ai lunghi sforzi
poi tornano i recalcitranti
riedificano sempre una base
per quanto precaria e aperta
mai resistente a sufficienza
per traversare il gelido inverno
e accogliere nuovi affamati
nuova rabbia e braccia disponibili
ora trascinano ferraglia
nei viali delle città legna
macchine a qualsiasi prezzo
con ogni mezzo le barricate
si ergono tra la vita e la morte
la santissima morte cantata
da altri cittadini in rivolta
un tiro squarcia la mascella
polverizza l’occhio di un ragazzo
fora il seno di un’infermiera
che non ha mai perso un corteo
né un treno della dignità
per sputare sulla capitale
i suoi straordinari week-end
quanti storpi sfigurati orbi
sfileranno il sabato seguente
senza dire una parola
saranno visti con bende
e fasce sanguinanti eloquenti
volete decimarci o cosa?
noi che mangiamo una volta al giorno
piangiamo tra i debiti dormiamo
anche in macchina per lavoro
se non rende abbastanza per stare
dalla parte di chi grida al caos
chi recrimina i danni pubblici
e si chiede perché distruggiamo
perché domanda una principessa
con le scarpe da ginnastica
all star converse o adidas
perché mai prendersela col lusso
che non vi ha fatto nulla e brilla
in quartieri che non sono i vostri
come potete punire così
il commercio che in fondo è la vita
ne converrete sfama i piccoli
imprenditori come può darsi
tra voi si nascondano e sfasciano
tutto quello che non possiedono
al che risposero irati
venite dalle nostre parti
venga principessa e apra
il suo indispensabile negozio
poiché è dotata non chiuderà
e risero svergognandola
come fosse l’ultima cagna
di un villaggio fantasma accorsa
per un pasto che non s’è mai visto
Note bio-bibliografiche
Fabrizio Bajec (1975), italo-francese, vive a Parigi e scrive nelle due lingue. È autore delle seguenti raccolte di versi : Gli ultimi (Transeuropa, 2009), Entrare nel vuoto (Con-fine, 2011, finalista ai premi Città di Marineo, Giosuè Carducci, Giuseppe Dessì), La cura (Fermenti, 2015), La collaborazione (Marcos y Marcos, 2018), Sogni e risvegli, Amos/A27, 2021. Alcuni in doppia versione e pubblicati in Belgio, Svizzera e Francia. Le sue poesie sono tradotte in spagnolo, portoghese e svedese. Ha inoltre tradotto in italiano i versi del poeta belga William Cliff: Il pane quotidiano e altre poesie (Edizioni Torino poesia, 2007), Poesie scelte (Fermenti-Fondazione Piazzolla, 2015), Materia chiusa (Elliot, 2020). Il suo primo romanzo, Transizione, è uscito nel 2020 per i tipi di Unicopli.
Fabrizio Miliucci lavora come insegnante e ricercatore. Ha pubblicato articoli su diversi autori (Pavese, Gozzano, Penna, Baretti, Ponge e altri) in riviste come “Paragone”, “Critica letteraria”, “Studi novecenteschi”. Nel 2019 ha pubblicato una monografia su Giorgio Caproni (Mimesis). Di prossima uscita, da Mondadori, la sua curatela della raccolta di Luigi Pirandello “La rallegrata”, nel primo volume delle “Novelle per un anno”.