Per una precaria storiografia degli esordi in poesia (2016-2021)

Proponiamo un articolo di Pietro Polverini con lo scopo di sondare per la prima volta complessivamente alcuni tra gli esordi più significativi della poesia italiana degli ultimi anni. In seguito, per approfondire il discorso sulla “nuova poesia millennial”, intendiamo ospitare interventi di ulteriori critici che adottino sia una prospettiva sinottica sia un taglio monografico. Vi invitiamo a inviare le vostre controproposte di articoli sugli "esordi" a mediumpoesia@gmail.com. Immagine: Paesaggio con caduta di Icaro, Carlo Saraceni

Territorio limaccioso, acquatico, ridda di nomi, selve di titolature. Questo articolo si muove su questa zona che frana, labile, vacua in cui si vorrebbe promuovere una storiografia, precaria e transeunte, degli esordi letterari in poesia nell’ultimo quinquennio. Vale la pena di proporre, prima di iniziare la cernita, una prima riflessione sulla portata simbolica dell’esordio in letteratura scrutando pazientemente controluce la sua etimologia, corifea di sensi dismessi, sparsi o obliati. Esordio ha come primo parente in termini di derivazione il sostantivo n. exordium. Da questa parola ricaviamo due elementi: il prefisso ex e il verbo deponente ordior, ordīris, orsus sum, ordiri. Letteralmente “tessere una tela”. Di conseguenza, da un punto di vista semantico, un esordio prevede un distacco aurorale da qualcosa che già è stato tessuto prima di noi. Uno sfaldamento, un groviglio da spezzare. Certo, il lemma latino ci riconsegna altre sfere di senso: ma l’idea che si vuole seguire in questo contesto parte dal presupposto che la forza storica dell’esordio stesso si misuri col tasso sorgivo proprio della lingua del poeta che decide di “uscire dalla tela”. Per il tardo Novecento questo discorso può valere per Somiglianze (Guanda 1976) di Milo De Angelis, Ora serrata retinae (Feltrinelli 1980) di Valerio Magrelli, Medicamenta (Guanda 1982) di Patrizia Valduga e Residenze invernali (Crocetti 1992) di Antonella Anedda. In questo nostro lavoro – che spera di trovare continuazione nell’opera di altri studiosi – si vuole cercare di capire come si siano distribuiti gli esordi nel contesto nazionale e quali fra questi meritino un discorso specifico. 
Una prima proposta di censimento, che di certo non ha la pretesa di essere esaustiva, si può redigere prendendo in esame una serie di libri usciti negli ultimi anni (2016-2021), analizzandone un campione per una serie di accreditati editori di poesia, particolarmente attivi in tal senso.

L’editore Interlinea è di certo una meta empirea per chi ambisce a una prima pubblicazione in poesia: con una storia prestigiosa sedimentata negli anni, dal 2017 ha inaugurato la collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni. Caso eccezionale, per questa collana, è stato l’esordio di Giovanna Cristina Vivinetto, Dolore minimo (2018), uno dei pochi casi di un libro di poesia entrato in poco tempo in ristampa. Definito sin da subito come “romanzo in versi”, con cadenza diaristica, annota tra fenomenologia corporea e lirica tradizionale, la storia di una transizione sessuale. Sin da subito la critica sembra segmentarsi, contrapponendo alle accoglienze entusiaste di Maraini, fra l’altro prefatrice dell’opera, Alessandro Fo, Cesare Viviani, qualche sollazzo critico, perlopiù espressi negli articoli di Simone Burratti e Roberto Batisti usciti su “La balena bianca”, focalizzato sulla mal tenuta formale del libro in questione e denunciando l’adozione di stilemi avvizziti, non aurorali. Dato empirico ineludibile di questa storia editoriale è che del libro se ne è parlato, quindi si pensa sia stato letto e acquistato, riportando il genere letterario della poesia nella zona di un dibattito non circoscritto al consueto crocicchio. Curioso caso, poi, di questo libro, è la massiccia presenza di contrappunti figurali tratti dal mondo classico-latino (facendo quindi presupporre un preciso orizzonte di ricerca della stessa Vivinetto). In parte lo nota Alessandro Fo nella postfazione di Dolore minimo. Considerazioni su questa linea si affastellano a una prima disamina critica del libro:   l’apertura con l’emistichio “a quel tempo”, memore del fuit olim latino, le innervazioni nella tramatura del testo di situazioni ovidiane, come “mani di legno e di fiori | mani  di ciliegio – mani che rinascono” (p. 15), il celebre richiamo alla figura mitologica di Tiresia e, per concludere sommariamente, il topos virgiliano, tratto dal VI dell’Eneide delle foglie sparse, pronte a segnalare un oracolo:  “eppure seppellito sotto mucchi | di foglie secche  un indizio c’era” (p. 24).
Sempre con la stessa collana ha conosciuto il suo esordio-non esordio Julian Zhara con Vera deve morire (2018), attivo da anni nella poesia nell’ambito della poesia orale-performativa, ed avendo già pubblicato in un’altra era della vita un libro dal titolo in apnea (2009), poi ampiamente abiurato. Da notare come linea di tendenza comune di molti poeti la presenza di un piccolo libello d’esordio giovanile, scheletro nell’armadio, poi successivamente misconosciuto: vale per la stessa Vivinetto e varrà poi per Giulia Martini et alii come Riccardo Frolloni, autore per la neonata Industria & Letteratura di Corpo striato (2021) presentato esplicitamente come esordio. La peculiarità ascrivibile alla poesia di Zhara è di certo la ricerca metrico-prosodica che lo porta ad adottare soluzioni versali distanti dall’endecasillabo e, infine, a compendiare il suo lavoro in un piccolo testo accluso a conclusione del libro stesso dove, con l’eco degli Spazi metrici paratestuali nelle Variazioni Belliche di Amelia Rosselli, disegna con nitore i riferimenti della sua rabdomante operazione di scavo nei metri italiani, andando poi a tracciare un’ipotetica triade sotto la cui ascendenza porre il proprio lavoro: Pascoli, Pavese e Rosselli stessa.
Altro esordio della collana che vale la pena di considerare è Damnatio memoriae di Samir Galal Mohamed (2020). È posto sotto l’egida Dario Bellezza, il cui “effetto” dà nome alla prima sezione, trapuntata da formule allocutive, rivolte al poeta stesso: “nulla ti è più congeniale | della morte | e della vita eterna” (p. 9). Dal poeta romano recupera un senso properziano, quindi elegiaco, d’amore inteso come vinclum irrorato da un costitutivo senso d’inanità dello scrittore: “saperti bagnare di poesie di un poeta altro | più poeta di me” (p. 10) Come suggerisce e indica il titolo, la memoria è da emendare, forse rabbonire: centrale è la figura del padre da ricondurre al torchio mnestico: “Io sono orfano | nel nome di un’altra identità dello spirito di un tempo terminale” (p. 12). 
Merita una menzione l’esordio poematico di Antonio Lanza, Suite Etnapolis, già anticipato nel Tredicesimo Quaderno di poesia Marcos y Marcos: caso asimmetrico rispetto alla Vivinetto dacché, in questo caso, il libro viene successivamente pubblicato nella sua veste autonoma dopo una prima anticipazione. All’interno di questa importante collana trovano spazio altri autori con una produzione precedente all’attivo, dai primi libri di Maddalena Bergamin e Marco Corsi a Tommaso Di Dio, da Stefano Pini a Maria Borio, da Iacopo Ramonda a Angelo Nestore.

Un capitolo a parte merita l’editore novus Interno Poesia che, grazie all’audace e forse originariamente rischiosa iniziativa di Andrea Cati, ha promosso con un certo seguito sulle piattaforme digitali un numero copioso e polimorfo di pubblicazioni dedicate quasi esclusivamente al genere senza mercato par excellance. Ci soffermiamo ora su una serie di esordi letterari sgorgati sotto il segno di questo editore, capaci di ingenerare un certo fibrillio critico: senza ombra di dubbio Coppie minime (2018) di Giulia Martini meritano una considerazione: il titolo, di dardaniana memoria, evoca la metafora linguistica di coppie di parole identiche e dissimili per l’intervento di un fonema che designa la differenza senza possibilità di assorbimento tra due individui umani. Ciò che colpisce è una certa ascendenza cavalliana sotto la cui egida si è posto l’esordio dell’autrice. Nella sua opera non mancano calchi di Iacopone da Todi: presenza ancor più giustificata dagli studi di Martini, dottoranda che ripesca con sapienza dalla tradizione sonettistica di matrice stilnovistica e dalla poesia provenzale per risemantizzarle con l’immaginario iconico-oggettuale del contemporaneo: “Calendimaggio d’un maggio d’antan. | Mi cali lemme lente nel lemmario | chansons di gesta. Quale calicanto | del Getsemani tieni tra le mani? (p. 18).
Dominato da un’atmosfera equorea e marina è l’esordio assoluto di Francesco Ottonello, Isola aperta (2020), prefato da Tommaso Di Dio. Sul cardine tematico della memoria (di qui l’epigrafe iniziale di Hart Crane, “memory, committed to the page, had broke”) si innesta una variegata costellazione figurale. L’isola del titolo rimanda non soltanto all’autobiografica Sardegna (sarà incluso come primo poeta sardo nei “Quaderni Italiani di Poesia Contemporanea” a cura di Franco Buffoni, con Futuro remoto, pref. Paolo Giovannetti), ma anche a una parte anatomica, specifica del cervello, come precisa una prosa di intersezione del libro: “L’insula è una piccola regione nella corteccia cerebrale, si situa all’interno del solco laterale. Per giungervi bisogna addentrarsi nella grande fessura che separa i lobi frontale e parietale da quello temporale. Gli scienziati dicono che proprio lì si prenderebbe coscienza della mente e del corpo e, se vi subissimo un grave danno, saremmo per sempre slegati da noi (p. 37). Il rimando a questa zona deputata alla connessione tra mente e corpo – sul solco della craniologia secentesca si parlerebbe di ghiandola pineale – si lega a una serie di poesie incentrate sul ricordo e la sua fallibilità, dal “giardino della nostra casa” dove ora abitano solo “alberti morti accasciati al suolo” (p. 17) fino alla traversata – di qui il nome della prima sezione – verso “la futura casa” dove Ottonello vede “alberi senza oltre in me” (p. 18) portando il testo verso precisi echi eliotiani, come la “terra devastata” (p. 33). La memoria, in questa sua rifrazione, oltre ai viatici domestici, alla condizione di affittuario può configurarsi anche in un “hard disk” (p. 55), dove sopravvive la cognizione dell’isolamento ma, contestualmente, lo streben verso un suo parziale superamento: “Dio ti ha voluto per non essere voluto | quello che sei e non potrai mai essere” (p. 47). 
Ricordiamo in questa sede altri esordi, davvero copiosi, promossi dall’editore in questione:
Gaia Ginevra Giorgi, Manovre segrete (2017); Beatrice Cristalli, Tre di uno (2018); Demetrio Marra, Riproduzioni in scala (2019); Dimitri Milleri, Sistemi (2020); Gerardo Masuccio, Fin qui visse un uomo (2020); Simone Biundo, Le anime elementari (2020). Accanto ai giovani, l’editore promuove pubblicazioni di autori seniores, da Claudio Damiani a Gabriella Sica nonché curatele di classici.

Nel sempre mutevole e cangiante paesaggio dell’editoria dedicata alla poesia non si può non menzionare la titanica operazione, intrapresa oramai da più di un lustro, di Arcipelago Itaca. Lodevole, a tal proposito, è la presenza di una specifica collana dedicata agli esordi, dal titolo “Estuari”, molte volte punto di riferimento per la giovane poesia marchigianaDeangelisiano è l’esordio di Jacopo Curi, la cui L’immagine accanto (2019), prefato da Marco Di Pasquale, si riferisce a un’ontologia prima dell’ontologia, un essere che precede l’essere, che si assiepa accanto – per l’appunto – allo sguardo che dorme per farsi spia furiosa di un totalmente altro: “L’altra vita che nessuno ci restituì | chissà se c’incontrammo già allora | ché mi sembra di conoscere| la natura ossea dei tuoi zigomi” (p. 30). Titolo speculare ha l’esordio di Costantino Turchi, Delle nostre immagini (2020), prefato da Umberto Piersanti: ciò che si può osservare è, di fatto, una precisa perizia per quanto concerne la ricerca metrica: la sperimentazione va dal tentativo dal recupero delle terzine con schema incatenato alla costruzione di stanze in cui c’è un uso sapiente e studiato di inarcature. Nel libro si segnala curiosamente il ricorso a una segreta conoscenza zoologica: dalla zecca: “più della luce del sole, più del calore | gli sarà da stimolo per il salto” (p. 17) al  poemetto in dieci stanze intitolato “Il paguro”: “Appoggiarsi una conchiglia all’orecchio | è uso comune fra la gente. Forse | non sai che indossi uno specchio acustico: è il sangue che si sente circolare” (p. 24). Nella stessa collana, un terzo autore, sempre afferente all’area marchigiana, è il giovane marchigiano Riccardo Canaletti (classe 1998), che al di là di Sponde (2019) ha pubblicato un libro precedente per Affinità elettive, La perizia della goccia (2017). Legato al Premio di Arcipelago Itaca è invece l’esordio assoluto di Riccardo Socci, autore di un libro di poesia impregnato di lessico scientifico Lo stato della materia (2021).

 

Attento alla scena letteraria romana è l’editore Oedipus, che per la collana Intrecci ha dato alle stampe gli esordi nel 2019 di due autori particolarmente attivi nel contesto culturale contemporaneo, anche extra-testuale. Da una parte Stefano Bottero, dall’altra Antonio Francesco Perozzi.
Nel primo caso, Poesie di ieri, introdotto dalla copiosa prefazione di Biancamaria Frabotta, sembra prevalere chiaramente un discorso di natura meontologica ossia un’indagine sulla natura del nulla: già dalla poesia proemiale il vacuum viene chiamato in causa: “mi trascina verso il peso delle cose | questa scimmia che ho sulla schiena. | è un lembo di niente” (p. 12). L’analisi pervade tutta la raccolta tanto che si possono segnalare varie occorrenze sul medesimo fronte: “Spalanca il vuoto il non riuscire a sentire” (p. 16), “l’angoscia di non essere, | di non esistere” (p. 24), “un nulla diverso | sembra stasera la mia ombra” (p. 38). Con echi di natura confessionale, lo “ieri” a cui sono rivolte le sue poesie è il buco cronologico che assorbe le altre dimensioni della temporalità.
Perozzi invece, dall’emblematico titolo, Essere e significare, propone un libro, con prefazione di Muzzioli, antitetico rispetto a quello appena evocato. La fiala dell’astrazione è quella maggiormente cosparsa nel laboratorio di ricerca dello scrittore romano: “Condizione preliminare | è che tu possa leggere, | condizione preliminare | è che possa scatenarsi la gara di potenza di significazione” (p. 14). Perozzi quindi, con inusitata abilità, cerca di setacciare – si passi la terminologia kantiana – il trascendentale, ossia la condizione di possibilità di lettura, quindi di scrittura, del fatto poetico.

La nuova NEM di Varese (che riprende l’eredità della storica Editrice Magenta e della Nuova Editrice Magenta) ha il merito di aver individuato due esordi importanti.
Il primo è quello di Simone Burratti, Progetto per S., uscito nella collana “Le civette”. Formalmente si potrebbe inserire nel novero del prosimetro e, a maggior ragione, al punto di riferimento storico-letterario di questo genere: la Vita Nova di Dante Alighieri. Burratti, dall’osservatorio di una stanza asfittica, sta “scrivendo da un tempo diverso” (p. 17), da dove si vorrebbe perdonare, con i rivitalizzati occhi d’infante, il proprio futuro. In questo originale libro l’ascendenza dantesca è totalmente rimodulata, non per esigenze letterarie, ma potremmo dire esistenziali: Beatrice non c’è, fantasmatica e aeriforme, viene nebulizzata: “ Chiudo gli occhi, e tu sei la ragazza che ho conosciuto ieri, che voglio rivedere… ma sei anche quella che è stata qui stanotte, e la mia vecchia S., prima che si tingesse i capelli. Passo in rassegna una serie di ricordi che ritengo piacevoli” (p. 24). La tensione desiderativa non conosce senhal né mediazioni: disgregata si può attendere, al massimo, una variazione atmosferica: “Serate buttate nell’attesa di un ribaltamento, di una deviazione del pulviscolo sotto la luce dei lampioni” (p.20). Merito di Burratti è creare un soggetto autoriale violento ma, contestualmente, elegiaco. La lama si macchia continuamente di sangue: “ la nostalgia non è amore, ma è l’unica cosa che mi tocca” (p. 24).
L’altro esordio, a nostro avviso tra i più notevoli nell’ultimo lustro, è Demi-monde di Silvia Righi, insignito del Premio pordenonelegge giovani nell’anno appena trascorso: nella premessa al libro si legge che  “Il concetto di ‘demi-monde’ proposto in questo libro non esiste. È un artificio” (p. 17). L’universo dimezzato di cui parla Righi, mutuato da un’espressione di Alexander Dumas, può essere spiegato facendo riferimento alla felice scelta di titolare un buon numero di testi con quello che nel sermo vulgaris si indicherebbe con “zero spaccato”: Ø. Da una parte, in linguistica, sta ad indicare un suono intermedio tra “o” e “e”, soprattutto nelle lingue nordiche, dall’altra, nel linguaggio matematico, indica un insieme vuoto. Siamo tra l’infinitesimale e lo zero. Questo interstizio che in analisi matematica potrebbe definirsi “differenziale” è ciò che si interpone sia tra gli individui umani, rendendo “crudele non desiderarti |a scapito dei divieti che avevo addosso” (p. 32) ma anche tra la dimensione ontologica del reale e del possibile: “Se mi addormentassi |una notte, senza premonizioni. !Se mi addormentassi per trent’anni |la camera comprimerebbe gli oggetti |fino a ridurre le cose in sogni | e i sogni in mondi” (p. 30).

Inoltre ricordiamo, con riferimento sparso ad altri editori, alcuni esordi che vale la pena analizzare. Il primo fra questi è Lei siete voi di Lorenzo Fava, pubblicato nel 2019 per Lieto Colle: la titolatura criptica ed evocativa crea una disseminazione di senso. Sotto l’insegna del pronome plurale “voi” si annidano tutte le voci che risultano “altre” rispetto a lei ma, anche, coloro i quali ascoltano “in rime sparse il suono”. Peculiare e del tutto inedito è il ricorso all’uso massiccio di lessemi tratti dalla lingua aritmetica: “equazioni”, “cifra”, “somma” e “incognita” fra i vari. Nella poesia proemiale si legge: “Sagome, figure da circo siamo | chiusi in equazioni di disordini | che non arrivano alla somma | delle carte” (p. 15).
Esordio emblematico è Campi di battaglia di Jessy Simonini (Sensibili alle foglie, 2021)  dove emerge a chiare lettere un irreplicato afflato politico. La prima sezione ricalca ipotestualmente Anedda, Il catalogo di Gioia Tauro: “Sono figlio di chi non va oltre la terza media | di chi non ha mai avuto tempo di leggere | le ginocchia rotte le tempie stanche” (p. 19). La stessa tensione si registra nella sezione Albumi di famiglia, con epigrafe leniniana dove si riconosce che “ogni giorno c’è chi muore da solo | sotto i carrelli di uno scarico merci | cadendo da un’impalcatura malferma” (p. 34). Citando poi la Gianna Nannini di California (“Quando i padri sono stanchi | l’odio ci passava sopra | ma non ci separava”) la vicenda personale viene diluita sul fronte collettivo: “si può considerare l’amore come parte | di un perfetto piano rivoluzionario” (p. 41).
Ricordiamo infine l’originale esordio di Jacopo Mecca, solchi, 2021: una piccola plaquette edita per Fallone editore, nella collana Il leone alato, che consta di dodici testi. Anomalo è il ricorso costante a forme deittiche ma con una parvenza di menzogna: il “qui” e “ora” più volte chiamati in causa nel libello, segnalano un reale forato, dove c’è sempre un ente da osservare ma di cui sfugge il senso e che fuoriesce dal “solco”, delirando: “ma qui ora è lontano e difficile da dire” (p. 13); “Non serve chiedersi quando ci sia finita | in questo spazio cieco lungo il fianco | dal letto e la parete, sul fondo | di questa faglia che ha per fine il pavimento, | non serve chiedersi come ci sia finita una forcina” (p. 16).

Di fatto il nostro lavoro di censimento potrebbe proseguire ad libitum, essendoci un ampio novero di case editrici da indagare. Possiamo segnalare tre validi esordi proposti da Italic Pequod di cui ricordiamo Michele Bordoni, Gymnopedie (2018), Stefano Modeo, La terra del rimorso, (2018) e soprattutto Emanuele Franceschetti, Terre aperte (2015): la titolatura dischiude un immaginario geologico dove la fessura terrestre richiama il “tra”, lo “zwischen” heideggeriano posto tra Erde e Himmel, terra e cielo. La parola viene posta sotto numi tutelari sacri, in un’ottica paneuropea, da Hölderlin a Betocchi (da cui derivano alcune epigrafi): “Stanotte, la notte l’ho scesa giù |a sorsi, piano, come un dolore atteso. ! Poi ho sognato di vegliarci, senza il rimorso del possesso. |Così manca l’uomo a se stesso, |pur conoscendo le latitudini e l’universo” (p. 22).
Quest’ultimo autore esordisce presto e precedentemente al periodo dai noi preso in considerazione (2016-2021). Un lavoro a parte meriterebbe infatti un’analisi dei primi anni dieci (2010-2015), in cui esordiscono vari autori nati negli anni Novanta, dai sicliani Gianluca Furnari e Giuseppe Nibali, alla campana Eleonora Rimolo.
Medesimo discorso vale per Marco Saya (di cui ricordiamo l’esordio della sarda Valentina Murrocu), Nino Aragno (con l’esordio del milanese Rudy Toffanetti), Ensemble (si pensi all’esordio queer Carne incognita di Scialpi), Terra d’Ulivi (si distingue Turbative Siderali di Giovanni Ibello), Giuliano Ladolfi (con Soglie di Massimo Del Prete), Transeuropa,  Nor etc. Si segnalano infine la collana Gialla di Pordenone Legge per cui ricordiamo La casa e fuori (2019) di Francesca Santucci e la A27 di Amos in cui esordisce Marco Villa con Un paese di soli guardiani (2019), entrambi componenti storici della senese Formavera di mazzoniano influsso con Burratti e con Pietro Cardelli, che esordisce con La giusta posizione nel XIV Quaderno Italiano.
A tal proposito i Quaderni Italiani Marcos y Marcos meriterebbero un discorso a parte come sede privilegiata da indagare, in cui a esordi si affiancano conferme (per il XIV poeti come Carmen Gallo, Andrea Donaera e Maddalena Lotter). Nel XV Quaderno (2021) troviamo ben tre esordi, di Linda Del Sarto, Matteo Meloni e Sara Sermini, prefati da Franca Mancinelli, Fabio Pusterla e Antonella Anedda, a cui si affiancano le conferme dei già menzionati Ottonello, Franceschetti e Burratti.

In conclusione ci sentiamo di ricordare che gli esordi, evidentemente, non potevano essere censiti nella loro totalità per la mole sconfinata di materiale su questo fronte. Tuttavia è bene precisare che su alcuni il silenzio sia una scelta deliberata, soprattutto verso il fenomeno – non così raro – degli enfants prodiges su cui già sferzava il saggio Raboni. Per utilizzare una metafora del critico francese ottocentesco, Charles Bigot, in un articolo dedicato alla nascente estetica naturalista, le creature infanti, in senso letterario, “per farsi riconoscere” come ogni neonato che viene al mondo, “strillano troppo”. 

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J.K. Stefánsson | Incipit da “Storia di Ásta”

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