Una costante sottesa nella poesia di Antonella Anedda, già a partire dall’esordio con Residenze invernali (1992), è la ricerca di una lingua, anonima o sconosciuta, attraverso la quale ritrovare il proprio nome e magari quello degli altri, strapparlo alla dimensione di ciò che è vinto, perduto. Il riuso del latino si inserisce all’interno di questa poetica e ciò che vorrei qui evidenziare è che va a incrociarsi con il recupero del sardo. Compirò qui un breve percorso sull’opera di Anedda in tre tappe, per esplicare quello che intendo.
In Notti di pace occidentale (1999) non abbiamo evidenti citazioni latine o testi in sardo, ma abbiamo numerosi passaggi in cui si parla di una propria lingua, anche con riferimento a latino e sardo. È come se fosse in preparazione quello che poi avverrà nelle successive sillogi. Infatti la scrittura di Anedda arriva alla luce con lentezza e riluttanza, accoglie il silenzio che fuori dall’isola, nel Continente – così chiamano i sardi ogni luogo fuori dalla Sardegna – non è conosciuto. Per cui è «l’isola di un pensiero che mi spinge / a restringere il tempo / a dargli spazio / inventando per quella lingua il suo deserto». Già qui si ha probabilmente una eco tacitiana, dal discorso di Calgàco (contenuto nell’Agricola), ovvero il capo degli indomabili Caledoni, tribù celtica che era situata nell’attuale Scozia. Nell’italiano di Antonella Anedda risuona, dunque, un’altra lingua più scabra, una “lingua di sostrato”, soppressa dalla cultura conquistatrice e non del tutto conosciuta, una lingua proveniente «da un’isola / il cui latino ha tristezza di scimmia». Qui, invece, il richiamo è a Dante, che nel De vulgari eloquentia scriveva che i sardofoni sono solo imitatori del latino, la grammatica per eccellenza, a mo’ di scimmie (grammaticam tamquam simniae homines imitantes).
In realtà, questa idea densa di pregiudizio non è una trovata dantesca del tutto originale, già i Romani avevano una forma discriminatoria verso la Sardegna e i sardi; un illustre precursore è ad esempio Cicerone. Proprio in una poesia della quarta silloge, Dal balcone del corpo (2007), avviene un riuso latino da un’orazione di Cicerone. Non a caso, il testo è in sardo ed è inserito nella sezione Limba, la prima nell’opera omnia di Anedda in cui compare un nucleo di testi in limba (“in lingua”, così dicono i sardi quando non parlano italiano, dicono di parlare in limba). Infatti, per i sardi – ma anche, come molti dimenticano, per i linguisti – il sardo non è un “dialetto” dell’italiano, ma una “lingua”, un sistema linguistico con i suoi propri dialetti, a sé stanti rispetto al sistema linguistico italiano. Al di là di ciò, il titolo della poesia Contra Scaurum non è altro che un rovesciamento dell’orazione ciceroniana (giuntaci frammentaria) Pro Scauro, richiamando una vicenda di sopruso sui cui qui non mi dilungo (sono vari i capi di accusa per Scauro, tra cui malversazione a danno della Sardegna). Da notare che Cicerone per difendere il suo assistito faceva leva sull’inaffidabilità dei Sardi, facendo suo il pregiudizio greco contro i Fenici (loro acerrimi rivali nel commercio). A suo dire, ignorando del tutto la cultura sarda nuragica e precedente, i Sardi non sarebbero altro che un popolo inferiore, misto tra gli scarti dei coloni punico-cartaginesi (che a loro volta derivano dai Fenici) e una imprecisata stirpe di Africani. Antonella Anedda, dunque, mette a fuoco l’arroganza del prevaricatore italico e ricorda come ormai si aggiri minuscolo tra le pietre anche il nome proprio di Cicerone. Seppure nemmeno i testimoni sardi ci sono più, a resistere sono i suoni e i sapori dell’isola, uniti in sinestesia: «lingua di cardo, corbezzolo, sale».
Infine, il percorso di Anedda trova il suo più recente sviluppo nella sesta silloge Historiae (2018), che già dal titolo instaura un parallelo con Tacito, essendo il titolo di un’opera tacitiana (molti riferimenti vengono anche dagli Annales). La ripresa latina si configura in maniera complessa: non avviene soltanto in senso contenutistico, ma si inserisce anche qui all’interno di una questione linguistica. La lingua di Tacito risulta di conforto, per la capacità di esprimere senza pompose retoriche la tragicità dei fatti della storia, con i suoi rari aggettivi e il gerundio che evita inutili giri di parole. Tacito, nello specifico, è scelto non solo come modello linguistico, ma per essere stato uno degli scrittori latini in grado di dare voce alle popolazioni dei vinti, ad avere il coraggio di dire noi, senza vittimismi. Al di là della tematizzazione, in questa silloge sono riportate epigrafi in latino e tradotti passi dal latino; sono anche presenti citazioni da altri autori quali Virgilio (Eneide in questo caso). Ma al di la tutto ciò, proprio in questa silloge prende sempre più spazio quel bilinguismo già riscontrabile in parte in precedenti raccolte: alcuni testi, come quelli incipitari che qui potrete leggere e ascoltare, sono scritti in sardo a base logudorese, la lingua neolatina più vicina al latino, che è ricalcato lessicalmente e sintatticamente. Tuttavia, il sardo di Antonella Anedda è una lingua impura, ricostruita, che comprende varianti di differenti dialetti del sistema sardo: nuorese, campidanese, ma addirittura gallurese-maddalenino, che pur influenzato dal sardo, rientrerebbe per i linguisti nel sistema italiano (basti un esempio, l’articolo determinativo singolare femminile del sardo è “sa”, ma anche nella scrittura in sardo troviamo a volte l’articolo “la”). Quella di Anedda è una lingua che porta in colluttazione e mescola la tensione verso una lingua passata, dell’oralità e dei ricordi, con una lingua futura, in continua evoluzione, invenzione. Se Georg Steiner, da poco scomparso, nell’opera magistrale After Babel scriveva che ogni atto comunicativo è in realtà un atto di traduzione e che la traduzione è una spinta vertiginosa verso la libertà, in definitiva, la lingua poetica più autentica, originaria e libera di Antonella Anedda ha il paradosso e miracolo di potersi dare solo in traduzione.
Francesco Ottonello
IX a Zbigniew Herbert È vero, l’allarme si alza dalle stelle l’argento non ha luce sul barbaro grido di terrore. L’imperatore ha spento il lume ha chiuso il libro. In basso la terra scuote l’orlo dei vasi e il ferro brucia freddo sui fili. Lui dorme nel quadrato dei secoli alti nel vento come aeree gabbie. Non sente il bronzo del trono sulla nuca né il rintocco dei chiodi sulle porte. Dormirà per sempre. Perciò sospendi tu la quiete prova a rovesciare il dorso della mano a raggiungermi nel nome di una lingua sconosciuta perché parlo da un’isola il cui latino ha tristezza di scimmia. Un mare una pianura, nuvole di tempesta contro i fiumi uccelli nel cui becco gli steli annunciano alfabeti. Forse solo così – Zbigniew può viaggiare il cesto dei libri sulle acque così credo giunga la voce la stretta del viso nell’orrore fino a un’orma fenicia, a un basso scudo privo – come il tuo – di luce. da Notti di pace occidentale (1999) -------------------------------------------------------------------- Contra Scaurum No ischio iscrivere de Roma. Meda belluria, dechidu, mutas 'e linu. Forzis gòi – sunt binti seculus – pessaint cuddos sardos bennitos a dimandare zusstissia contra Scauro. "Zente chene ide... terra ue peri su mele est 'ele" Gòi nàrriat Cicero in faeddu suo. Ora, in mesu petras bortat suo lumene, lestru, minutu. Ma sicutera morint sos distimonzos, s'ape tribulat. Reghet su mele: limba e 'lidone, gardu et sale. * Contro Scauro Non so scrivere di Roma. Troppa bellezza, eleganza, tuniche di lino. Forse così – venti secoli fa – pensarono quei sardi venuti a chiedere giustizia contro Scauro. "Gente senza fede... terra dove perfino il miele è fiele" Così diceva Cicerone nella sua orazione. Ora il suo nome gira tra le pietre, minuscolo, veloce. Ma come allora muoiono i testimoni, l'ape si affatica. Resiste il miele: la lingua di cardo, corbezzolo, sale. da Dal balcone del corpo (2007) -------------------------------------------------------------------- Limbas Onzi tando naro una limba mia da inbentu in impastu a su passado da dongu solamenti in traduzione Limbas Ogni tanto uso una lingua mia la invento impastandola al passato non la consegno se non in traduzione II Sa luna chilliat in su core de l’isula su silenzio infossa in sa Bidda des gurules mortas. Comenti in tempos de Roma ispingherent in sos puthus sos mortorzus Cusint su piumu ki fat drittu s’oru de sa beste de prantu. II La luna gela dentro il cuore dell’isola il silenzio s’infossa nel paese delle gole morte. Come al tempo dei Romani spingono le carcasse nei pozzi bruciando di vendetta dopo anni. Cuciono il piombo che fa dritto l’orlo del vestito di lutto. da Historiae (2018) Antonella Anedda
Antonella Anedda
Antonella Anedda-Angioy, nota semplicemente come Antonella Anedda, è nata a Roma da una famiglia sardo-corsa. Si è laureata in storia dell'arte moderna studiando tra Roma (Università di Roma La Sapienza), Venezia (Fondazione Cini) e Oxford, dove ha conseguito il titolo di Doctor of Philosophy (PhD). Ha insegnato all'Università di Siena ed è professore a contratto presso l'Università della Svizzera italiana di Lugano.
È autrice di Residenze invernali (Crocetti Editore, Milano 1992), Notti di pace occidentale (Donzelli Editore, Roma 1999), Il catalogo della gioia (Donzelli Editore, Roma 2003), Dal balcone del corpo (Mondadori Editore, Milano 2007) e Salva con nome (Mondadori Editore, Milano 2012). Le sue traduzioni e variazioni sono raccolte nel volume Nomi distanti (Edizioni Empirìa, Roma 1998). Tra i saggi si ricordano Cosa sono gli anni (Fazi Editore, Roma 1997), La luce delle cose. Immagini e parole nella notte (Feltrinelli, Milano 2000), La lingua disadorna (L'Obliquo, Brescia 2001), Tre stazioni (Lieto Colle, Faloppio 2003), Come solitudine (Donzelli Editore, Roma 2003), La vita dei dettagli. Scomporre quadri, immaginare mondi (Donzelli Editore, Roma 2009) e Isolatria. Viaggio nell'arcipelago della Maddalena (Laterza, Roma-Bari, 2013).